La direzione artistica di JAZZMI quest’anno presenta il festival tornando a Ornette Coleman e al suo capolavoro del 1959: “The shape of jazz to come”. Scelta lineare, corretta, benché ambiziosa, perché solo Ornette e pochi altri illuminati erano in grado di guardare il futuro, e forse di plasmarlo. Quaggiù, nell’anno 2024, nel grigiore della città-parcheggio, il futuro resta avvolto da nebbie ritrovate, che pure proprio all’arrivo dell’autunno si diradano in un lieto candore. Il futuro imminente è qualcosa che possiamo guardare con serenità, almeno qui e forse solo qui. Tanto che anziché lo sguardo futurista di Ornette viene in mente il buonismo festivo di Andy Williams: “It’s the most wonderful time of the year”. Già, perché quando arriva JAZZMI è come se fosse Natale, di colpo Milano si scopre una città aperta, accogliente, contemporanea, curiosa e rumorosa. Un miracolo che dura solo per quattro settimane, godiamocelo.
«C’è poco jazz, c’è meno jazz. Il che è la cosa più jazz possibile.»
Addirittura, JAZZMI cresce. Si allarga nei numeri e nei luoghi di incontro. Ha le sue radici ben solide in una manciata di spazi, ma non ha paura di allargare lo sguardo oltre. Anche, soprattutto, oltre al jazz. Spulciando l’immane programma della rassegna meneghina quello che balza all’occhio è esattamente questo: c’è poco jazz, c’è meno jazz. Il che, a pensarci bene, è la cosa più jazz possibile.
Il tutto in un programma così grasso che per riassumerlo ci vorrebbe il prof. Bignami in persona. Dai grandi vecchi del jazz fino alle nuove spinte centrifughe, passando per ibridazioni di ogni genere, persino cinematografiche, più che un libretto ne uscirebbe un’enciclopedia. I primi, doverosamente immancabili, sono rappresentati da Bill Frisell, Dave Weckl e Tom Kennedy, Peter Erskine, Franco D’Andrea, Billy Cobham, Joe Lovano e da un inavvicinabile (tutto esaurito da tempo) Pat Metheny. Nonchè da Dave Holland e Chris Potter, che rinnovano il loro incontro con la tabla di Zakir Hussain, o dai Seun Kuti con i leggendari Egypt 80. I secondi da Ilhan Ersahin, Moor Mother, Groove&, Nubiyan Twist, Albaster DePlume, Talib Kweli (o per stare a latitudini più prossime: dai romagnoli Supermarket, dal trio Abdo / Buda / Marconi, dall’inarrestabile crew di We Insist!, dal Collettivo Immaginario e tanti altri). Curiosamente – o per meglio dire: ovviamente – nessuno di questi ultimi appartiene alla musica jazz. Perché il jazz, si può ripeterlo fino alla nausea, è incontro, ibridazione, scambio. Tanto che la sintesi ideale di questa edizione potrebbe essere la rilettura di „Sketches of Spain“ di Miles Davis affidata al ballerino di flamenco Israel Galván, in scena per tre sere al Teatro Menotti Filippo Perego.
È il Natale della musica a Milano, e a Natale i regali sono vari, non sempre graditi, ma è dall’infanzia che continuiamo a sperare che siano tanti. E uno diverso dall’altro, altrimenti che gusto c’è?
Al sito della manifestazione è possibile consultare il programma completo, clicca QUI.