Negli ultimi anni alcuni tra i format televisivi di maggiore successo si sono basati su un’idea molto semplice quanto efficace: spiegare alle persone come si fanno le cose, perchè saremo pure in grado di comunicare via internet con l’altro capo del Mondo nel giro di un secondo, ma caschiamo dal pero se si tratta, tanto per dirne una, di collegare due fili per far funzionare una lampadina. Così, abbiamo deciso di fare un ripassone generale sul processo di produzione della birra e come „istruttori“ abbiamo scelto i ragazzi di Eternal City Brewing, di cui ci siamo fatti anche raccontare la storia, già che c’eravamo. L’interlocutore della nostra chiacchierata è stato Giacomo, ma ringraziamo allo stesso modo tutto il resto del team ECB. Qualora vogliate andarli a trovare anche voi, li trovate tutti i giorni in Via Ponte Pisano, 84.
Il nostro intento è stato sin da subito quello di dare un’identità marcatamente territoriale alla birra, sulla base delle produzioni inglesi o americane in cui tu hai il birrificio che diventa un riferimento. A Londra, ad esempio, ci sono Camden Town Brewery, Five Points e altri ancora. In America hai il birrificio rappresentativo della città, con l’appartenenza che diventa anche un sottotitolo della birra: “proudly made in”. Anche in Germania è così.
In Italia mancava, nonostante il movimento brassicolo fosse cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi anni. Mancava anche a Roma, ovviamente: non c’era un progetto che richiamasse la città così fortemente. Il nostro intento, però, non era assolutamente commerciale, non volevamo fare la pizzeria del centro con i gladiatori a macchietta. L’idea era quella di dare profondità abbracciando tutta la storia della città, non solo la Roma antica, imperiale, che fa molto scena. Abbiamo sviluppato il progetto molto attraverso le etichette, ognuna delle quali è legata a un fatto, un luogo, un pezzo di storia della città e nel retro viene spiegato perché quella birra si chiama così. L’associazione ovviamente non è sempre con lo stile della birra perché sarebbe impossibile. In alcune casi, però, ci siamo riusciti, ad esempio con la Tre Scrocchi, una Tripel, con il tre scrocchi che era il coltello dei bulli romani. L’ultima nata, la 21/4, è una birra in cui c’è del rosmarino dentro e il rosmarino era una pianta propiziatoria usata in alcuni riti arcaici. Oltretutto questa birra l’abbiamo fatte uscire il giorno del Natale di Roma. All’inizio si doveva chiamare con un altro nome, poi abbiamo detto: «Fermi, quando esce? Ad aprile? Lavoriamoci su allora!». C’è la Caledonia, una Scotch Ale, e Caledonia è il nome romano della Scozia. Ora stiamo preparando una nuova birra, una West Coast Ipa. Lo stile l’Indian Pale Ale ha diverse diramazioni e uno è tipico della della costa Ovest degli Stati Uniti, della California, quindi la chiameremo A Ovest di Roma, come il libro di John Fante. Noi siamo sul serio a Ovest di Roma, quindi ha significato e attinenza. Giusto per non far vedere che siamo solo ‚mbriaconi: ecco, vedete che qualche libro l’avemo letto pure noi!? È impossibile avere un’associazione diretta su tutte le referenze, ma quando è possibile lo facciamo.
Il progetto iniziale nasce da me, Giacomo, Maurizio, il birraio, e Davide, un ragazzo che sfortunatamente ci ha lasciato e a cui noi dobbiamo dire grazie ogni giorno perchè ha avuto una forza incredibile nel farci conoscere. Noi siamo partiti come beer firm e quello della beer firm è un po‘ particolare come progetto: ti diverti, hai un investimento relativamente basso, fai una cotta, la vai a vendere e finisce lì. Dopo che compri gli ingredienti vai in un birrificio, il birraio ti fa assistere alla cotta, ma sull’impianto ci mette le mani lui. I pub e i gestori di locali sono restii rispetto alle beer firm perché loro hanno bisogno di continuità sul prodotto che vendono: sia rispetto al sapore – se la birra non è tua, tu birraio puoi essere il migliore del Mondo, ma non ci metterai mai la stessa cura che invece metti in una birra che è tua al 100% – sia rispetto alle quantità, alla costanza di approvvigionamento, perché il birrificio che ti ospita ha un suo calendario e se è tutto pieno rimani senza prodotto. Davide è andato un sacco in giro, ha conosciuto e si è fatto conoscere come beer firm. Noi ci siamo appoggiati da Birradamare e da un altro birrificio a Viterbo che, devo dire, sono stati sempre molto attenti alle nostre esigenze. Il mondo della birra è ancora nella fase in cui c’è grande amicizia, forse ancora per poco… Abbiamo fatto un paio di anni, abbiamo cercato dei finanziamenti, con un po di difficoltà perché molti erano a lungo termine, mentre noi avevamo capito che il momento per aprire era quello e volevamo essere i primi all’interno del GRA. Poi abbiamo chiesto finanziamenti europei, bancari: diciamo che se non avevi una capacità di base non ti davano niente, che è un po‘ un controsenso perché se c’ho i soldi lo faccio direttamente il birrificio, non è che vado a chiedere finanziamenti! Poi, fortunatamente, siamo riusciti a convincere Alessandro a investire in maniera molto professionale per aprire il nostro impianto. Così, tra maggio e giugno del 2015, da beer firm siamo passati a birrificio e da fine ottobre di quello stesso anno abbiamo cominciato la nostra produzione. Ci siamo resi subito conto che le birre fatte con le stesse ricette erano proprio un’altra cosa. Ma non per demeriti degli altri birrai, ma perché sei tu a curare tutto dall’inizio alla fine e magari riesci anche a correggere una cotta nel tempo. Quando sei beer firm, invece, vai nel birrificio il giorno della cotta e poi torni a prendere i fusti. La birra ha fasi molto delicate, come il trasferimento o la carbonazione. C’è l’infustamento, l’imbottigliamento, la rifermentazione…
Qui nello stabilimento, prima che lo prendessimo noi, c’era un falegname. Era un edificio completamente abbandonato, considera che non c’era nemmeno il tetto. E da una parte è stato un bene perché abbiamo rifatto i lavori completamente con le idee nostre. Devo dire che la scelta è stata casuale: un giorno stavamo tornando da un sopralluogo di un altro posto – che non andava bene – abbiamo visto il cartello per strada, siamo entrati e abbiamo detto: «Questo è il posto per noi». E devo dire che dopo due anni la scelta è stata azzeccata: sei dentro il Raccordo, ma in un posto tranquillo, in mezzo al verde. Pensavamo anche che la tap room zoppicasse un po‘, invece abbiamo dovuto tenere aperto tutte le sere fino alle 24:00 perché la gente non se n’andava! Vengono persone di Corviale e Pisana, amici, appassionati di birra artigianale, ‚mrbiaconi… Considera che il primo locale che vende birra artigianale decente rispetto a questa zona si trova a Monteverde.
Come beer firm facevamo una American Pale Ale, la Urbe, poi abbiamo fatto una Indian Pale Ale perché il mercato la richiede – che poi è venuta anche molto bene – una Stout e una American Lager. Da quattro birre siamo arrivati a 12-13 referenze, alcune one shot, altre riproposte, altre in linea fissa di produzione, sempre per il discorso della continuità nell’approvvigionamento. La Urbe, che è stata la nostra prima birra, è arrivata terza al Beer Attraction di Rimini nello stile American Pale Ale, che è una delle più ricercate. Quest’anno siamo arrivati primi con la Golden Ale, la Dea, su oltre mille birrifici presenti e terzi con una Hoppy Belgian Ale, la Arvalia, che è il nome del municipio in cui siamo e che deriva dagli Arvali, il primo collegio sacerdotale di Roma, fondato, secondo la leggenda, da Romolo stesso.
Le ricette sono del birraio, Maurizio, che ha festeggiato i 10 anni di attività lo scorso dicembre come home brewer: gli abbiamo dedicato una cotta di Apa che si chiama appunto Coccia de Morto, come il nome della sua prima etichetta da brewer, visto che lui è di Fiumicino. Segue la birra artigianale da tanto tempo, quindi è molto attento a tutto quello che succede, agli stili richiesti e ai trend del momento. Per nostra fortuna/sfortuna siamo un gruppo di persone che si muove, va in giro nei locali, partecipa ai festival, conosce e si fa conoscere.
La produzione della birra parte dalla sala granaglie, in cui vengono macinati i malti scelti precedentemente. Il malto lo seleziona il birraio in base alla ricetta, ci sono delle schede di produzione in un ognuna della quali c’è scritto qual è la resa del prodotto. Noi usiamo tutti prodotti certificati: costano un po‘ di più, ma almeno c’è certezza sulla provenienza e sulla resa indicata. Così come i luppoli, che sono quelli che ti determinano la differenza rispetto alla birra industriale, anche loro hanno delle rese totalmente diverse, ma con profumi e sentori molto diversi.
A seconda della quantità dei malti e della grana della macinatura viene una birra o un’altra. Facciamo la macinatura all’interno del molino la mattina, il processo di produzione parte verso le 06:00. Il processo, però, non è quotidiano: è la fermentazione a dettare i tempi, perché durante la fermentazione devi stare fermo. In teoria la sala cotte potrebbe lavorare 24 ore su 24, ma in pratica dovresti avere un sacco di fermentatori per accogliere tutti i litri di birra che andresti a produrre ininterrottamente. Noi facciamo una o due cotte a settimana.
Dopo la macinatura s’encollamo i sacchi, fisicamente uno a uno, e li mettiamo dentro il tino di ammostamento, dove si miscela l’acqua con i malti. Anche qui è il birraio che decide tutto, perché il processo è alchemico, il risultato dipende dall’utilizzo degli ingredienti e dalle quantità. Finita questa parte, il liquido, grazie a una pompa, passa nel tino filtro in cui viene separata la trebbia dal mosto, la parte solida dalla parte liquida. Quella solida viene presa e data a qualche azienda agricola, ed è sempre trattata a mano, per un discorso di produzione artigianale. In alcune occasioni con la trebbia ci facciamo il pane per i nostri hamburger. Dopo il filtraggio il mosto ritorna nel tino di bollitura e comincia a bollire. In questa fase vengono messi altri ingredienti, tra cui il luppolo. Il birraio rispetto ai luppoli decide le quantità e le tempistiche, perché più tardi li metti meno la birra viene amara, ma ha meno sentori. Il luppolo, prima lo metti, prima agisce rilasciando il sapore. Dopo la bollitura il mosto passa all’interno di uno scambiatore di calore e va nel fermentatore, passa da temperature di quasi 100° a 18° e 20°. Questo perché deve essere aggiunto il lievito, che è un organismo attivo, per cui vive in questo intervallo di temperature: se la temperature è troppo alta muore, se è bassa non si attiva.
Faccio una premessa: tutto Ciò che viene fatto qui dentro segue delle fasi di pulizia e sanificazione totali. La nostra birra non è pastorizzata, si può alterare facilmente, per questo sanifichiamo qualunque tubazione e qualsiasi macchina che utilizziamo.
La birra sta nel fermentatore più o meno tempo a seconda della ricetta, poi viene filtrata, ma non viene microfiltrata, così nel prodotto si mantiene tutto ciò che dà sapore e sostanza. Nell’ultima fase c’è lo zucchero per la carbonazione: viene miscelato e poi il prodotto complessivo viene mandato nella cella calda tra i 18° e i 25°, questo permette ai lieviti di rifermentare e di far partire la carbonazione.
Dopo questo ulteriore processo, la birra va in cella fredda per bloccare la fermentazione e si dovrebbe mantenere questa temperatura bassa, di 5°-6° gradi circa, fino a quando non arriva al bicchiere, per evitare che ci siano destabilizzazioni. Per questo noi ci affidiamo a una distribuzione che ha una catena del freddo completo: dal trasporto al locale che la serve. Se tu in un locale bevi una nostra birra che non sta in forma, pensi che sia la birra che faccia schifo, non che ci siano stati problemi nella distribuzione o nell’impianto del locale.
La quantità di litri a cotta dipende dal fermentatore. La sala nostra cotte è più o meno da 900 litri, ma i litri effettivi cambiano a seconda della ricetta, se carichi più o meno malti etc. Siamo intorno ai 2.100-2.200 per il fermentatore grande, 1.000-1.200 per il fermentatore piccolo, quindi diciamo sui 6.000 litri al mese, poi messi in bottiglie e, per la maggior parte, in fusti. Anche l’imbottigliamento e l’infustamento viene fatto a mano per cui per noi è più comodo fare i fusti. Però le bottiglie sono quelle che vanno più in giro, che aiutano a farti conoscere, mentre il fusto rimane nel locale. Tutti ‘sti bistrot, mezzo gourmet mezzo panino, ormai non mettono la birra industriale, ma quella artigianale: si fanno una carta delle bottiglie di birra e con loro lavoriamo molto. Stiamo uscendo anche fuori Roma come clientela, lavoriamo in Sicilia, in Calabria, in Emilia, patria della artigianale, e anche in Lombardia: a Milano con la lupa, l’avresti mai pensato?! Il nome Eternal City è stato scelto da Davide, ma i nomi delle birre sempre un problema: litigi, discussioni infinite, ce sta sempre chi dice no, qualsiasi cosa sia! Alla fine però tutti i nomi che abbiamo utilizzato sono andati bene.
Un’ultima considerazione la voglio fare sulla burocrazia, che ti porta via l’anima. Devi comunicare tutto e sempre all’Agenzia dell’Entrate, perché si pagano le accise sulla produzione di mosto, in base al grado plato, in base ai gradi alcolici in poche parole, quindi su birre differenti si pagano tasse differenti. C’è sì il contalitri, ma poi vai a dividere i litri complessivi prodotti rispetto alle birre che hai fatto! Inoltre, il contalitri è alla fine della sala cotte e da quel momento della produzione alla bottiglia finale c’è uno spreco – dico un numero a caso – del 10% e su quello spreco paghi comunque le tasse: non paghi le tasse sulla birra che esce dal birrificio, ma sulla cotta, e oltretutto non c’è differenza di aliquote tra un birrificio industriale e uno artigianale. Bisognerebbe fare qualcosa anche in questo senso per incoraggiare la produzione.