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La periferia vi guarda con odio: micrografia del maranza (e del rap) di oggi

Un dialogo con Gabriel Seroussi, autore dell'ultimo libro di Agenzia X fra TikTok, gen 2016 e gli inevitabili cambiamenti generazionali.

Geschrieben von Carlotta Magistris il 11 November 2025

Incontro Gabriel in un bar di quartiere poco distante dal posto in cui lavoro. Affianco a noi due avventori che origliano buona parte della conversazione e dopo che ci salutiamo mi fermano per farmi delle domande: uno viene da Baggio, l’altro da Cernusco, ascoltano rap da sempre ma giustamente „queste pare non se le sono mai fatte“ e hanno deciso di farsele proprio quel giorno con noi. Mi fanno domande, divento io l’intervistata e capisco ancora meglio quanto da un punto di vista più o meno esterno risulta difficile comprendere gli intrinseci cambiamenti delle dinamiche della musica che arriva dalla strada e parla della strada, seguendo di pari passo i cambiamenti della società in termini micro e macroscopici. 

La periferia vi guarda con odio, il primo libro di Gabriel Seroussi uscito per Agenzia X, non parla solo di hip hop: parla della Milano di oggi e di quella di ieri, delle tensioni contemporanee che si porta dietro, e delle paure che emergono nel chiaroscuro contemporaneo che fanno puntare il dito in direzioni più o meno fuorvianti.

Inevitabilmente anche il dialogo a riguardo parla di quello, incominciando dalle mie ricerche in tempi non sospetti grazie allo youtuber Gab Morrison, che mi ha fatto scoprire in termini di diggate hip hop le bellezze di Corvetto a Milano e della Barriera di Milano a Torino. Impressionante quest’ultima per quanto fermento di seconda generazione c’è e quanto allo stesso tempo tutto rimanga nel sottosuolo, nonostante lo urban in tutte le sue forme è attualmente l’immaginario preferito delle major… 

Dalla Barriera sta uscendo parecchia roba, stanno andando forte ma ancora non riescono a fare il salto.

Sì, stanno spaccando. In generale il suono è molto Tiktok friendly, meno grill/gangsta ma più da social. Detto questo, diciamo che tutto quello che sta fuori dal segmento Milano fa fatica ad emergere nel contesto rap, soprattutto ciò che non strizza l’occhio al pop…

Sono le label per prime vanno sempre più a puntare su questo genere oppure è ancora la fame del rapper che è sempre più feroce?

Entrambe. L’ambizione della maggior parte dei rapper è quello di arrivare in alto commercialmente, almeno quel rap non conscious o impegnato, per questo la viralità su TikTok etc. Quello che sta accadendo però è che sempre più label nate insieme agli artisti di seconda generazione stanno iniziando a costruire dei percorsi con una maggiore autonomia rispetto a prima prendendosi degli spazi propri, dei propri studi di registrazione e spazi in cui fare shooting, con l’idea di internalizzare tutta una serie di processi e farsi le spalle più larghe. Qui a Milano succede spessissimo ma anche i ragazzi di Barriera di cui parlavamo prima hanno fatto la stessa cosa… Al di la dell‘ internalizzare i costi, secondo me c’è anche un ragionamento lungimirante legato al fatto che le carriere nel mondo del rap non sono mai particolarmente lunghe, quindi avere i propri riferimenti interni permette di muoversi più liberamente. 

Le carriere non sono lunghe per il solito discorso delle tematiche affrontate?

Un po’ il rap è un genere molto giovane ma che tende anche a seguire cambiamenti repentini di stile: quello che fai ora potrebbe non funzionare fra 6 anni. Quella che possiamo chiamare la generazione 2016 probabilmente per una fretta di svoltare non ha fatto in tempo a costruire un mercato del rap che fosse indipendente da quello pop ed è finito per farsi riassorbire dalla dinamica di Sanremo e tutte le altre coordinate relative. Attualmente invece sto vedendo emergere artisti che non vedo a fare quel tipo di percorso per la tipologia di rap che fanno: è difficile prevedere le dinamiche ma mi aspetto che per come sta andando la scena possa arrivare più o meno presto il momento di questa indipendenza.

Sicuramente i temi e le dinamiche testuali del rap raccontano di dinamiche e problematiche di vita giovanile  che cambiano molto in termini generazionali di pari passo a come cambiano i parametri con cui ti muovi nel mondo. 

C’è una bella intervista di Marracash di qualche anno fa in cui dice che dei rapper ci si ricorda principalmente i primi due dischi: il primo dice “vengo dalla fame e voglio uscirne” e il secondo dice “ne sono uscito e ora mi godo la vita”. Da lì c’è tutto quello che viene dopo questo percorso molto classico, ovvero la capacità dell’artista in questione di rinnovarsi. Nel suo caso, ha avuto il suo percorso e poi è arrivato a Persona, un disco maturo: un aggettivo che non è facile utilizzare nel genere.

Una cosa che però mi ha colpito ad esempio al concerto di Fabri Fibra del mese scorso era che nonostante fosse un pubblico molto piccolo in termini di età, tipo gente nata del 2004, quelli che comunque sentivi cantare più forte erano i primi dischi. Fabri parlava negli anni 90/0 di un certo tipo di bisogni, mi chiedo come la gente nata dopo quel momento possa gasarsela. 

Questo pensando anche ai Club Dogo e cosa è successo quando anni dopo hanno fatto il concerto nel palazzetto credo che sia più legato alla maggiore capacità di diffusione del rap, che è diventato sempre più di tutte e di tutti. Personalmente nel 2004 Mifist non me lo ascoltavo ma poi ho sentito la mancanza di qualcosa che non ho mai vissuto. Il meccanismo è che negli ultimi 10 anni il rap è veramente il genere più ascoltato da tutte e tutti, il pubblico è aumentato a dismisura ed è molto più grande il bacino di utenza dei Club Dogo ora rispetto a quando erano più popolari. 

Quindi il pubblico del rap è cambiato. 

Sicuramente un passaggio fondamentale avviene a metà anni zero quando la generazione di Fabri, Marra etc inizia a tracciare un possibile percorso rap in termini discografici italiani.

La generazione 2016 poi ha sancito il rap come un genere che tutti ascoltano e che non ti definisce più come persona: la categoria del rappuso non è più così definente di una persona, sia dal punto di vista di chi lo fa che di chi lo ascolta.

Se pensi a Sfera Ebbasta, lui si è consacrato raccontando una realtà di paese di Cinisello senza particolari sottotesti sociali, mentre già Emis Killa si è preso il culo otto anni prima perchè non veniva da un certo tipo di contesto… da qui il dibattito è aperto. Sicuramente alcuni valori che incarnava il rap si sono persi o indeboliti o meno radicati, quindi anche il target che prima ascoltava Gianni Celeste ora ascolta Sfera. E’ anche positivo, perchè il rap è diventato più relatable. 

E quindi andando sul libro: nasce da una ricerca ampia che ha trovato la sua espressione lì o c’è un’origine più anedottica?

Devo essere sincero: io non avevo nei piani un libro, mi è stato proposto. Davanti a questa possibilità, il ragionamento che ho fatto è stato che avendo lavorato nell’arco di questi anni in varie realtà che mi hanno permesso di inquadrare il fenomeno da vari punti di vista tutti diversi fossi in una posizione fortunata per dare voce a una serie di punti di vista che partono anche dalla mia stessa vita. 

E la scelta di parlare di Milano arriva dal tuo esserti spostato da Roma a qui quando hai iniziato a interessarti a questo oppure è più una scelta legata a come Milano rappresenta una tipologia di scena come questa? 

La fobia dei maranza in sè parte molto da Milano e dal Nord Italia in generale per una serie di questioni sociali, partendo dalle tante comunità razzializzate che rendono le province del nord diverse da quelle di centro e sud. Più che un discorso di grandezza di queste comunità si tratta della loro persistenza negli anni e soprattutto del loro rapporto ciò che è esterno a quella comunità (Per esempio a Roma la comunità bengalese è enorme ma si interfaccia molto poco con il fuori). Il libro racconta di una generazione di persone nate qui da genitori stranieri, che è la generazione che viene raccontata nel rap attuale di Milano. Nelle altre zone anche i rapper che sono emersi raccontano altro, in primis storie di periferie strutturate in maniera totalmente diversa. Fra l’altro, personalmente trasferirmi in un contesto milanese multiculturale come via Padova mi ha permesso di comprendere velocemente delle dinamiche per me nuove. 

La periferia vi guarda con odio. Chi guarda con odio chi? 

Il titolo nasce da un opera d’arte di Amir Fathi che a sua volta è una citazione di un graffito fatto a Milano nel 2015, in occasione degli sfratti per via dell’Expo per cui c’era stata una manifestazione in centro organizzata da vari comitati di Milano. Questa scritta è comparsa in Missori e poi Amir l’ha resa un’opera d’arte. L’ho trovata una citazione interessante perchè a livello di cambiamenti in questa città l’Expo è stato un momento di cesura in cui il divario fra ricchi e poveri si è fatto sentire parecchio, quindi mi sembrava emblematico riprenderlo per raccontare queste storie. Il sottotitolo poi ti spiega chi guarda chi: l’idea è che dalle periferie ci siano i mostri, i matti, c’è una percezione di paura che quel titolo restituisce, ma si tratta di una fobia. Questo non toglie che sicuramente c’è un enorme divaricazione sociale e tanta rabbia in giro, che se non viene comunicata diventa odio. 

Quindi chi è il maranza di oggi di cui parli?

Un giovane, tendenzialmente uomo, cresciuto in comunità marginalizzate e spesso razzializzate che condivide un atteggiamento che viene percepito come da bullo, prevalicante, e che a livello estetico si lega a quel tipo di cultura di abbigliamento che è diventata molto popolare anche grazie al rap. Le due assi sono sempre quelle: estetica e appartenenza di classe. 

E chi ti sei immaginato come target di questo libro?  

Il tentativo è quello di arrivare a un pubblico che è al di là di chi legge i libri ma che è interessato al rap in quanto tale e alle storie che racconto, che può riconoscersi in qualcosa di quello che racconto e dare un’identità a queste storie e a sè stesso. 

Citi molto Tiktok come riferimento. Io penso per assurdo che sia uno dei pochi specchietti virtuali che permettono di comprendere in maniera spontanea determinate tipologie di sottoculture, avendo un linguaggio molto diretto e a portata rispetto alle altre piattaforme. 

Sicuramente, e anche molto più orizzontale nei confronti dei contenuti. E’ un mezzo molto utile, io lo uso con parsimonia ma è super interessante nel suo essere ancora molto poco praticato e colonizzato dai boomer, per cui è chiaro che le culture giovanili si sviluppano lì. Mi viene da citare Zre9a, un tiktoker che ha iniziato a fare format tipo “un maranza può?”, contestualizzando il maranza in determinati spazi. Un maranza può andare in un centro sociale? In un rave? E intanto vestito da maranza andava a intervistare le persone facendo domande tipo “ti fa strano che io sia qui”? Era interessante perchè provava a raccontare il disagio del sentirsi inadeguato come maranza. 

Qualche tempo fa hai scritto un articolo sulla chiusura del Leoncavallo su un noto magazine online street. Quello che mi ha colpito è che i commenti sotto al relativo post instagram erano terribilmente negativi nei confronti di quello spazio. Pensando al discorso fatto fino ad ora mi chiedo come sia possibile che il pubblico che si approccia a determinate narrative, che magari sono più soft del passato ma comunque legate a determinate storie e percorsi di vita, sia così disinteressato politicamente e culturalmente a queste tematiche ma allo stesso tempo così coinvolto da queste narrazioni. Pensando anche al corrispettivo femminile di cui si parla sempre poco, quelle stelle stile ANNA che emergono con quel linguaggio baddie che cattura un pubblico di ragazz(in)e che quasi sicuramente non condivideranno le esperienze raccontate ma ne saranno catalizzate comunque. 

Innanzitutto direi una cosa: spesso si parla di come il rap abbia perso un aspetto legato agli spazi. Secondo me questo ha molto a che fare con un fenomeno generale che parte dalla fine degli anni ‘80, quando emerge quel rap non conscious che ha funzionato di più in termini commerciali. In quegli anni il rap switcha e diventa una dinamica di estremo realismo.

Mark Fisher coglie in una frase un punto molto figo: “l’ossessione del rap per il reale è anche la morte del sociale.” La restituzione di una realtà scarnificata è un racconto che va a eliminare il lato sociale della realtà. è una sorta di rilettura in termini economici e individualisti della realtà.

Il rap è questo, e non dagli ultimi 5 anni… Vile Denaro, come direbbero i Club Dogo, senza ambizioni trasformative della società. Tutto questo è difficile che vada di pari passi con un impegno politico. Non è un fenomeno italiano: se si pensa all’America, la storia è la stessa. E se uno è interessato a quel circuito finisce per immergersi in quella visione del mondo: l’economia, la scalata, la vita in termini economici. Ciò che ha in se valori affettivi è fuori da questo schema. Da lì in poi, nonostante non ci sia nessuna ambizione trasformativa è chiaro che comunque queste figure rappresentano qualcosa. Da Simba la Rue che viene arrestato e i giornali che ci spendono sopra fiumi di parole, a Baby Gang e gli arresti domiciliari, naturalmente questa cosa ha un impatto collettivo sulla società anche solo passivamente, rompendo comunque gli schemi di un’industria globale dell’intrattenimento in cui svettano.