Come Roma, il Pigneto è composto da strati. Puoi scavare e scavare pensando di aver finito i livelli, le cose da ascoltare o vedere. Ma come sposti lo sguardo e posi il piccone, ecco che esce fuori un nuovo tesoro: che magari è sempre stato lì, nascosto a pochi metri, aspettando solo di essere trovato.
Negli ultimi anni la scena weird di Roma Est (e i suoi luoghi iconici – Fanfulla, Dal Verme, 30Formiche e via dicendo) ha catalizzato l’attenzione musicale sul quartiere. Contemporaneamente si è sviluppata ed è cresciuta una scena parallela e solo a tratti convergente, di musica creativa e improvvisata. Una scena che ci ha messo un po’ di più a farsi vedere, a rendersi coerente e diventare “scena”, appunto, rimanendo una geografia a macchia di leopardo: i suoi membri, punti indipendenti di una costellazione. Forse perché è composta da musicisti la cui formazione e pratica spesso affonda nel jazz italiano: un mondo non proprio famoso per la sua capacità di aprirsi o emanciparsi da giri definiti, spesso molto istituzionali e prettamente accademici.
Sarà la natura del quartiere, ma al Pigneto questi argini sembrano essersi definitivamente rotti. Nell’ultimo decennio il jazz ha incontrato il punk e l’elettronica, la musica improvvisata radicale e creativa è diventata un elemento costante, una colonna sonora “non ufficiale” del quartiere. Tantissimi dei musicisti che orbitano in questo mondo e contribuiscono al suo melting pot sonico, abitano o suonano qui. Parlare di tutto ciò con Francesco Diodati e Stefano Calderano non fa che confermare peculiarità virtuose e fragilità che fuoriescono fuori da questi incroci. I due, entrambi chitarristi, sono attivi su tantissimi fronti. Al Pigneto si sono conosciuti e condividono la loro sala prove da più di un decennio, ammette Stefano, incontrando l’incredula reazione di Francesco. Tra i loro progetti: She’s Analog, Yellow Squeeds, McCorman, Oliphantre e l’ensemble tutto corde TellKujira – solo per citare quelli attivi più recentemente.
Galeotto fu il Pigneto insomma. «Quindici anni fa ci si veniva per gli affitti bassi e ci si rimaneva per il modo di vivere. È un quartiere in cui chi, come noi, fa lavori dalla produttività non immediatamente visibile (in termini capitalistici) si trova a casa ». Dice Stefano, mentre Francesco riassume bene questa sensazione: «Non ti senti straniero in patria». Continua Stefano: «C’è quasi la sensazione di stare in un quartiere “non produttivo”, nonostante ormai la gentrificazione sia imperante. Con Francesco ci siamo vissuti anche il fare prove in quartieri lontani: stare sotto terra per ore e passarne poi altrettante in macchina per arrivare a casa distrutti. Qui fai le prove esci e puoi socializzare. È un posto che di quella produttività più nascosta ne fa un valore ».
I luoghi in cui accade tutto ciò sono sparsi a una manciata di metri l’uno dall’altro. Dal post-pandemia sembra poi essere emersa una risposta dal basso animata per lo più dagli stessi musicisti, diffusa per piccoli circoli Arci, associazioni e locali. Metro Core, Zazie nel metró, Chourmo, il fu Klang e più saltuariamente Fanfulla e 30Formiche. Qui si incrociano di continuo artisti come gli stessi Stefano e Francesco, ma anche Luca Venitucci, Igor Legari, Camilla Battaglia, Ermanno Baron, Federico Pascucci, Ludovica Manzo, Giacomo Ancillotto il veteranissimo Mike Cooper – si potrebbe continuare per qualche paragrafo con nomi su nomi. Tutti con provenienze diverse, tanto per formazione quanto per suoni e strumenti d’elezione: eppure è un’utopia che funziona e sembra vivere un momento di grande ispirazione.
«Tutti quei posti sono realtà facilmente raggiungibili, nel senso che sono fatte di persone con le quali puoi interagire partendo da una base musicale », nota Francesco. Così come lo è sempre stato Blutopia di Fabrizio Spera, altro asse gravitazionale imprescindibile (forse il più importante in assoluto) nel fungere da collante umano e propulsore di suoni che hanno spinto in tanti fuori dalla propria comfort zone. La sala condivisa da Francesco e Stefano è a pochi metri dallo storico negozio di dischi, che per un periodo ha organizzato una fortunata serie di piccole e spontanee esibizioni. «Spesso ci è capitato di finire di montare nuovi dischi, uscire, fare due passi e andare direttamente a presentarli da Blutopia un attimo dopo. Funzionava molto».
Lo spirito associativo del quartiere ha finito per influenzare anche la grammatica musicale di molti, come confermato da Stefano. «Prima di venire al Pigneto, per quanto ci riguarda, la ricerca era solitaria. Dopo invece è stata più collettiva, anche musicalmente in forme più immediate, di linguaggi non idiomatici, che rispecchiano un po’ l‘anima del Pigneto. Per dire, più di una volta incontri musicali con gente di passaggio sono avvenuti direttamente sul palco». Francesco però sottolinea anche una criticità importante, che paradossalmente si evidenzia proprio nei momenti di vitalità: «Questa rete di venue piccole che si può creare, per esempio, dopo una catastrofe – penso al Covid e, in misura diversa, alla chiusura di punti di riferimento come il Klang – da una parte è interessante, dall’altra, paradossalmente, è un sintomo di ciò che non va. Ho l’impressione che queste risposte spontanee, vitali e belle, quando non diventano sostenibili o non si pongono lo scopo di esserlo finiscono per essere delle occasioni mancate. La durata nel tempo è importante».
Insomma, una vecchia storia nuova: un problema del Pigneto, romano, italiano. Il discorso è vastissimo e complesso, potrebbe essere sviscerato per ore – e in altre sedi con Stefano e Francesco lo abbiamo fatto e lo rifaremo – ma si riduce in fin dei conti all’incapacità di saper valorizzare dall’“alto” ciò che emerge dal “basso”. Non perché si abbia bisogno di un riconoscimento o approvazione, di mani imposte sul capo a incensare di lodi. Il contrario: si reclama il diritto a trovare un equilibrio che possa arricchire in entrambi i sensi. Togliendo le maschere e finendo i giri di danza intorno all’argomento: si parla di soldi, fondi, sostenibilità umana e quindi artistica. «È come se ci fosse una sorta di cecità di fronte a certi fenomeni. Ed è un peccato, perché c’è il rischio che si perda la fiammata di urgenza espressiva e che questa si scontri invece con un’aria depressa».