Se c’è un quartiere a Milano che è un miscuglio di architetture quello è Porta Venezia. Pensateci, pensateci paragonandolo ad altri: a Brera, a Nolo, ai Navigli, a Corvetto fino al Gallaratese, l’apoteosi del sogno utopico del dormitorio operaista. Qui al cospetto dei Bastioni le architetture si mescolano. È un sincretismo formale che rispecchia lo sfrigolio energico di un quartiere che in fondo è stato fatto dalle comunità più disparate. E si sa, se l’architettura governa e produce gli spazi, sono le persone a definire gli ambienti. Insomma, amici di zero, Porta Venezia è un quartiere che le ha passate tutte e le ha accolte bene, le ha conservate e le ha lanciate nello spazio, là dove le stelle brillano, là dove gli astri e le linee che disegnano figure di un’età incerta si incontrano con le storie parlate di primavera, estate, autunno e inverno. Ma non vi faremo un tour: non siamo quelli dei tour, ma quelli delle suggestioni. Quelli dei mondi distanti che stanno insieme all’insegna della città. Perché noi l’architettura la conosciamo bene in quanto sappiamo che appoggiandoci staremo in piedi: i muri sono stampelle, amici senza i quali all’alba sarebbe più difficile camminare da soli.
Per essere blandi cominciamo con una lista: clinker, marmo, cemento, mattonelle da bagno, ghisa, ferro battuto, vetrocemento, motivi fitomorfi – i ghirigori liberty in toni enciclopedici –, timpani neoclassici sfondati da pavoni laidi che dispongono voluttuosamente a conchiglia le piume occhialute delle loro code (Casa Cambiaghi), terrazzi e giardini pensili con magnolie e roseti adorni di fenicotteri (Villa Invernizzi), o le torri balconate vestite di paillettes, piastrelle translucide che s’affacciano arrogantemente sulla città, alte al punto da divenire riferimento panoramico di un quartiere, con quell’architettura in mattoncini rossi da anni Venti sorretta dalla villetta precedente – un coito da litorale verticale spezzato dagli scazzi di un insospettabile Gio Ponti con Emilio Lancia, un’architettura interrotta al primo piano – è Torre Rasini, a cavallo dei Giardini e modernamente svettante fin sopra i Bastioni; o ancora la sobrietà moderna e severa delle linee dure e monumentali della Piscina Cozzi, altro gioiellino d’architettura del Secchi che contemporaneamente giocava con l’estetica della stazione, del treno-simbolo-della-modernità, da una parte al Mercato Rionale di Viale Monza e qui sulle note gaie e festose di una bracciata a farfalla, il tutto sottolineato da un gruppo scultoreo neoclassico che evidentemente non può mancare in un quartiere come Porta Venezia, che trova nei Giardini e sui Bastioni la mano del Piermarini, strenuo difensore di un classicismo sposatosi duecento anni dopo con le architetture moderne ma morbide del Portaluppi, che si dedicò al Planetario dell’Hoepli.
I muri sono stampelle, senza i quali all’alba sarebbe più difficile camminare da soli.
Lo sappiamo che questa frase è lunga e cadenzata. Come una passeggiata. Ma ora dobbiamo fermarci un attimo e dirvi una cosa, fare una pausa. Perché Porta Venezia si chiama Porta Venezia? È chiaro che a tutti che una porta non c’è, o quanto meno che la porta sia stata sfondata, nell’architrave, in alto. Rimangono solo i Bastioni, un po’ come le autostrade in Sicilia che non hanno niente se non la struttura portante. E infatti i bastioni altro non sono che vecchi dazi, vale a dire dei caselli autostradali dei tempi passati, che portano la mano di diversi architetti ma vedono la loro fine nell’intervento del Piermarini, durante i lavori di chiusura dei Giardini, l’alfiere del neoclassicismo meneghino che vanta la firma su Villa Reale di Monza, Teatro della Scala e Palazzo Belgioioso. Insomma, quell’architettura che qualcuno da per insuperabile, bellissima e perfetta, da appassionati della simmetria monumentalista che in fondo siamo tutti ben felici di aver abbandonato nel corso della storia.
Insomma, ci risulta chiara una cosa: Porta Venezia si fa per livelli, dal basso all’alto, con una chiara tendenza all’estetizzazione borghese che si vede bene nel Liberty, la spina nel fianco dei nostri bisnonni che vedevano nei tratti del ghirigoro pazzerello Novecentesco l’incedere di un futuro di merda a tutta velocità. Che avessero ragione o meno, questi avi preferivano di certo quando Porta Venezia stava con i piedi ben piantati per terra e non solo sull’asfalto, quando tutta la parte verso Benedetto Marcello era riconosciuta con un nomignolo caruccio: Il Vivaio. Tautologico, perché lì stavano solo vivai, fiori, piante, lo stesso Ginori, ci hanno raccontato, aveva sede proprio lì dietro. Suggestioni floreali andate perse in quello strano gusto che preferisce le cose durature – tipo il cemento, il marmo e il ferro battuto – rispetto all’organico che ha il tempo che trova, letteralmente.
C’è l’architettura neoclassica come sfondo e ingresso, le case liberty e del modernismo severo lanciate verso il cielo terso dei giardini, e infine i seminterrati.
Se dobbiamo dire – perché ce l’hanno detto e non è nemmeno difficile da immaginare – che l’arrivo del trend modernista del liberty scocciò e non poco i vecchi signori avvezzi all’abitudine di un’architettura quasi rurale, possiamo dire anche che oggi le architetture di Porta Venezia si riconoscono nel complesso per uno stile a dir poco eclettico, che riprende un po’ quel sincretismo che si diceva su. C’è l’architettura neoclassica come sfondo e ingresso, le case liberty e del modernismo severo lanciate verso il cielo terso dei giardini, e infine i seminterrati.
Perché c’è ancora un aspetto da tenere in considerazione, tra le architetture del quartiere. Abbiamo affrontato il cielo, il suolo, e adesso passiamo sotto. Cosa c’è nel sottosuolo, negli scantinati di Porta Venezia? Lo potete immaginare bene – non sono le fosse comuni dove si dorme male, nei pressi del vecchio Lazzaretto –, è la ragione per cui qui da Zero non facciamo che adorare Porta Venezia. Ci prostriamo, da sempre, all’uso caciarone e creativo dello spazio. Che è certamente pieno di persone, di amici, di bande, di gruppi, ma che trova la propria rivincita contro l’architettura borghese, contro quel decoro fitomorfo che Adolf Loos avrebbe detestato in un impeto di maleparole, negli spazi interrati, nei basement dei locali di Porta Venezia, quelli oscuri, sudaticci e appiccicosi che fanno mancare il fiato come quando ci si innamora. Chi non è mai stato al Love o allo Zilli, lì sotto, a inumidirsi in serate bagnate da luci rossastre e verdognole? Attratti da un’atmosfera kinky, pansessuale, queer, che a tutti gli effetti sostiene gli spazi aristocratici e borghesi, e fa del quartiere una strana architettura per livelli, un litorale verticale raccordato al quartiere dalla strada: perché quello è il vero nodo di questo paesaggio, che scalda le architetture più severe e smuove i fichi di cemento, seduce conchiglie piumate e accarezza i muri, nella strenua convinzione che a priori degli stili, dei tempi, e delle firme, una cosa è certa: ci sorreggono quando abbiamo le gambe molli.