Nel 1982 il criminologo George L. Kelling e il sociologo e politico James Q. Wilson, conservatore convinto, firmarono un articolo sul magazine The Atlantic dal titolo “Broken Windows”. Nel testo veniva esposta per la prima volta la teoria secondo la quale se il vetro della finestra di un edificio viene rotto e non viene riparato, tutti gli altri vetri di quell’edificio, ed eventualmente di quelli limitrofi, saranno presto rotti. Questo accadrebbe perché una finestra lasciata all’incuria lancia un segnale piuttosto chiaro: a nessuno importa di quell’edificio (e per estensione della zona dove esso è collocato), quindi rompere altri vetri non farà la differenza. Oltre a essere dannatamente divertente.
Ci sono casi in cui rompere vetri non fa la differenza, ed è dannatamente divertente.
In Piazza Insubria di broken windows non ce ne sono, ma nei caseggiati Aler che abbracciano a semicerchio i giardinetti sottostanti di finestre ce ne sono tantissime. E si affacciano su uno scenario che mescola quotidianamente scene di degrado a momenti di “vita vera”, come direbbero alcuni. I fori aperti nelle facciate osservano ogni giorno con sguardo attento la vita che si consuma davanti ai loro vetri. Una babele di lingue ed etnie che convivono nella piazza, popolata a ogni ora del giorno e della notte, e la rendono uno dei punti nevralgici del quartiere.
C’è chi fa salotto sull’erba, con sedie reclinabili e teli da spiaggia. Chi vende il fumo, imboscandolo nel bordo interno dei cestini per la spazzatura. Chi beve birra e pompa Reggaeton dalle casse bluetooth. Le mamme che chiacchierano di fronte all’area gioco. I pitbull e i padroni dei pitbull che hanno scambiato il verde tra i vialetti che tagliano la piazza per gigantesche aree cani. Le vecchiette con il carrellino, che prendono l’ombra o il sole, a seconda della stagione, sotto ai platani, alti e rigogliosi tanto quanto i casermoni che li circondano. E i bambini, tanti bambini, che giocano insieme ai ratti.
Rinomata piazza di spaccio fin dagli anni ’80 e collegata dalla via alberata Ciceri Visconti alla sua sorella “bene”, piazzale Martini, Insubria è da sempre croce e delizia per i residenti del quartiere. Alcuni di loro continuano a presidiarla nonostante gli evidenti disagi, altri invece scambiano quasi quotidianamente la social street di zona per il servizio Amsa, commentando attraverso post indignati i tappeti di vetri e la spazzatura abbandonata in giro, che immancabilmente fa da corollario a serate particolarmente riuscite. Senza raccoglierla ovviamente.
Il paesaggio urbano „comunica“ con i suoi abitanti.
C’è chi ha fatto baluardo e proclami con queste situazioni, sognando anche un giorno di radere al suolo i giardinetti, insieme a tutta la loro fauna, per dare in pasto ai residenti in perenne fame di parcheggio una bella colata di cemento fumante. Senza rendersi conto che non è attraverso una politica da “zero tolerance” che i problemi si risolvono. E qui torniamo alle broken windows, perché se è vero che agire sul vandalismo per prevenire la criminalità rappresenta una chiave per evitare che i problemi si trasformino in degrado e che i residenti “rispettabili” si allontanino, è altrettanto vero che non si può raggiungere questo obiettivo senza il coinvolgimento della comunità. Gli interventi delle istituzioni sono quindi indispensabili, ma lo è altrettanto l’atteggiamento delle persone, che devono condividere la responsabilità nel prendersi cura degli spazi. Indipendentemente da quante volte le finestre verranno nuovamente rotte.
Il paesaggio urbano „comunica“ con i suoi abitanti, che tendono a rintracciarvi segnali per tarare il proprio comportamento rispetto alle norme sociali vigenti. Non è quindi la finestra rotta a essere importante di per sé, né i tappeti di bottiglie o i cestini rovesciati, ma il messaggio che questi trasmettono. Ovvero la vulnerabilità della comunità di fronte a degrado e vandalismo, e la mancanza di coesione delle persone all’interno del quartiere. In un circolo vizioso che sembrerebbe non potersi interrompere, almeno fino a quando qualcuno decide di prendersene cura.
In questo senso si dà l’iniziativa promossa dalla Loggia di Calvairate della panchina rainbow, che rappresenta un esempio di come la preoccupazione della comunità per rendere gli spazi vivibili e fruibili da tutti vada nella direzione di un sano presidio del territorio, a scapito di sterili moralismi e razzismi di ogni sorta.
La panchina, ribattezzata da subito “pridina” o “punkina”, è posizionata proprio al centro della piazza, di fronte all’area gioco e a un delicato cespuglio di rose, resistente insieme a lei al degrado che le circonda. Con le sue stecche colorate si erge a baluardo di inclusione e rigenerazione, per contrastare l’immagine di un quartiere che molti ritengono frazionato, ma che al contrario proprio nella coesistenza di un tessuto sociale così variegato trova la sua ricchezza. Secondo questa logica, l’orgogliosa rivendicazione della propria natura non è solo relativa a un determinato orientamento sessuale, ma si allarga a comprendere la totalità dell’essenza di un quartiere multietnico. E per questo composto da tantissimi colori.
Luogo eletto per limoni non binari, letture quotidiane, diverbi appassionati o silenziose contemplazioni.
Spesso circondata da un tappeto di gusci di semini di zucca o girasole, incontrovertibile segnale di come sia da subito riuscita a conquistare un posto nel cuore degli abitanti di zona, la panchina rainbow sfida ogni giorno le intemperie e il rischio di tag, per portare avanti l’importantissima opera per cui è stata realizzata: contrastare l’abbandono, l’allontanamento e la disgregazione della comunità. Da fine giugno a oggi in tanti si sono fotografati davanti a lei o l’hanno scelta come luogo eletto per limoni non binari, letture quotidiane, diverbi appassionati o silenziose contemplazioni. Scegliendo di trascorrere il proprio tempo in uno spazio davvero condiviso, sia a livello fisico che emotivo.
Talmente condiviso che, a seguito di un intervento vandalico perpetrato a fine settembre di quest’anno i residenti sono scesi in piazza per pulire le scritte offensive e omofobe che l’hanno deturpata, fortunatamente solo per poche ore, grazie al tam tam scatenato sui social e alle tante segnalazioni arrivate. In un clima di partecipazione, animato da genuino spirito di collaborazione, c’è stato anche un tentativo di strumentalizzazione dell’opera di pulizia da parte di qualcuno, che colto da delirio di onnipotenza si è accorto della punkina solo per raccogliere voti. E qui si ritorna all’importanza della comunità, che invece è la voce più importante nel processo di rigenerazione di un quartiere. Processo che parte e deve partire dal basso. Dal basso verso gli altri.
“Nomina sunt consequentia rerum” dicevano i romani: nel nome sono racchiuse le qualità, le prerogative e le caratteristiche delle cose che si stanno denominando. E Insubria è una piazza che deve il nome a una popolazione dall’origine etnica assai incerta. Contesi tra ascendenze celtiche e liguri, Tito Livio racconta gli Insubri come uno dei popoli appartenenti alla cultura di Golasecca (proprio come chi si sbronza fino a notte fonda in piazza), responsabile della fondazione di Milano. E allora ci piace pensare che questo luogo tanto bistrattato, ai margini di una città che sempre più sta perdendo la propria identità in favore di una non ben definita ma decantata europeizzazione, sia in realtà il cuore pulsante di una comunità che ha sempre più bisogno di rivendicare con orgoglio le proprie origini. Incerte, variegate, multiculturali e inclusive. In una parola, Arcobaleno.