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Le regole del cosmo nel Goban

Indagine per capire perché l’universo sembri rispondere ai principi di un gioco da tavolo d’Oriente

quartiere Chinatown

Geschrieben von Piergiorgio Caserini il 28 September 2021
Aggiornato il 5 Oktober 2021

La prima volta che sono venuto a conoscenza del Go (Goban) è stato in una clip di π – Il teorema del delirio, l’esordio di Aronofsky. Altri, a Milano, l’hanno conosciuto nelle lezioni che il Centro di Cultura Cinese faceva ai bambini, nelle partite amichevoli, ma anche nel circoletto che si sfida nei meandri di Sesto San Giovanni. Il film di Aronofsky racconta di una specie di Dottor Faust a cavallo del digitale, un Faust algebrico. Il Faust in questo è un matematico e Mefistofele – o Dio –, è una stringa bislacca di codice informatico: una sequenza a 216 cifre che il suo computer, immancabilmente, stampa cercando di predire le quotazioni della borsa. Queste cifre sono il risultato di una strana progressione di π, Pi Greco. Per i fanatici dell’estetica e della mathesis, il π rappresenta quella proporzione per cui le cose sono perfette. Quel rapporto matematico, la matrice, attraverso cui si manifesta la realtà – come la spirale aurea, comune denominatore della morfogenesi di un po’ tutto. Ed è questa la convinzione del nostro Faust, che perseguitato da emicranie diaboliche e deliri di onnipotenza, vede in quei numeri l’ingresso alla conoscenza del mondo, il tutto ritmato da una colonna sonora degna di nota (nell’88) – tipo Massive Attack, Aphex Twin, Autechre.

Gli antichi dicevano che questa tavola è il microcosmo dell’universo. Solo che l’universo ha regole inutilmente più complicate.

La scena del Go parte con un softporno sonoro: le mani entrano nelle bacinelle delle pedine, le scuotono, ne prendono una, tic, e la posano sulla griglia, tac: ed ecco le prime forme. Nella storia il nostro Faust è già rovinato dalla scoperta del π. Ci sta male, delira. Il suo avversario è il vecchio maestro, che già aveva avuto a che fare con i misteri che fanno della matematica e della numerologia. Il consiglio è quello di far decantare il cervello, di rilassarsi, e il Go serve da monito: «Gli antichi dicevano che questa tavola è il microcosmo dell’universo. Quando è vuota appare semplice e ordinata, ma il numero delle mosse possibili è infinito. Non possono esistere due partite uguali, come i fiocchi di neve. Perciò, la tavola è in realtà un universo estremamente caotico e complesso. Ed è questa la realtà di questo mondo­».

Proveremo qui a farvi una specie di decalogo del Go. A fronte dell’invasione in ambito scacchistico di giocatori e perditempo che spendono ore sulle app in delle specie di catatonie pomeridiane e serali, mossi soltanto dall’ossessione del punteggio e a tratti dall’autismo dell’ozio speso malamente, vorremmo lasciare qui delle suggestioni. Sì, perché dobbiamo dire, per cominciare, che Go è spesso preso per un gioco complicatissimo. Pieno di insidie. Per geni, per menti diverse. Meno geometriche, mica come quelle degli scacchi. Meno quadrate, ecco. Ma le regole sono incredibilmente semplici. Come recita un adagio proverbiale sul gioco: «Il mondo è una partita di go le cui regole sono state inutilmente complicate».

Insomma, a un primo sguardo, Go è il diretto competitor per gli scacchi. C’è chi li chiama gli scacchi cinesi, scansando così completamente il senso del gioco. Perché, innanzitutto, non esiste alcuna gerarchia tra le pedine, e questa è la prima differenza sostanziale. E allora potrebbe essere tipo dama? No, per niente. Anche se in tempi non sospetti si giocava con i sassi, bianchi e neri, e a produrli era il fiume. Continuando con le differenze, il gioco si svolge alle intersezioni della griglia, non all’interno dei quadrati, e le pedine sono omogenee, ovvero la regola è una: le prendi e le posi. Questo significa, paradossalmente, gradi di libertà superiori, perché le mosse e le posizioni sono praticamente infinite. Meglio, incommensurabili. Proprio nel senso che non è possibile contarle, tantomeno immaginarsi dei numeri, per cui, a fronte dell’incommensurabile, si è soliti preferire definirlo infinito. Fa un certamente un po’ più romantico, ma in fondo è più semplice pensare che le cose non finiscano mai piuttosto che ficcarsi in testa che tutto, ma proprio tutto, ha tendenzialmente una misura, un limite.

Solo nelle prime quattro mosse, le disposizioni disponibili sono 1,67×1010. Lo scriviamo così perché è un numero impronunciabile.

E il limite, in sostanza, è anche il principio di gioco del Go, la sua finalità. Prendere territorio, accerchiare. Si devono definire delle forme ed evitare che queste vengano spodestate. E per rimanere bisogna lasciarci dei buchi, evitare che la forma divenga piena e sparisca. Cosa che per esempio, negli schieramenti di scacchi, è tendenzialmente deleteria. Per certi aspetti questo rivela un’altra differenza sostanziale, ovvero l’importanza riservata al vuoto, quel “Ma” che in Oriente costituisce il fondamento dello spazio. Giusto per ricordare anche a noi occidentali di una sostanziale differenza tra vuoto e nulla, quella che gli adepti sartriani immuni alle gioie della discontinuità del mondo proprio non vogliono accettare, no.

Si sarà capito che per i patiti degli scacchi – tanto quelli rovinati, nella spesa di tempo, tanto i novellini dell’ultima ora – Go è una boccata d’aria fresca. Manca di tutto ciò che gli scacchi hanno, che gli scacchi vantano. Mancano di gerarchia, di geometria vettoriale, di spazi prestabiliti. Perché la griglia del Go è semplicemente da riempire. Vince chi ha più territorio, chi lo crea. Si parte dal vuoto – e non dal nulla – e innestando punti-pedine nello spazio si comincia a produrre una logica geometrica. Vien pure da dire che in questi termini, il Go, fa comprendere meglio come lo spazio in Oriente abbia tutta un’altra impostazione e tutta un’altra sensibilità rispetto al nostro. Mette la geometria in secondo luogo.

Dicevamo dell’incommensurabile. Pensate che solo nelle prime quattro mosse, le disposizioni disponibili sono 1,67×1010. Lo scriviamo così perché è un numero impronunciabile. Decretiamo così un’altra differenza, sostanziale: non si può chiudere la partita in breve tempo né tantomeno predirla (come negli scacchi), e quindi nemmeno un algoritmo può ergersi sfacciatamente al di sopra di un giocatore umano. Le possibilità sono semplicemente troppe, e in quel territorio probabilistico non c’è alcuna direzione da percorrere con certezza. Un po’ come il futuro all’insegna della teoria della complessità, della mesologia, dell’ecologia (che sono sistemi complessi).

La storia è breve: AlphaGo vince con Fan Hui, il campione europeo. «Giocava come un umano». Fine della storia.

Ma cosa sono poi queste cifre? Sono di fatto virtualità infinite, spazi ampissimi, ambiti di inerenza pazzeschi. E informatici e matematici, eccitati, hanno ben pensato che sarebbe stato una sfida eroica progettare un AI che sapesse vincere. Perché, visto l’incommensurabile, avrebbe dovuto avere quella qualità di pensiero che vede in avanti e progetta, deve apprendere sul campo sapendo scegliere, meglio: “tirare a sorte” all’inizio e orientarsi di conseguenza, restringendo gli ambiti di possibilità. La storia è breve: AlphaGo vince con Fan Hui, il campione europeo. «Giocava come un umano». Fine della storia.  

Insomma, ci azzardiamo a dire che il Go è una rappresentazione fenomenologica che procede, contrariamente all’universo, per neghentropia, per diminuzione della complessità. Ovvero, all’inizio la tavola è vuota. Un po’ come ci si può immaginare l’universo prima del Big Bang, o prima di Dio, dipende da che parte state. Caos totale. Alla messa in posa delle prime pietre, l’universo comincia a formarsi. Una, due, tre, quattro, tic-tac-tic-tac, cominciano a emergere forme e lì comincia a vedersi il gioco. Le probabilità, le mosse, i movimenti, diminuiscono mano a mano che la tavola si riempie. I giocatori costruiscono le loro forme inattaccabili, chiuse ma vuote dentro, che accerchiano il nemico ancora prima che questo entri. La partita finisce per saturazione, e solo lì si decreta un vincitore: chi ha occupato più spazio: il padrone dei territori della tavola del cosmo, il demiurgo del Go.