Una cosa che mi ha sempre affascinato dei luoghi di villeggiatura è la presenza di uno zoccolo duro di persone che, cascasse il mondo, sa già perfettamente che dopo 365 giorni si ritroverà nello stesso posto, magari addirittura nella stessa casa o nello stesso albergo, con la possibilità, volendo, di poter programmare con un anno di anticipo gite in barca, passeggiate in montagna, tornei di burraco e grigliate, mostrando uno zelo e una capacità previsionale da piano quinquennale. Si tratta di un atteggiamento nei confronti del tempo libero che ha vantaggi e svantaggi: da una parte si ristringe enormemente il campo delle nuove esperienze e delle nuove parti di mondo da vedere, dall’altra si è certi del risultato che si porterà a casa in termini di relax, qualità del cibo, meteo, relazioni amicali etc. Un po‘ come scegliere se investire in blue chip dal rendimento sicuro o in delle azioni dall’andamento più incerto che possono portare in saccoccia grossi guadagni come perdite ingenti. Insomma, volete mettere la soddisfazione al ritorno dalle ferie nel parlare solo di cose positive e non di locandieri thailandesi che promettono case da sogno a buon prezzo salvo poi costringere a safari entomologici tra le lenzuola?
Un’attitudine simile la si è sempre avuta anche nel campo della ristorazione con il bar, la pizzeria o la trattoria di fiducia dove andare a colpo sicuro, perché mangiare male, magari spendendo pure tanto, è altrettanto fastidioso e seccante che dover condividere il proprio letto con un esercito di cimici. Questo è quello che è accaduto per decenni, poi è arrivata la rivoluzione enogastronomica che negli ultimi 15 anni ha sconvolto le abitudini e rimescolato, nel bene e nel male, le carte del Pil nazionale. Andando subito al sodo della questione: provate a fare un breve riassunto degli ultimi dodici mesi e provate a comparare il numero di volte in cui siete andati a mangiare o bere fuori casa, col numero di volte in cui siete andati a mangiare o bere nello stesso posto. Le cifre sono molto lontane dal coincidere e non potrebbe essere altrimenti se si guardano gli investimenti che vengono fatti in questo settore, che si traducono, a loro volta, in nuove aperture ai quattro angoli della città. In un recente rapporto di Unioncamere è stato stimato che negli ultimi 8 anni – dal 31 marzo 2011 al 31 marzo 2019 – nella sola città di Roma sono stati aperti 3.872 nuovi esercizi, con una variazione nel periodo del + 41,2%, dodicesimo valore su scala nazionale, ma primo se considerate le singole unità, con le 3.040 nuove aperture di Milano che seguono in scia – Roma ha il maggior numero di esercizi totali in questo settore, 13.288, mentre i 7.786 di Milano sono in seconda posizione con netto distacco.
Un numero così impressionante di nuovi locali e una comunicazione imperniata sulla scoperta e sulla novità, che ha dato una propulsione di tipo missilistico al fenomeno nel momento in cui sono scesi in campo i network televisivi e il loro immenso bacino d’utenza, hanno generato un nuovo tipo di approccio enogastronomico che si potrebbe definire di tipo „esperienziale“: per chi va fuori l’obiettivo non è più sfamarsi, né tanto meno sfamarsi con gusto, ma capire come si mangia in un determinato posto – il più delle volte appena aperto – in modo da soddisfare una propria curiosità e non farsi trovare impreparati sull’argomento, garantendosi la possibilità – tutta fittizia, come il mondo talent vuole – di esprimere un proprio parere da giudice ed „esperto in materia“. Non si mangia: si fa un’esperienza, allargando al pubblico di massa un comportamento che prima si riscontrava solo in piccole cerchie di appassionati. Una volta fatta l’esperienza, però, difficilmente ci si siede di nuovo a uno stesso tavolo, anche a distanza di tempo: la ruota ha fatto un nuovo giro e ci sono un sacco di altri posti da provare. Una dinamica da parco giochi, dove l’obiettivo è quello di esplorare tutte le attrazioni e non ripetere quella più divertente. Così, se una generazione fa i nostri genitori potevano contare sulle dita di una mano i luoghi conosciuti dove andare fuori, a noi serve una mano per ogni portata del menu e ricetta, moltiplicando tutto per le nazioni di cui abbiamo importato le abitudini culinarie.
In questo turbine di serrande che si alzano e clienti che si muovono, la gatta da pelare ce l’hanno i gestori dei locali, che hanno di fronte una clientela estremante volatile e devono impegnarsi duramente al fine di renderla quanto più possibile simile a quella abituale di una volta, avendo come uniche armi a disposizione il sapersi dare un’identità e il garantire degli standard di qualità costanti ed elevati – a un prezzo che, oltretutto, sia accessibile ad ampie fasce di portafogli. Compito tutt’altro che facile, visto che un altro rapporto, quello 2018 della Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi), ci dice che il saldo nazionale annuale tra aperture e chiusure è di -11.793 unità e circa il 40% degli esercizi ha un bilancio in perdita. Chi sono i vicini di sdraio che si ritrovano ogni anno a chiacchierare di lavoro, politica e figli che crescono? Dove si torna spesso e volentieri, anche con cadenza settimanale? Negli esercizi di quartiere che hanno ancora un approccio popolare e che vanno dal cibo di strada – le pizzerie al taglio, ad esempio – al pub sotto casa, fino ai ristoranti etnici: ormai unici eredi delle vecchie trattorie, nate dall’esigenza di fare mangiare ogni giorno a poco e con pochi ingredienti a disposizione.
Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2019-11-01