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Quel chiosco di fiori su Viale Oriani e la storia di Sunita

Geschrieben von Greta Biondi il 25 November 2024

Su viale Oriani, all’incrocio con via Jacopo della Lana, c’è un chiosco di fiori che è una festa per gli occhi. Ci passo davanti tutti giorni da due anni e d’estate e inverno, pioggia, vento, neve, grandine lei è sempre lì, da sola o con qualche amica, comunque coloratissima. Un giorno mi sono finalmente decisa a entrare e ho conosciuto Sunita e la sua storia.

Dodici anni fa Sunita Saha Rani e suo marito, il signor Jibon Saha Kumar, appena ventenni e con una figlia piccola, decidono di venire in Italia, a Bologna, dal Bangladesh e dopo poco tempo rilevano il chiosco. Jibon di fiori se ne intende, ama quello che fa e le cose iniziano a girare bene.

«Ci abbiamo messo un po‘ a guadagnarci la fiducia delle persone – mi racconta Sunita. Nel 2012, quando aprimmo, la gente della zona non era abituata a un fioraio straniero, per di più uomo. Per questo mio marito mi ha chiesto una mano, pensava che una donna potesse tranquillizzare la clientela».

Sunita non sapeva praticamente niente di fiori, aveva lavorato solo per qualche tempo come insegnante prima di partire, ma prende confidenza con il mestiere e dispensa grandi sorrisi a tutti, incluse quelle signore in beige con addosso l’equivalente in oro del peso del proprio cane.

Gli anni passano e la diffidenza diminuisce, la coppia si fa conoscere, ha un altro bambino e Sunita sta al chiosco col pancione, cura le vetrine, si occupa delle decorazioni e dell’illuminazione, di dare l’acqua, e poco a poco impara l’italiano. E continua a sorridere. 

Nel 2016 però, all’improvviso, un dolore grandissimo: a soli 34 anni rimane vedova. Jibon, suo marito, muore per alcune complicazioni dovute alla varicella al Sant’Orsola, una brutta storia finita anche sulla stampa locale., A lei restano l’attività da gestire, due figli da mandare a scuola e i genitori anziani, che nel frattempo sono riusciti a trasferirsi a Bologna. Vivono tutti insieme in Via Murri, in un piccolo appartamento poco lontano dal chiosco, e condividono lo sconforto.

«Questo è il mio quartiere, il mio universo: tutti mi conoscono qui, tutti sanno quello che ci è successo, la mia storia. Mi sento a casa solo al chiosco, qui riesco a sorridere davvero. Casa nostra è ancora troppo affollata, anche oggi che mia figlia grande studia medicina a Milano e vive lì. Ho bisogno di questo posto per stare bene, è il mio safe heaven, la mia flower fair».

Sunita fa orario continuato (almeno 7.30-20.30), ma tiene le luci sempre accese per le orchidee. Mi dice che sono difficilissime, ma che lei ce la fa perché le ha studiate, negli anni, raggiungendo la formula-per-orchidee-definitiva: «hanno bisogno di quello di cui hanno bisogno».

Ma quello che vende di più sono, mi confessa, le rose, che lei ama anche far seccare. Allora penso che deve esserci un motivo se qui, in zona Murri, vanno le rose, senza spine e col gambo tagliato di sbieco, vecchia scuola. A ogni quartiere il suo fiore, e inizio a fantasticare: le monstere al Pratello, l’incenso in Bolognina, le potos e le begonie in Saffi, la sanseveria in Saragozza, le piante d’aria in Via Marsala.

Poi ritorno nella realtà. «La storia di questo posto – continua Sunita – è così tanto intrecciata alla mia che non riesco a staccarmene per più di qualche ora. Non è per essere una woman in business a tutti i costi. La verità è che questo chiosco lo sento più mio di qualsiasi altro luogo al mondo. E se mi vedi sorridere così è perché io qui sorrido sempre, perché credo che debba sorridere di più chi di più ha sofferto».

È così che il chiosco di Sunita ha smesso di essere solo una calamita per i miei occhi ignari di tutto e ha cominciato ad essere un luogo con una storia e con un suo senso intimo e segreto che lo muove, con un perché, come se ne contano sulla punta delle dita ormai, in città. Un chiosco di fiori tutto per sé.