Che cos’è Milano? Un dispositivo-città in cui impazzire lentamente, una macchina-mostro oniricofagica, un artefatto di cristallo annerito. Che cosa sono io? Il prodotto tumefatto delle relazioni che ho attraversato e dei luoghi che hanno lasciato bruciature sulla mia pelle, una nube di carne e pensiero che attraversa il cemento e l’acciaio, dentro e fuori di sé.
Milano nel 2017 mutava e radiava, dilatava il suo calcestruzzo impermeabile sulle forme del modello Expo, contraendo settori di popolazione inerte e battuta, deformando l’orizzonte con le gru. Io ero un ammasso di nostalgia e rabbia, e giravo da solo per concerti, cercando i miei simili nelle periferie e negli squat, ricercando una forma di identità che sfumasse i contorni della mia individualità cancerogena, che producesse gli scoppi duraturi di una realtà collettiva.
La storia dell’hardcore a Milano affonda le radici negli anni della controcultura e della lotta, in quei settanta feroci di Alice, delle barricate e delle occupazioni. Nel dettaglio, negli anni del Virus (centro sociale n.d.a.) e della parola d’ordine No Future intorno a cui si riunivano i cani randagi della capitale meneghina. Ciclostili che sputavano fanzine, scontri, moltitudini affaccendate nel demolire un mondo che opprime per opprimere, che esclude per escludere; concerti, ovviamente, come apoteosi di un rituale collettivo su cui fondare una palingenesi delle periferie ideologiche, per ridiscutere lo spazio geografico-politico e definirne il centro. Sono consapevole che un altro modello sociale e culturale sembra abbia vinto e sepolto sotto cumuli di macerie le speranze di un nuovo mondo possibile, e necessario oggi più di allora. Ricerco affannosamente chi come me si ostina a resistere, e urla attraverso la musica il proprio dissenso.
Il primo accenno di follia collettiva lo raggiungo quando suonano i Totorro (math-rock, Francia) allo spazio Ligera, isola dell’underground nella giungla etnocentripeta di via Padova. È il 2017, autunno, e quei suoni si affastellano sulla mia carne, mi cingono in un abbraccio, come me sorridono altre cento persone, forse, qualcuno l’ho rivisto poi, altri li ho persi. Seguono anni in cui milito nelle fila di una nicchia ostinata e incredibilmente recettiva, al Circolo Magnolia ascolto gli And So I Watch You From Afar insieme ad altre venti persone, poi i Touché Amoré in Santeria Toscana insieme ai Defheaven, tantissimi piccoli live a Casa Gorizia, l’ultimo live dei Batienne, per esempio. È un vagare tra i corpuscoli di una scena che si aggrega e cresce, un virus che si diffonde costante e venefico, e mette in discussione il parossismo estetico intrinseco della metropoli. E poi è esploso il Covid. La storia la conosciamo tutte e tutti, inutile ripetersi. Ma se scrivo questo pezzo è per disegnare una cartina di cosa si muove oggi, e per fortuna a muoversi siamo in tante e tanti.
Definire una mappa della scena hardcore milanese significa fare i conti con le persone impegnate a dar vita a una rete, a costruire una realtà con le proprie mani, spesso con poche possibilità di partenza: un’alternativa al nulla che avanza. Funziona come una sorta di dispositivo per cui uno è spinto dalla rabbia e dalla sofferenza a organizzarsi da sé, a manifestare il proprio disagio mettendosi insieme ai suoi simili e unendo le forze con chi è altrettanto oppresso. È un’arma di difesa metallica e spigolosa, un meccanismo per fare a botte con il mondo e non finire massacrati. E fin quando ci sarà del disagio da manifestare, fin quando continueranno disparità e abusi, il punk continuerà a esistere. Non si tratta solo di un genere, né delle definizioni delle sue tentacolari sfumature, ma di un’attitudine: quell’inquietudine che si manifesta violenta nelle forme del DIY e rappresenta l’esigenza di costruire un nuovo tipo di relazione con il mondo e con gli altri. Questo, dopo che la pandemia ha costruito una nuova forma di deserto in cui vagare, risulta ancora più evidente.
La pandemia è stata una sorta di spartiacque, una ferita profonda che ha rimesso in discussione quel modello di vita che ora non diamo più così tanto per scontato. E una volta passata la tempesta, terminate le serrate e dissipate le minacce di lockdown, quel calore sepolto sotto le braci si è riacceso, le band hanno ripreso a calcare i palchi, e il movimento sta conoscendo una nuova ondata. È una grande famiglia nomade che si accalca nei pressi degli stage, che si spreca sudando e urlando nei rituali non scritti della controcultura hardcore. Stage diving, pit, crowd, pogo, scream, non sono solo lemmi che indicano delle pratiche di presenza e di gestione dello spazio, ma sono organigrammi della trasversalità e della solidarietà. Sono persone che si organizzano e processano la realtà sotto lenti laterali, con filtri propri, con mezzi peculiari. La rabbia e la nostalgia, la tristezza e l’oppressione, l’esigenza del riscatto si innescano come arsenale potenziale tratto da un manuale sui rudimenti della sopravvivenza. È una modalità di partecipazione dal basso che non è replicabile e ha delle categorie tutte sue molto difficili da descrivere a parole. Un movimento che è difeso da tutte e tutti perché tutte e tutti lo sentono come proprio, qualcosa che si erige nel deserto della città, e colleziona frammenti di dolore di ognuno e ne fa opere d’arte a cui non si può dare un valore in quanto merce, il valore di scambio si azzera perché zero per zero è sempre zero.
Rabbia che esplode, mille solitudini e mille dolori che si incontrano, per amplificare il suono di ogni singola voce in una voce più rumorosa, in un urlo che non è possibile far finta di non aver sentito.
Nella città più grigia del mondo esistono spazi in cui si danno queste forme di ostinata partecipazione, rese possibili dall’impegno di collettivi quali Ali di Cera DIY, Tutto il nostro sangue, Deafening DIY (per citarne solo alcuni) in luoghi di culto mai rassegnatisi: Cox 18, T28, Cascina Torchiera, Ponte della Ghisolfa, Casa Gorizia, Villa Vegan, Mondo delle Uova. E questa rete di luoghi in cui la scena cresce e si popola di volti sempre nuovi, e si stringe intorno a quelli ben noti, invece, esplode in sempre nuove forme e attinge nuove forze per rispondere a nuove esigenze.
Non è infatti un caso che le teste più «calde» del movimento abbiano organizzato il Can I Scream Fest, che ha già doppiato dopo la prima edizione, lo scorso novembre, con una data a febbraio, sempre in Santeria Toscana. Se gli headliner della prima edizione erano gli Øjne, – insieme a Shizune, Lantern, Put Puràna, Vibora, Tenia, Comic Sans, Bowie, Sky tea for Warriors – questa volta sono stati i Raein – con Rescüe Cat, Alas, Soastasphrenas, Xoxo, Konoha – a salire sul palco e a scatenare l’inferno in terra. Due band storiche che fanno da parafulmini per le esigenze di un movimento, per la necessità di avere più spazio e dei luoghi adeguati in cui esperire le proprie pratiche e rappresentare la propria esistenza. Perché se è vero che il movimento cresce sempre di più, è evidente che esso abbia bisogno più spazio e di luoghi conformi alla sua identità, e il fatto che un festival screamo, hardcore, emo e post-hc abbia luogo in uno spazio paraistituzionale, per quanto l’organizzazione tenga a mettere in pratica tutte le specifiche affinché tutto corrisponda alla natura di ciò che avviene (dal costo contenutissimo del biglietto all’assenza di transenne sotto lo stage), crea un’interessante occasione di riflessione sullo stato del movimento, sulla sua capacità di prendersi dei posti e di restituirli a una comunità spesso relegata all’identità di una nicchia.
Il Can I Scream ha il merito di urlare, appunto, che non siamo una nicchia, e che in una città come Milano abbiamo il diritto e la voglia di sentirci rappresentati, di vivere i nostri spazi come meglio riteniamo, e di formulare idee conflittuali che mettano in discussione un modello di metropoli che soffoca e allontana, che marginalizza ed esclude. Questo è un momento di climax per la storia del movimento, un attimo di follia esagitata che ribolle sotto la quotidianità e gli sforzi di ognuna e ognuno.
L’idea è di mostrare alla città che non possiamo più stare ai margini, di aprire una nuova fase di dibattito in cui ci prendiamo gli spazi di cui abbiamo bisogno in maniera indiscriminata, perché questa cosa esiste ed è grande, questo noi si espande e rimaniamo aggrappati con le unghie e con i denti al fluire della storia.
Come diceva qualcuno: Non è solo musica. Nel frattempo: sarebbe meglio dire «controcultura», non «sottocultura». Siamo contro, non sotto.