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Alice Yamada

Il Giappone, la cucina popolare, i ricordi a tavola e ovviamente i suoi nuovi progetti con lo chef Tokuyoshi. La giovane imprenditrice dietro Katsusanderia e PAN, con l'idea di democratizzare la cucina giapponese a Milano

Geschrieben von Martina Di Iorio il 9 Februar 2023

Alice è una ragazza con le idee chiare e una grinta che non è comune a tutti. Fa tante cose, mai ferma sullo stesso punto, e quando ci parli trasmette determinazione e coraggio. In primis di seguire le proprie passioni, come quella per la cucina nonostante un percorso di studi in finanza che comunque lei non butta via e gira a suo favore. Metà giapponese, metà francese ma con i piedi ben piantati a Milano, città che ormai considera casa a tutti gli effetti. Cuore e testa di Alice sono ancora tra i ricordi e i piatti dell’infanzia, quando viveva ad Osaka con la propria famiglia, momento formativo per la propria coscienza gastronomica. Il cibo per lei è dunque relazione, contatto, è esperienza e memoria, perseguendo il sogno di far conoscere una cucina giapponese che sia popolare, democratica e soprattutto casalinga. Contro il binomio sushi e Giappone, e anche contro l’idea di cibo elitario e dunque inaccessibile, Alice la troviamo dietro il nuovissimo progetto Katsusanderia insieme allo chef Yoji Tokuyoshi di Bentoteca e a breve anche dietro PAN bakery kitchen and wine bar. Ci abbiamo fatto quattro chiacchiere e ci è salita anche fame.

Milano normalizza la cucina straniera con più facilità oggi. Stanno ora iniziando a passare anche altri concetti, come il ramen, che ormai si conosce bene. Bisogna però iniziare a far conoscere altro.

Ciao Alice iniziamo parlando di te: il tuo passato, chi sei e da dove vieni?

Sono nata nel 1993 a New York, per puro caso, perché infatti la mia famiglia non proviene da quella parte del mondo. Sono metà giapponese e metà francese, le mie origini sono un mix di culture e tradizioni apparantemente opposte, grazie a mio padre che è nato a Osaka ma cresciuto a Tottori (nella costa ovest del Giappone) e mia madre, francesce. Mi porto dentro questo melting pot dall’infanzia, e penso che sia stato fondamentale per tante scelte prese nella mia vita. A New York i miei sono arrivati a causa del lavoro di mio padre, trasferito dalla sua azienda negli Stati Uniti, e qui siamo rimasti fino ai miei due anni. Giusto il tempo di prendere il passaporto americano che non guasta mai.

 

Abbiamo vissuto a Long Island fino a quando poi, sempre a causa di un trasferimento, siamo tornati in Giappone, a Osaka. Di qui serbo ancora tantissimi ricordi: gli anni dell’asilo, la scuola poi, gli amici, e ovviamente il modo di stare a tavola dei giapponesi, le loro tradizioni, il loro senso di comunità di fronte al cibo. Ricordo ancora quando nel 1999, avevo sei anni al tempo, i miei mi comunicarono dell’imminente ed ennesimo trasferimento di papà. Destinazione Italia, a Milano. Non sapevo neanche dove fosse l’Italia e ricordo netta la sensazione di dispiacere nel lasciare il nostro Giappone, ormai casa per me. Poi come in tutte le cose ci si abitua e anzi, i miei hanno iniziato ad amare profondamente l’Italia e Milano e non ci siamo più spostati.

Quindi possiamo dire che le tue origini hanno influito parecchio nella tua storia personale e poi professionale. La cucina, per esempio, che importanza ha avuto nella tua vita?

In famiglia abbiamo sempre avuto la passione per il cibo. Da che ho memoria siamo sempre stati una famiglia che amava stare a tavola, con amici, parenti, organizzare cene e stare bene insieme. Abbiamo sempre amato cucinare, un’attività fatta all’unisono che ricordo fin dalla mia prima infanzia, così come andare al ristorante. Ho sempre mangiato una cucina che aveva forti influenze francesi e giapponesi: mia madre per esempio ha sempre fatto la casalinga per seguire papà nei suoi vari trasferimenti per il mondo, e quindi nel tempo libero seguiva corsi di cucina, perfezionando quello che era il suo personale background culinario. La cucina di casa è sempre stata caratterizzata da una forte matrice giapponese, che quindi per me rappresenta il comfort food per eccellenza. Non conoscevamo la cucina italiana, per noi era qualcosa di molto lontano. Ho inziato ad approcciarmi alla tradizione di questo paese solo una volta arrivata qui.

E quando sei arrivata a Milano, nel 1999, che percezione aveva il pubblico italiano della cucina giapponese. Com'era Milano a quei tempi?

Milano nel 1999 non conosceva la cucina giapponese, c’era poco e nulla in giro. Il pubblico italiano si approcciava raramente a queste nuove contaminazioni, e lo faceva con sospetto, almeno all’inizio. Gli italiani che si dimostravano disponibili a provare nuove cose erano veramente pochi e devo dire che non c’erano tantissime realtà giapponesi a Milano. Ricordo Higuma, un ristorante di cucina autentica chiuso poco fa, i proprietari avevano una figlia della mia età con cui spesso giocavo. Poi c’era Tomoyoshi Endo in Vittor Pisani, storico locale ancora aperto, dove mangiavamo cose che non si trovavano ancora con facilità. Come il panko, il pangrattato tipico che ora lo si trova praticamente ovunque, prima lo portavamo noi dai nostri viaggi in Giappone. Oppure i soba di grano saraceno, altro ingrediente ora utilizzatissimo che prima si faceva fatica a reperire.

 

Poi intorno al 2005 è partita la grande ondata del sushi, un’egemonia che per alcuni versi ha sì portato alla diffusione della cucina giapponese in Italia, ma dall’altro ha sviato da qualla più autentica e tradizionale. Mancavano tantissime ricette come il ramen, il tonkatsu, i soba. In Giappone, ormai è cosa nota a molti, il sushi è roba da privilegiati, c’è il pesce all’interno quindi una materia prima costosa. La cucina casalinga, veloce, pratica ed economica è un’altra. Tutti pensano poi che il Giappone sia costoso: invece il cibo costa pochissimo perchè c’è la forte tendenza a mangiare fuori o comprare cose al supermercato già pronte. Se andate in Giappone vi sconvolgerete dalla quantità di banchi frigo nei market con piatti pronti al consumo. Quindi in generale è molto economica.

Questa e l'Alice bambina. Poi sei cresciuta e hai iniziato il tuo percorso personale. Non hai lavorato sempre nel food. Anzi...

Fin da piccola ho avuto il desiderio di lavorare nel mondo food. Addirittura volevo fare la pasticcera. In Italia ho frequentato la scuola francese e dopo il diploma volevo seguire il percorso tecnico in pasticceria, ma poi miei non erano molto d’accordo e quindi mi sono buttata su altro. Sono sempre stata molto attiva, con tante idee per la testa, non potevo mai stare ferma sullo stesso punto. Mi sarebbe piaciuto fare l’università alberghiera in Svizzera, perché ho sempre avuto il pallino per il management e volevo applicarlo all’ambito food, ma poi a causa dei costi esorbitanti ho cambiato idea. Mi sono dunque iscritta all’Università Bocconi, mi sono laureata in finanza perché comunque ho sempre amato molto la matematica e pensavo che questa strada mi sarebbe potuta servire per i miei progetti futuri.

 

Nel frattempo non ho mai abbandonato la passione per la cucina, mio primo e vero amore. Ho sempre cucinato per me stessa, buttandomi anche amatorialmente in tanti progetti. Per esempio una mia collega universitaria aveva aperto un piccolo business di torte e io mi divertivo a darle una mano nei tempi morti dello studio. Ho continuato poi a viaggiare, per scoprire nuovi posti e nuove culture tramite il cibo: passare tempo a tavola è per me importantissimo, e penso che sia il luogo dove si possa veramente conoscere molto degli altri. Lontani o vicini che siano.

E poi cosa è successo? Cosa ti ha portato dove sei oggi.

Ora posso dire che il mio è stato un percorso cercato e voluto fin dall’inizio. Tutto mi ha portato dove sono ora, solo che magari prima non lo sapevo. Durante l’Università ho sempre tenuto caldo il pensiero di aprire un mio business nel campo food, anche perché sentivo mi sentivo sempre più lontana dal mondo della finanza vera e propria. Ho anche cercato degli stage nell’ambito ristorazione ma in Italia ancora non c’era questa mentalità in ambito food. In quel momento, ovvero dieci anni fa la ristorazione non dava sbocchi per un percorso come il mio: o eri chef o eri in sala, non c’erano percorsi di tipo imprenditoriale per persone giovani e con un curriculum così. Ho scartato di default questa opportunità. Quindi dopo la triennale mi sono presa un anno per capire.

 

Ho frequentato uno stage in una sociatà di finanza d’impresa, non convincendomi a pieno ho completamente switchato in una cosa che reputavo più divertente: la moda, senza esserne però veramente appassionata. Ho trovato una stage in Moncler, come assistente del direttore retail e ho lavorato con questo mio mentore che mi ha insegnato una professione che per certi versi è molto affine al mondo della ristorazione. Mi è piaciuto moltissimo lavorare con lui, avevo tante cose da imparare. Son stata due anni e sono arrivata a pensare che questa fosse la mia strada defintiva. Poi sono diventata retail coordinator in montagna, negli sky resort. Ero store manager a Verbier, in Svizzera, un periodo importantissimo per la mia formazione avendo a che fare con business plan, eventi, nuove aperture, creare cose dal nulla.

E il food come è tornato nella tua vita?

L’ultimo passaggio è stato con Ralph Lauren per un altro ruolo, un’azienda molto piu strutturata dove andavo a perdere quella parte di start up – chiamiamolo così – che mi piaceva molto. Ho dunque capito che volevo fare altro. Così è tornata fuori la mia passione per il cibo e mi son fatta forza. Ho trovato una posizione da Big Mamma, una società di ristorazione francese con sedi in Europa caratterizzata da uno spirito imprenditoriale e molto giovane, che cerca persone con voglia di fare e mettersi in gioco. Dunque mi sono trasferita a Madrid per aprire nuovi ristoranti per conto loro. Sono partita nel 2020 e tornata poco fa ad aprile 2022.

Arriviamo dunque al momento attuale: l'incontro con Yoji Tokuyoshi e la svolta. Come è nato tutto?

Volevo andar via da Madrid e tornare a Milano perché era comunque casa, e quindi ho iniziato a guardarmi intorno, ma in realtà non c’erano grandi realtà che mi permettevano di fare quello che facevo. A meno che non vai da McDonald o in grandi gruppi. Quindi ho pensato di cavarmela da sola e di crearmi la mia realtà da zero. Come vi dicevo l’idea di cucinare non è mai stata abbandonata e quindi si è fatta sempre pià forte l’idea di un mio progetto di cucina giapponese a Milano, cucina autentica e tradizionale e anche a buon mercato. Ne ho dunque parlato con mio padre, e da cosa nasce cosa. L’incontro con Tokuyoshi è avvenuto grazie a contatti familiari. Lo conoscevamo in famiglia perché è dello stesso paese di mio padre, e una volta arrivato a Milano dopo otto anni di Osteria Francescana da Bottura ci siamo messi in contatto con lui.

 

Essendo tutti giapponesi era solito ritrovarsi a cena a casa mia, e la prima volta che è venuto da noi è stato anche molto divertente. Mia madre pensava di fargli conoscere la cucina italiana, preparando delle lasagne, non sapendo che aveva a cena il sous chef del miglior cuoco al mondo. Ci siamo conosciuti così. Così gli ho spiegato il mio progetto, ancora non definitivo, e Yoji si è subito mostrato interessato. Era luglio 2022. A settembre ci siamo rivisti e ci siamo trovati subito, avevamo gli stessi pensieri su come eliminare gli stereotipi dalla cucina giapponese in Italia.

Da qui quindi avete posto le prime basi per i due progetti di matrice giapponese: Katsusanderia, dedicata allo street food, e Pan, la bakery con prodotti di diverso tipo. Ce ne parli?

Katsusanderia è nata per caso, come dicevo. Yoji aveva un account Instagram aperto durante il lockdown chiamato Katsusanderia e gli ho chiesto di cosa si trattasse: era uno spinoff di Bentoteca lanciato in quel periodo per il delivery, con un minimo di seguito ma un grande potenziale. Ho subito pensato insieme a lui di incrementarlo, sviluppando questo progetto in maniera totalmente autonoma e incentrato solo sul katsusando, il panino giapponese ripieno di tonkatsu, una cotoletta di maiale impanata. Quindi un format con un prezzo più democratico e popolare del ristorante di Yoji. Così abbiamo iniziato.

 

All’inizio ero sotto Bentoteca, anche come società: lavoravamo addirittura dentro le cucine del ristorante di Yoji, poi abbiamo deciso di staccarlo a fine luglio 2022 perché stava partendo bene. Katsusanderia ha aperto così definitivamente a metà novembre da Sidewalk Kitchen, un collettivo alimentare composto da cinque cucine e una caffetteria, abitate da innovatori gastronomici, che servono cibi e bevande. Definirei Katsusanderia un posto di street food, poi in realtà il katsusando in Giappone lo mangiamo diversamente: cioè lo compri freddo e poi lo combini con altre cose, noi invece lo adattiamo al gusto occidentale. Il nostro menù è in continua evoluzione, non proponiamo solo katsusando ma anche altro: come la potato salad, il donburi ovvero ciotola di riso con varie cose, il karagee. Katsusando è più capibile sotto l’etichetta street food, ma in realtà è una cucina casalinga più democratica.

E poi c'è PAN, la vostra bakery. Quando aprirete?

PAN è in arrivo nella seconda metà di marzo. Sarà una bakery kitchen con diversi prodotti, non strettamente legati al mondo della panificazione. Vuole essere un locale con cucina e wine bar grazie alla selezione di etichette naturali scelte dai ragazi di Bentoteca. Il mondo bakery è molto in voga in Giappone, anche se non ruota intorno a una cultura locale, ma prende in prestito tecniche e preparazioni dall’estero soprattutto dalla Francia.

 

PAN sarà dunque una bakery kitchen e wine bar: imprinting giapponese ma con un tocco nostrano, un posto di quartiere accogliente e per tutti, democratizzando i prezzi. Se conoscete il Giappone vedrete delle similitudini, faremo cose con il matcha ma non vogliamo che sia solo quello il DNA di PAN, vogliamo che sia per tutti aldilà del Giappone.

Se dovessi spiegare la cucina giapponese e il suo stato di salute attuale a milano cosa ci diresti?

Ancora il binomio sushi/Giappone non è finito. Milano ha avuto e ha ancora la forte ondata di all you can eat che non ha fatto benissimo alla cucina e gastronomia giapponese. Non solo a Milano ma ovunque. Poi questa città non rappresenta l’Italia a pieno perché per molte cose è più avanti e c’è più contaminazione. Quindi il milanese normalizza la cucina straniera con più facilità a oggi. Stanno ora iniziando a passare anche altri concetti, come il ramen, che ormai si conosce bene. Bisogna però iniziare a far conoscere altro. Come sta facendo Yoji con la Bentoteca.

 

Manca ancora a mio giudizio una cucina più popolare e più casalinga: c’è Sumire (in Via Varese) un luogo che amo, autentico, gestito da una coppia di Osaka. Poi c’è Poporoya che sicuramente è stato un apripista, oppure Fukurou (che però oggi si chiama Kappou Ninomiya) dove ultimamente vado un pò meno. A Milano c’è la tendenza a considerare la cucina giapponese in maniera elevata, con il concetto di kaiseki, ovvero il percorso gastronomico di fascia medio alta. Invece le ricette del mio paese d’origine sono accessibili e molto democratiche. Bisogna dirlo forte e chiaro. Ma ci stiamo lavorando.