Vi risparmiamo nell’incipit il suo curriculum, perché Angela Vettese è una figura centrale della cultura, a Venezia, come in Italia. Docente, autrice, anima di infinite avventure artistiche nel contesto della città sull’acqua. Abbiamo deciso di guardare un po’ Venezia con i suoi occhi e di scoprire come: “ooh, this is so contemporary!”.
Come è entrata Venezia nella sua vita?
«Ho imposto a mia madre di portarmi a Venezia, a 16 anni, perché lei ci veniva segretamente con mio padre quando studiavano a Padova. Da un punto di vista culturale, qualche mese dopo, in estate, tornai con alcuni amici per assistere allo spettacolo “Einstein on the Beach” alla Fenice. Sei ore di illuminazione, un colpo al cuore. Mi è subito apparsa come la città dell’avanguardia culturale. La Fenice, tra i teatri lirici, ancora oggi è il più sperimentale, non sempre osa ma quando osa lo fa molto bene».
Com’è diventata stabile la sua presenza qui?
«Mi hanno chiesto di insegnare all’accademia e il primo anno ho detto no: non volevo vivere da pendolare. Amo Milano dove ancora risiedo. Ma il secondo anno, dopo mille traversie all’Accademia di Brera, ho detto si perché stavamo progettando la facoltà di Design e Arti allo IUAV, assieme a Marco de Michelis, Germano Celant e l’allora rettore Marino Folin. Nel 2001 siamo partiti a razzo, pensavo non durasse più di tre anni. Invece gli altri sono andati e io sono ancora qui».
Dove e come la frequenta ora?
«In vent’anni ho stretto molti rapporti con artisti, colleghi e non solo. In particolare i molti anni di presidenza dell’istituzione comunale Bevilacqua La Masa sono stati un’esperienza totalizzante, la chiamavamo “Bevilacqua La Casa”. Sono stata accusata di averne fatto un centro sociale comunista, con la faccia da borghese che mi ritrovo! A Venezia ora vivo tra l’università, i bacari e le case. I bacari sono come delle stube nordiche: Venezia fa parte dell’asse verticale del freddo che porta a Vienna, Monaco, Amburgo. E qui, d’inverno, benché il mare sia vicino, spira un vento che chiama vino o birra. È bello rifugiarsi nel caldo delle poche osterie rimaste tali».
Quale incantesimo e quale maledizione avvolgono questa città nel presente?
«L’incantesimo, per quanto mi riguarda, nasce dalla Biennale, cioè dall’attenzione alle arti contemporanee, includendo oltre all’arte visiva anche danza, musica, teatro, architettura. Questa è una città piccolissima con una programmazione di portata mondiale, è possibile assistere alle prime uscite di moltissime produzioni di alto livello. È facile lavorarci perché si incontra la gente sul ponte, non c’è quel senso di asfissia che si può avere lavorando a Milano, dove il gusto del lavoro è stato scalzato dal culto del weekend, anche se ora vive un gran bel momento. Questa è la magia; ma c’è anche la maledizione: qui si è ancorati al presente e al passato; come in tutta Italia, del resto, non c’è visione sul futuro. Per fortuna la città è così forte che continua ad attirare intellettuali, artisti, protagonisti in ogni campo. La sola sopravvivenza di Venezia passa dalle università, che sanno attirare i giovani, e dai luoghi di cultura in generale: è l’unico mondo che per bilanciare l’iperpresenza di turisti. A Milano ci sono più turisti che a Venezia, ma la popolazione è talmente grande che si crea un equilibrio sociale e anche visivo. Finora Venezia è riuscita ad andare avanti con un effetto inerziale: la direzione della città è ancora quella data dal conte Volpi e del suo amico Giorgio Cini, che negli anni 20/30 capirono che Venezia doveva orientarsi fortemente anche verso il sapere. Venne inventata nel 1934 la Biennale Cinema, in favore di una propaganda populista e fascista, ma ancora oggi quel festival ha un perché anche in ambito sperimentale, e lo potrebbe, anzi dovrebbe accentuare visto che il glamour è traslocato a Cannes e il mercato a Toronto. Questa capacità di comprendere l’importanza dell’ambito umanista, per Venezia, oggi rimane presente solo in maniera inerziale e non è sufficientemente compresa dalle amministrazioni, e non parlo solo di quest’ultima. Tanto è vero che non esiste un assessore alla cultura. Lo posso dire, essendo stata “assessore allo sviluppo del turismo e alle attività culturali”. Una dizione cervellotica per una posizione che non prevedeva poteri decisionali e portafoglio. Attualmente c’è l’interim del sindaco, che non può certo occuparsi di tutto. Non c’è nessuna persona veramente competente a ricoprire quel ruolo; capisco che Brugnaro abbia voluto tenere il ruolo per se’ – la cultura è un settore vastò e strategico per la distribuzione di fondi, la raccolta di consenso e le relazioni internazionali- ma l’assenza di un vero team con competenze specifiche è un peccato mortale. Il vero assessore alla cultura di Venezia, finora e dal 1998 nonostante qualche interruzione, è stato Paolo Baratta, il presidente della Biennale. Ora che il suo mandato è in scadenza, mi chiedo con terrore chi ci sarà dopo di lui».
Tifiamo Vettese?
«magari! Il mio curriculum non è adatto a una nomina che è sempre stata legata alla politica, sebbene in modo non necessariamente diretto. Io faccio un altro mestiere.
E qual è? Scoprire gli artisti o formarli?
«Di lavori ne ho fatti tanti, troppi, dalla scrittura divulgativa alla curatela cibo alla direzione di Musei, fondazioni, festival. Certo, molto di ciò che ho fatto è riconducibile alla formazione, dalla creazione del Corso Ratti con Giacinto di Pietrantonio e ANIE Ratti fino alla nascita di Iuav Arti Visive, il primo corso universitario con docenti che sono artisti o critici internazionali. Da Joan Jonas a Muntadas, da Eliasson a Marta Kuzma, oggi Dean a Yale. Anche alla Bevilacqua, che ha due sedi espositive e 14 studi per artisti assegnati per un anno, il lavoro curatoriale si legava alla formazione attraverso mostre, cataloghi, networking per gli artisti in residenza».
Quali saranno i futuri approdi dell’arte contemporanea? Siamo alla deriva?
«Essendo un bene rifugio, l’arte adatta al mercato serve sia in termini economici che di prestigio. Ma ormai è nelle mani di chi la utilizza, come d’altronde avveniva nel Rinascimento, più bellicoso di quanto si ammetta usualmente. Non è cambiato granché da allora: quindi abbiamo i grandi magnati che si chiamano Arnaud e Pinault, ma anche con nomi arabi, russi, cinesi, coreani, vietnamiti. Lavarsi la coscienza e al contempo comprare il senso della charity. Che non disdegno – molti di loro hanno aiutato anche Iuav Arti Visive – ma che tende a premiare un mondo dell’arte molto standardizzato, costruito da poche gallerie attive nel mondo e lontane dalle realtà locali. Niente di nuovo sotto il sole: pensiamo all’azienda leader del tabacco Philip Morris, che nel 1969 ha sponsorizzato la mostra del guru anticapitalista Harald Szeeman, “When Attitudes Become Form”. Intuito questo speriamo che Venezia, negli scenari di soldi e di guerra che preferiamo non vedere, resti un po’ meno offesa e un po’ più porto franco: ha un santo che la protegge e questo santo si chiama bellezza».
E l’acqua?
«bene e male del luogo, forse sarà il disastro di Venezia come è stata il suo inizio. La laguna è una costruzione artificiale, se esiste è perché da sempre l’uomo lavora per tutelarla. Se però l’innalzamento dei mari in tutto il globo diventerà significativo, come pare da scenari catastrofisti che non possiamo non prendere in considerazione, Venezia andrà sott’acqua, “Venice is sinking”, cioè affonda, si dice. Il problema ora è un altro: a quale velocità salirà l’acqua? Purtroppo molti denari che avrebbero potuto aiutare Venezia sono finiti nel Mose che non servirà a niente. Come si può fare la manutenzione di quell’aggeggio, già ammalorato prima di essere terminato, banalmente e prevedibilmente aggredito da alghe, cozze e salso?».
Se il Mose fosse un’opera di land art accetterebbe di scrivere un testo di curatela per il suo catalogo?
«Ah, sì. Almeno non pretenderebbe di essere nient’altro di ciò che è, una cosa inerte in mezzo alla laguna, che ha promesso tante cose e che non le manterrà».
Come va fruita un’opera d’arte oggi, in questo overclocking di immagini, come si recupera la concentrazione nei confronti di ciò che ci viene proposto da un’artista?
«Non so se questa domanda va fatta a me, è una questione da porre agli artisti. Come fanno a trattenere l’attenzione? Devono farlo? Ci sono artisti che accettano di lavorare su instagram e hanno calcolato un tempo di attenzione di mezzo minuto per il loro lavoro, altri che pensano che possa essere considerato e visto come una grafia o una decorazione, altri che vogliono essere autori nel senso tradizionale del termine e chiedono allo spettatore tempi lunghi. Come un’opera viene vista, con quale temporalità e concentrazione, se dal vivo o in riproduzione, sono aspetti che fanno parte dell’opera stessa, le sono insiti. Quindi e quindi è l’artista che ne imposta la percezione come desidera. La modalità per fare sentire l’opera sta dentro l’opera».
Cosa capitalizza dell’esperienza politica come assessore del comune di Venezia e cosa preferisce dimenticare?
«L’esperienza si è chiusa perché hanno arrestato il sindaco. Peccato. Mi ero liberata il tempo per poter ricoprire quel ruolo, ho chiuso i rapporti con l’università Bocconi, mi ero messa in part-time all’università Iuav, ho lasciato la presidenza della Bevilacqua. È stata una fregatura. Però pensavo, come facevano i latini, che in una certa fase della vita deve arrivare il momento della “restituzione”: se si è stati fortunati, va bene mettere a disposizione della collettività le proprie competenze. Era un rischio che mi è piaciuto correre, a prescindere dal risultato. Che comunque è stato impagabile, perché capire le cose da dentro è sempre un bel modo di stare al mondo. Non succederà più, perché sono identificata con la sinistra, cioè il PD, ma io non sono affatto organica al PD e il PD, al momento, non è organico a se stesso: non si è ancora propriamente rifondato. Poi, non sarei più disposta a fare l’assessore di facciata. Quando riuscivo a recuperare delle risorse, cosa che nessuno si sarebbe aspettato da me, ma che so fare e ho fatto, i “si” che avevo raccolto soprattutto dalla soprintendenza diventavano improvvisamente dei no. Mi sono sentita messa la’ perché la sedia non restasse troppo nuova, ma con la richiesta implicita di non far niente».
Possiamo scriverlo?
«Si, è una vita che mi rovino la carriera per inseguire la curiosità. Diventare un gran giornalista o buon direttore di museo o un accademico riconosciuto è abbastanza facile: ci sono dei passi da fare e dei metodi da seguire. Ma non devi perdere tempo ed energie dietro ad altre avventure. Ogni corporazione, a modo suo, è monolitica».
Insomma come la salviamo questa città? Ha bisogno di una costruzione collettiva di senso? È una cosa che può nascere dal basso?
«Sarebbe bello. Ma il basso non c’è, Venezia è troppo piccola. La maggior parte dei votanti abita fuori Venezia, e gestire la Venezia insulare è un compito che andrebbe almeno in parte delegato allo Stato o addirittura all’Europa, che dovrebbero aiutare il Comune a non lasciarla in mano alle categorie più pressanti, quelle legate al turismo di massa. Il governo locale andrebbe spinto gentilmente verso l’unica direzione possibile di sviluppo, che, come si diceva prima, ha che fare con la cultura e le cosiddette industrie creative. Non si può pensare di creare posti di lavoro, come si è sperato di fare tra gli anni ‘30 e ‘60, con un sogno industriale che è fallito insieme al petrolchimico di Marghera. Certo c’è il porto, c’è la Fincantieri, alcune attività produttive rimangono vive. Però il problema del turismo non-sostenibile è destinato ad aggravarsi. Non prenderei sottogamba la notizia che i musei civici staranno aperti mezzora in meno ogni giorno. Non investire su queste attività significa non capire che i turisti bisogna mandarli nei musei, far loro vedere palazzi splendidi che ospitarono la Serenissima e che oggi sono centri di attività non scontate. Anche solo spostare il 10% dei turisti spingendoli a non vagare nelle calli e tra San Marco e Rialto sarebbe un bel modo per fare vivere al meglio queste strutture preziose».
Gallerie, associazioni, fondazioni: Venezia rimane ancora una città in fermento?
«Venezia ha dovuto rinnovarsi in ogni secolo della sua storia. Il prezzo di non guardare al futuro sarebbe stata la distruzione del suo abitato, aggredito dall’acqua salata. Per questo è sempre cresciuta su se stessa, ha per tempo attirato il meglio di tutti gli stili architettonici e ha inventato un suo modo di affiancare l’antico al nuovo. Insomma è una città abituata alle avanguardie e al presente almeno da quando è nata. Da questo spirito, tutt’altro che passatista, è nata la Biennale con le sue mille ricadute. Grazie ad essa sono sorte in oltre un secolo molte istituzioni centrate sul contemporaneo. Non dimentichiamo che tre anni dopo la sua nascita, arriva anche la fondazione Bevilacqua La Masa. La biennale nasce nel 1895 come entità internazionale. Felicita Bevilacqua La Masa, sorella e moglie di due sciagurati di cui volle cancellare la pessima reputazione e innalzare il nome, da sola lascio’ Ca’ Pesaro alla città per consentire di vivere lavorare ed esporre agli artisti locali. “A profitto specie dei giovani artisti ai quali è spesso interdetto l’ingresso nelle grandi mostre” scrive nel suo testamento del 1898. Fondazione Cini, Peggy Guggenheim Collection, Pinault Foundation, Fondazione Prada, Stanze di Vetro, VAC… per nominarne solo alcune, sono realtà da comprendere in questo solco, come anche la Querini Stampalia, la Marciana, la Levi, l’Ateneo Veneto, la Venice International University, insieme a spazi meno paludati come la Serra dei Giardini o il Punch alla Giudecca. E tante altre; mai avremmo pensato di fare un corso di arti visive allo Iuav se qui non ci fosse stata Biennale, perché i docenti sono gli stessi artisti che passano da la’. I nostri studenti vorrebbero rimanere e ci provano. È un circolo virtuoso che continua ad alimentarsi. Anche Victoria Miro ha voluto aprire qui, dove ci sono gallerie piccole ma attive come Michela Rizzo, Alberta Pane, Ziva Krauss tra le altre. Se giriamo Venezia, oggi, troviamo 10 fondazioni nate negli ultimi 10 anni con denaro pubblico o privato, ma comunque straniero: dobbiamo essere molto grati al fatto che Venezia è ancora in grado di proporsi. Questo è un posto perfetto per farsi notare: se sei un magnate, da qualsiasi parte del mondo, vuoi venire qua».
*Angela Vettese ha insegnato nelle accademie di Belle Arti di Milano, Venezia e Bergamo, all’Università Bocconi di Milano (2000-2007 e 2010-2013) e dal 2001 è direttore del Corso di laurea magistrale di arti visive e moda dell’università Iuav, di cui coordina lo spazio espositivo a Ca’ Tron. È stata presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa (2002-2013), direttrice della Galleria Civica di Modena (2005-2008), direttrice della Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano (2008-2010), co-curatrice della Fondazione Antonio Ratti di Como (1995-2004), co-fondatrice del Premio Furla-Querini Stampalia, co-fondatrice del Festival dell’Arte Contemproanea a Faenza (2007-2011). Ha pubblicato saggi in cataloghi e libri internazionali tra cui Capire l’arte contemporanea (Allemandi, Torino, 1996/2006/2013/2018), Artisti si diventa (Carocci, Roma, 1998), Si fa con tutto (Laterza, Roma Bari, 2010 e 2012), Arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi (Il Mulino, Bologna 2012 e 2017), Art as a Thinking Process (con Mara Ambrozic, Sternberg, Frankfurt 2013), Venezia Vive (il Mulino, Bologna 2017), in uscita Desiderio – Orange Marilyn di Andy Warhol (Il Mulino, Bologna 2019). Nel 2009 è stata presidente della giuria della Biennale di Venezia. Dal 1986 scrive per il supplemento „Domenica“ de Il Sole 24 Ore. Ha ricoperto la carica di assessore alle attività culturali e allo sviluppo del turismo per il Comune di Venezia dal 2013.