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La prima presidente donna lesbica del Cassero, Camilla Ranauro

quartiere Porto

Geschrieben von Salvatore Papa il 29 April 2022
Aggiornato il 2 Mai 2022

Il Cassero ha la sua prima presidente donna: si chiama Camilla Ranauro, ha 28 anni ed è originaria di Benevento. Camilla, che era già nel direttivo attuale, succede a Giuseppe Seminario, che ha traghettato il Cassero attraverso la tempesta economica e sociale della pandemia, oltre che verso nuove pratiche politiche.

L’avvicendamento è stato deciso ed è avvenuto a metà mandato all’interno dell’attuale direttivo, in carica dall’ottobre del 2020. Il cambio di presidenza era stato formalizzato il 12 aprile scorso, ma è stato annunciato ufficialmente nell’Assemblea per il Bilancio Collettivo di ieri.

Cosa significa questo passaggio ce l’ha raccontato Camilla stessa.

 

Cosa cambierà?

Considerato che il direttivo rimane lo stesso, rimangono gli obiettivi della mozione congressuale con la quale siamo state elette che è Casserocene verso nuove ere transfemministe.
La mozione è stato un lavoro di scrittura collettivo molto ampio che è durato 9 mesi durante la pandemia e ha coinvolto moltissime socie del circolo, un prodotto del quale siamo molto orgogliose e che sintetizza bene la nostra visione del Cassero.
Ovviamente il cambio di presidenza dice qualcosa dal punto di vista simbolico, perché non c’era mai stata una donna lesbica presidente e questo sicuramente è un passaggio storico che volevamo fare perché i tempi erano maturi. Era importante dare il messaggio che il Cassero non è più un luogo per soli uomini gay, non lo è da molti anni. Il Cassero era un po’ incastrato in questa percezione. Ma all’interno del direttivo non ci sono solo maschi gay e molte persone che hanno ruoli di responsabilità e che gestiscono progetti importanti sono donne, persone trans o non binarie. Il Cassero è attraversato da una miriade di soggettività diverse. Dal punto di vista della rappresentazione, quindi, cambierà il fatto che questa diversità sarà più visibile di prima.

È anche vero, tra l'altro, che il Cassero ha ospitato per anni Arci Lesbica, poi però qualcosa si è rotto...

Il Cassero ha ospitato per molti anni la sede di ArciLesbica Nazionale e dopo anche ArciLesbica Bologna. Fino a quando la sezione territoriale è fuoriuscita da ArciLesbica Nazionale perché le socie non si sentivano più rappresentate dalle loro posizioni, soprattutto rispetto alle persone trans. ArciLesbica oggi, per dirne una, è allineata con alcuni partiti di destra rispetto all’intenzione di cancellare la parola “identità di genere” nel disegno di legge Zan. Da quella scissione è nata però un’associazione che si chiama Lesbiche Bologna che tuttora ha sede alla Salara.

Pensi che siano state queste divergenze a rallentare l'arrivo di una donna alla presidenza?

Penso che questo sia piuttosto dipeso da tanti fattori e problemi strutturali della nostra società, come ad esempio il sessismo, la lesbofobia, la mancanza di rappresentazione femminile in tantissimi ambiti, soprattutto “ai piani alti”. Non credo c’entrino quindi i problemi interni del Cassero. Anzi, il Cassero per sua vocazione è sempre stato uno spazio di militanza mista, attraversato da tante soggettività diverse, anche se la rappresentazione all’esterno non ha mai dato una chiara immagine di questa diversità interna.

Tu quando sei arrivata a Bologna?

Nel 2017, dopo alcuni anni a Milano. Avevo frequentato l’Arcigay di Milano, ma già in adolescenza avevo fatto attivismo a Benevento, dove insieme ad altri amici, amiche e compagne abbiamo fondato il Wand, un collettivo costituitosi poi associazione che ha organizzato il primo e unico Pride di Benevento nel 2015. Il contesto era completamente diverso rispetto a quello bolognese, lì non esistevano realtà LGBTQIA+ o realtà femministe. Da quell’esperienza ho imparato tantissimo però, da lì è passata la mia formazione. Dopo ho continuato a cercare una comunità e un percorso politico al quale aderire e il Cassero ha risposto totalmente a questo bisogno. Qui ho trovato un luogo accogliente che può diventare una famiglia.

Quindi sei venuta a Bologna perché c'era il Cassero?

Assolutamente sì.

Pensi che sia ancora un luogo distintivo e identitario della città?

Certamente, lo vediamo nel flusso di socie, volontarie, utenti che continuano ad arrivare, dal Sud ma anche dalle periferie del Nord e questo ovviamente connota la città. A mio parere la comunità LGBTQIA+ è ancora una parte fondamentale dell’identità di Bologna. Molte persone, come successo a me, sanno che a Bologna c’è il Cassero o il MIT o una rete di realtà senza pari capaci di dare supporto e rappresentanza.

C'è stato un momento però in cui si era evidenziata una spaccatura all'interno della comunità, arrivata addirittura a marciare separatamente durante il Pride. Spaccatura che però pare oggi risanata. Che ne pensi?

È vero, c’è stata in passato una parte del movimento che non si identificava più nelle modalità del Cassero. Da un paio d’anni e con il nuovo direttivo però il Cassero si è riavvicinato anche alla parte più radicale del movimento e questo è avvenuto grazie al dialogo e al riconoscimento reciproco. Oggi facciamo parte di una rete che si chiama Rivolta Pride che organizzerà il Pride del 25 giugno e che sta organizzando il 14 e 15 maggio a Bologna negli spazio dell’UNIBO di Berti Pichat gli Stati Generali. È una rete molto composita all’interno del quale esistono posizioni diverse e pratiche politiche molto diverse. A dimostrazione della ricchezza dello scenario LGBTQIA+ bolognese e della sua complessità di cui parlavamo prima.
Anche se le modalità di un’associazione come il Cassero riconosciuta dalle istituzioni possono essere molto diverse da quelle di collettivi non formalizzati, gli obiettivi sono però comuni. Ed è giusto e prezioso che sia così, l’importante è che ci sia un riconoscimento reciproco.

Cassero “di lotta e di governo”?

È una definizione bellissima a modo suo, forse un po’ riduttiva, ma penso che possa essere adatta alla nostra situazione. Continuiamo ad essere in dialogo con l’amministrazione, in dialogo con la Vicesindaca e Assessora alle pari opportinità Emily Clancy, siamo parte del nuovo percorso per il Patto di Collaborazione, riceviamo fondi che riconoscono le nostre attività, ma comunque continuiamo a portare avanti anche una lotta che è di critica nei confronti delle istituzioni. Penso che entrambe le modalità siano necessarie.

Zan è tornato sulla scena. Continuerete a chiedere molto più di Zan?

Continueremo a chiederlo. E questo non è un posizionamento solo rispetto a Zan, ma riguarda quelli che sono i nostri bisogni e le nostre istanze. Nel disegno di legge Zan non c’è tutto quello di cui la comunità ha bisogno. Ma non è solo un limite della legge, è un’ovvietà. Dicendo “molto più di Zan” non diciamo che non vogliamo il ddl Zan, ma che vogliamo molto di più. È importante che la società riconosca che la comunità LGBTQIA+ non è alla ricerca di una singola istanza da soddisfare che è quella della protezione attraverso modalità penali della violenza omolesbotransfobica. Abbiamo bisogno di percorsi di autodeterminazione di genere, abbiamo bisogno del riconoscimento di tutte le famiglie, dell’adozione, di tutte le tecniche procreative, bisogno di ripensare il modo con cui si parla di noi e molto altro.