Chiunque abbia un’idea decente e la forza di portarla avanti (perché solitamente se è buona è anche alternativa, fuori dagli schemi e sicuramente senza soldi) allora per noi vale la pena ascoltarla. Ecco perché siamo andati a scovare gli CHEZPLINIO, che sono un po‘ tutti noi e che hanno aperto il loro spazio per l’arte indipendente, autofinanziato, inclusivo e sul costante orlo del collasso. Il tutto a Corvetto.
Una roba un po’ punk? Sì, abbastanza.
Il confine tra la vita e la morte, tra esistere e non esistere, qual é la vostra posizione di Chezplinio?
CHEZPLINIO ha rischiato grosso di non esistere. Peraltro, non è detto che esista ancora a lungo. Ma non necessariamente esistere è meglio di non esistere. Diciamo che non esistere è meno impegnativo ma probabilmente dà anche meno soddisfazioni. Non abbiamo ancora una posizione, contiamo di farcela nei prossimi mesi. Nel mentre, CHEZPLINIO esiste come piccolo centro d’arte che propone artisti low o middle career, uno spazio espositivo che si presta a qualsiasi cosa, o quasi. Esistiamo come progetto tra amici che si autofinanzia e che quindi ci permette di essere molto free e non vincolarci a logiche altre. Una roba un po’ punk? Sì, abbastanza.
Nel vostro incedere di luogo, spazio e situazione, avete scelto la mutabilità e trasformazione. Ci raccontate il vostro processo kafkiano?
Sì, il posto non è dei più eleganti, il richiamo a uno scarafaggio ci può stare. In realtà il testo originale de La Metamorfosi dice solo Ungeziefer, cioè un generico «parassita» o anche «insetto infestante». Tra progetti stanziali e progetti a termine, sono più di dieci anni che ci ritroviamo a organizzare cose. Abbiamo cambiato città e forma diverse volte, abbiamo cambiato nome. Ma infestanti non lo siamo diventati. Parassiti nemmeno.
Avete scelto una dimora a Corvetto, in uno dei quartieri più in trasformazione della città che, in quanto tale, sta rivelando le sue facce più dure e quelle più dolci. Voi come ci siete arrivati?
A Corvetto ci siamo arrivati a fine 2017 cercando capannoni su internet. Il nostro era distante da casa e scomodo. Però il soffitto era alto, un capannone per artigiani in un cortile di artigiani. Di certo non il sottoscala interrato che si affitta come studio a Milano. È più simile a certi altri studi visti in Germania o in Olanda. Niente condomìni con vicini fastidiosi. Al confine con la campagna. Perfetto. In una via che nel 2017 era vuota e in disuso. Era.
Avete dei posti del cuore in quartiere?
Il caffè Lorini, una pasticceria artigianale. La signora, alla mattina, non devi nemmeno chiedere e ti fa il cappuccio con la cannella e il croissant al pistacchio. Poi l’Abbazia di Chiaravalle, alla fine della campagna. I frati in autunno fanno le castagne e vendono la birra. Poi Magnamm, pizzeria napoletana vera. Poi c’era il magico Demus, un’osteria con zero qualità ma tantissima quantità. Pranzo con 200g di pasta, cotoletta e patatine, caffè e bicchiere di vino a 12 euro. Dodici. Ma ha chiuso.
Io alla prima mostra nel vostro spazio ci sono stata: partiamo degli artisti, come ragionate? Che storie portate nel vostro spazio?
È una domanda difficile. La verità è che si ragiona poco. O meglio, non è per ragionamento che si sceglie l’uno o l’altra. È più una questione di pelle, di affinità, di parentela acquisita. È una specie di ricerca che non è solo estetica ma anche qualcosa d’altro, che ha una qualche espressione politica, o un legame con la natura, o con l’infanzia, o con la guerra, o con qualcosa che accomuna tutte queste cose e che per l’appunto è un bel po’ faticoso da spiegare. Di certo c’è che non vorremmo risultare uno dei tanti project-space/artistrun-space/stoc**-space, in cui più che in uno spazio di inclusione ci si sente in uno spazio di esclusione.
Oltre ai lavori c’era anche altro, una situazione, un contesto, dai non spoilero, raccontateci voi.
Sì, c’era dell’altro. C’erano delle persone e delle salsicce arrotolate. Un vino in cartoni da 5 litri incredibilmente ottimo. La griglia era un po’ arrugginita e affumicava l’aria e pioveva a dirotto, eppure ce n’erano tante di persone. La gente è abbastanza strana. Ma poi neanche troppo. Va dove c’è qualcosa di bello da vedere e dove si sta bene. La gente venuta a vedere Gezähmte Bestiacce ha guardato la mostra ma poi è rimasta lì, così, per il gusto di stare insieme. Quasi come se l’esposizione fosse passata in secondo piano. Ecco, nei nostri opening vorremmo ricreare l’atmosfera di una sagra di paese, non di un “evento culturale”.
So che avete fatto un totale investimento nel fallimento: visioni future?
Si fa fatica a parlare di futuro. Non ne abbiamo mai parlato. Però stiamo diventando anziani quindi fallire farà meno male, e questo ci rasserena. O magari, al contrario, metteremo su radici e diventeremo ricchi. Sarebbe anche ora. Ma non ci contiamo. Del resto, quando si parla di futuro in genere vuole dire che ci si sta un po’ annoiando del presente, e non ci siamo ancora arrivati. Sicuramente, come dicevamo, alla base dell’essere un progetto tra amici che si autofinanzia, c’è che quando finiscono i soldi finisce anche la storia. E va bene così.