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Claudia Losi

Monica De Cardenas inaugura il 18 gennaio Asking Shelter di Claudia Losi, una mostra sulla trasformazione

Geschrieben von Marco Scotti il 17 Januar 2017
Aggiornato il 8 Februar 2017

Abbiamo incontrato Claudia Losi nel suo studio a Piacenza, per parlare della mostra Asking Shelter, che aprirà mercoledì 18 gennaio a Milano alla galleria Monica De Cardenas, delle sue recenti esperienze tra Reggio Emilia e la Cina, del concetto di viaggio e della sua passione per il nord.

 ‏No Place, 2016 ‏stampa giclée su carta cotone con supporto in alluminio, mdf, lastre in zinco, ‏pietra di serpentino, vetro, collage, fusioni in bronzo. ‏Courtesy Collezione Maramottti ‏Foto Andrea Rossetti

‏No Place, 2016
‏stampa giclée su carta cotone con supporto in alluminio, mdf, lastre in zinco,
‏pietra di serpentino, vetro, collage, fusioni in bronzo.
‏Courtesy Collezione Maramottti
‏Foto Andrea Rossetti

ZERO: Come prima cosa ti chiederei di raccontarci la tua mostra che sta per inaugurare…

Claudia Losi: Asking Shelter, ovvero chiedere rifugio, riparo, è il titolo della mostra ma anche di una delle opere esposte, a cui sto lavorando già da diverso tempo, quasi due anni. Questa nasce come una serie di capanne, o meglio proto-capanne: forme molto semplificate, che avrebbero potuto essere costruite da un bambino oppure ipoteticamente nel paleolitico, che qui in galleria hanno le dimensioni di modellini, non molto grandi. Il mio sogno è realizzarle un giorno in modo che tu possa effettivamente entrarci, usando però dei rami di rosa, pieni di spine!
Da questi rami, che ho raccolto negli anni, per il lavoro in galleria ho fatto una fusione in bronzo, ottenendo una serie di piccoli bastoncini uno diverso dall’altro. Saldandoli insieme sono diventati queste forme di accoglienza, che al tempo stesso accogliendo negano questa loro attitudine formale. Qualcosa che dovrebbe accogliere ti obbliga così a tenere alta la soglia di attenzione, devi chinarti… Si può leggere in tanti modi, in questo momento dare riparo e rifugio è un argomento che sentiamo tutti, per diversi motivi, ed evidentemente c’entra anche questo nella scelta del titolo. Rifugio è un’idea di casa, un luogo che dovrebbe proteggerti ma che allo stesso tempo può essere estremamente pericoloso per la tua crescita: se ti muovi con disattenzione o il tuo corpo cresce troppo può essere punito!
Inoltre è stato molto impegnativo realizzare questi “rami” spinosi in fonderia…

Con quale fonderia hai lavorato in questo caso?
Sono andata a Milano da questo signor Ugo, un gigante, milanese doc e ormai annerito a causa del materiale metallico assorbito dalla pelle, assolutamente bravissimo, anche a lavorare in microfusione.
Anche a livello formale penso che questi “oggetti” siano davvero ben riusciti.

 ‏No Place, 2016 ‏stampa giclée su carta cotone con supporto in alluminio, mdf, lastre in zinco, ‏pietra di serpentino, vetro, collage, fusioni in bronzo. ‏Courtesy Collezione Maramottti ‏Foto Andrea Rossetti

‏No Place, 2016
‏stampa giclée su carta cotone con supporto in alluminio, mdf, lastre in zinco,
‏pietra di serpentino, vetro, collage, fusioni in bronzo.
‏Courtesy Collezione Maramottti
‏Foto Andrea Rossetti

Come si inserisce questo rispetto agli altri lavori in mostra?
I lavori esposti sono tutti legati da un fil rouge, ma non è un progetto unico. Anch’io sto costruendo questo dialogo: è bello quando il lavoro ti permette di imparare delle cose su quello che stai facendo.

Servono anche a questo le mostre!
Non sulle capanne, ma su alcuni rami di rosa di questa serie ho poi inserito dei piccoli animali, realizzati in argento…

Anche questi sono stati realizzati appositamente per l’occasione?
Esatto, riproducono dei Membracidi, piccoli insetti il cui torso può assumere forme di vario tipo per mimetizzarsi. Potete cercare le immagini su Google, e sono impressionanti: la loro schiena si deforma fino a farli assomigliare a formiche, pezzi di legno, vespe, e anche spine di rosa, come questi che saranno esposti! L’idea era di lavorare su questa forma mimetica, che si nasconde, estremamente preziosa, che cambia per poter sopravvivere.
La trasformazione forse è forse l’aspetto più evidente del fil rouge di cui ti parlavo, che attraversa tutta la mostra.

 ‏Poli Arctici Constitutio, 2016 ‏ricamo in seta su tessuto in lana, 2,5 metri di diametro ‏Courtesy Collezione Maramottti ‏Foto Andrea Rossetti

‏Poli Arctici Constitutio, 2016
‏ricamo in seta su tessuto in lana, 2,5 metri di diametro
‏Courtesy Collezione Maramottti
‏Foto Andrea Rossetti

Come continua poi il percorso della mostra?
Passo all’ultima stanza della galleria, che però mi sembra giusto anticipare, dedicata sempre a degli insetti, delle farfalle che ho fatto incidere sul marmo. Lastre di marmo che erano vecchie soglie di casa mia: le abbiamo messe a posto e realizzato queste incisioni variamente stratificate, leggere e appena visibili, che rappresentano farfalle durante l’accoppiamento oppure nell’atto di alimentarsi. L’immagine di questo lavoro è diventata anche l’invito della mostra.
Queste lastre dovrebbero poi dialogare in mostra con dei piccoli video, proiettati a parete, delle dimensioni di una cartolina, con farfalle che mangiano, escono dal bozzolo e muoiono. Il punto di partenza è un video che ho realizzato due anni fa di questa farfalla che continua a sbattere le ali, e in realtà sta per morire. Ci saranno poi delle frasi mie, in inglese, che faranno da chiusa a ogni singola “cartolina”.

Saranno delle piccole cartoline animate.
Esattamente, mi viene da chiamare così questi video, considerando anche che ognuno dura meno di un minuto.
Saranno farfalle, un po’ perché mi era rimasta l’immagine di questa idea di trasformazione, un po’ perché la fase dell’evoluzione di quella che noi chiamiamo farfalla è soltanto l’ultima di una lunghissima trasformazione, una mutazione da uovo, a bruco, a crisalide… L’ultima fase, la farfalla appunto, in termini entomologici si definisce immagine: trovo questa cosa molto interessante, ma non ci ho riflettuto solo io! Marco Belpoliti ad esempio in La strategia della farfalla partiva da una serie di riflessioni sugli insetti per raccontare come Benjamin e Sebald ad esempio parlino dell’immagine della farfalla, una tra le cose più effimere e rappresentative, spesso utilizzata metaforicamente per rappresentare il ciclo della vita.
Dall’ultima stanza della mostra vorrei poi tornare alla prima, dove sarà esposta un’immagine fotografica stampata su carta, trovata e riprodotta da un libro di scienze degli anni Sessanta – penso che tutti l’abbiano già vista! -, di un ovulo femminile fecondato. Non è immediatamente riconoscibile a livello visivo, e su queste forme ellittiche ho cucito dei fili che escono dal vetro frontale, così diventa quasi una scultura. Sempre nello stesso spazio vorrei portare anche una scultura appesa, una struttura globulare, su cui ho ricamato rappresentazioni prese dal repertorio dell’arte preistorica: incisioni, dal Nord Africa a Lascaux, di animali.
Questo è un altro tema che ritorna, la stanza più grande della galleria sarà occupata da una serie di stoffe su cui sono stampate immagini di animali – simili a quelle che ho esposto nella mostra How do I imagine being there? alla Fondazione Maramotti – sovrapposte, animale su animale. Il riferimento è sempre l’arte preistorica, un mio pallino da tanto tempo, animali che nascono da forme animali: nelle grotte dove per migliaia di anni sono scesi ominidi, sono state aggiunte immagini su immagini. Venivano utilizzate le forme preesistenti per farne nascere altre, e ci sono casi in cui il dorso di un cervide diventa la coscia di un bovide ad esempio, e mai la stessa mano l’ha fatto ma nel tempo queste immagini si sono combinate. Da forma nasce forma…
Questi collage di animali che si combinano tra loro, pur essendo incompatibili in natura, sono realizzati pensando alla figura dell’animale come testimone, da un certo punto di vista, che sta tra noi e il naturale. C’è un’immagine fra queste – tutte ritagliate da libri facilmente recuperabili – che mi piace particolarmente: un cacciatore che con una lancia sta uccidendo un orso polare, che nel collage sembra infilzare questa teoria di animali combinati tra di loro.

 ‏Beating Wings _ Making Words 2014-2017 ‏video projections: ‏Time collapses in this particular space, 01:25 ‏Famished wind, 01:33

‏Beating Wings _ Making Words
2014-2017
‏video projections:
‏Time collapses in this particular space, 01:25
‏Famished wind, 01:33

Tecnicamente come hai realizzato questi lavori?
Li ho stampati su seta pura: sete lunghissime, alcune sono quasi sei metri! Può sembrare un lavoro “fighetto”, ma mi piace quando c’è una combinazione che si può leggere in tanti modi: è anche disturbante ad esempio, se lo si vuole leggere correttamente.
Dopo la stampa digitale, che ho fatto realizzare a Como, ho spedito le sete a un ragazzo di Mantova che adesso sta in Puglia e tinge le stoffe con colori naturali che produce lui. Ha dei campi di piante tintorie e ha riprodotto i colori che gli avevo indicato – approssimativamente – con vari tipi di elementi: li troverete elencati nelle didascalie in mostra!
Gli effetti poi sono bellissimi, non è un colore omogeneo, cambierà nel tempo… Per me tutto questo è un valore aggiunto. Saranno delle cascate di colori, rossi e verdi, appesi al soffitto.
Un’ultima cosa che ho voluto assolutamente fare in questa mostra è una serie limitata di poster, che verranno distribuiti, e che riportano in inglese la frase “l’imprescindibile desiderio umano di fare senso” – mi rendo conto che è ambiziosa – e due immagini, una per lato. In particolare frammenti di immagini che mi sono servite in qualche modo, forme a cui mi sono ispirata.

Anche in questo caso hai collaborato con qualcuno?
Li ho stampati con Michele Lombardelli di Piacenza, che ha un’attenzione rara su queste cose.

Ci sono due temi di cui vorrei ancora parlare con te. Il primo è il ruolo del naturale nella tua ricerca, ma in particolare mi interessa il concetto di déplacements, che ritorna in tanti tuoi lavori
È un punto centrale, la geolocalizzazione è importante! il titolo della mia mostra alla Fondazione Maramotti, e del libro edito da Humboldt books che la accompagna, How do I imagine being there?, contiene tutto questo. Il coinvolgimento fisico è una cosa che sento abbastanza importante nel lavoro, quanto il corpo funziona da calibro in un qualche modo rispetto alle esperienze che abbiamo, soprattutto quando si tratta del viaggio, dello spostamento fisico in un luogo. Poi questo per un artista può avvenire anche in studio: proprio ieri sera Alice Cattaneo domandava a me e Sabrina Mezzaqui rispetto al muoversi in studio, al cammino del fare quando si parla di attività ripetitive come può essere ad esempio il cucito. Gesti che vengono ripetuti e che assumono senso in una sequenza, seguendo il loro ritmo, un po’ come il passo ti permette di arrivare da A a B. Interessante è pensare come il cammino, lo spostamento e l’attraversamento fisico di un luogo ti permetta di calibrare il battito cardiaco, i pensieri… vale anche per te quando sei in bicicletta ad esempio!

 ‏Essere Altrove/Being Elsewhere,  2006-2009 ‏veduta dell’installazione e frame da video ‏durata 14:53 ‏Regia del video Daniele Signaroldi. ‏Realizzato con il supporto di UniCredit Group. ‏Foto installazione Daniele Signaroldi

‏Essere Altrove/Being Elsewhere,
2006-2009
‏veduta dell’installazione e frame da video
‏durata 14:53
‏Regia del video Daniele Signaroldi.
‏Realizzato con il supporto di UniCredit Group.
‏Foto installazione Daniele Signaroldi

Ovviamente.
È fisiologico, non puoi prescindere. E molto spesso siamo obbligati, per diverse ragioni, a dimenticarlo, perché siamo qui, immaginando di essere altrove. L’idea iniziale della mostra alla Maramotti era proprio questa: nel libro chiedevo a persone diverse di riflettere sul significato, ma è un tema inesauribile, ognuno porta la propria esperienza legata a luogo, caratteristiche fisiche, contesto culturale…
L’idea di déplacements è legata allo spostarsi fisicamente e allo spostarsi grazie a questo strumento straordinario di cui noi disponiamo, immaginari possibili. In un qualche modo quando si parla dell’attitudine sciamanica, questa è la massima espressione di questa attitudine che in realtà è insita in ognuno di noi. Una delle caratteristiche dell’uomo è proprio quella di proiettarsi leggendo i segnali che ha attorno: grazie a questo riesce a compiere spostamenti che non sono fisici, avvengono perchè il tuo corpo si è fatto anche spugna e trasformatore di questi dati empirici.
L’aggancio iniziale di How do I imagine being there?, questo viaggio in luogo non facilmente raggiungibile – l’arcipelago di Saint Kilda, nelle Ebridi Esterne in Scozia – è diventato per me il paradigma per poter riflettere su questi temi, per poterli accogliere e dargli un teatro, un palco su cui lavorare e portare la propria esperienza. Nel libro l’idea era di mettere insieme più voci che potessero offrire dei viatici per riflettere su questo tema.\

Vorrei anche chiederti qual’è il ruolo delle collaborazioni nella tua pratica artistica.
È imprescindibile! Mi piace molto ascoltare e guardare, soprattutto se le persone sanno raccontare e sanno fare. Per me queste due azioni sono estremamente legate, almeno nel mio lavoro e per il mio modo di vedere le cose nel mondo: se osservi uno straordinario artigiano è come se stesse facendo un racconto profondissimo di mani, che sono passate prima delle sue su oggetti simili, che hanno portato a quella sapienza e a quel punto.
Fare, raccontare e camminare – che detto così ricorda un po’ una canzone di Piero Ciampi – sono cose che non riesco a distinguere: o meglio, sono ben distinte, ma hanno la stessa grammatica, che è quella del battito, del ritmo.

Un’ultima domanda: nei tuoi viaggi, quali sono i posti del cuore?
La Scozia sicuramente, lo è sempre stato. L’Appennino poi, pensando a quelli che frequento per tutta una serie di ragioni. Ma in generale il nord: mi rendo che mi piacciono i luoghi dove, almeno apparentemente, hai meno distrazioni – anche se poi in realtà ne sono ricchissimi, e la luce cambia velocissimamente. Non sono mai stata come si deve nel deserto, non so perché, ma potrebbe succedere: verso nord però – anche a livello formale – sono sempre andata più volentieri. Mi interessano anche i luoghi complessi, le metropoli come Shanghai – dove sono appena stata in occasione della mia partecipazione alla Triennale di Hangzhou – oppure New York, ma se dovessi pensare dove vorrei essere ora è al nord.

Se dovessi scegliere ora un luogo per mangiare e uno per bere?
In questo momento mangerei in un ristorante a Lione, in particolare carne, per come la cucinano. Oppure della carne di cavallo alla Catanese!
Ma come declinazione locale andrebbe benissimo chiudere con un panino con la coppa e un Ortrugo della zona: questa è casa per me.