Anche quest’anno LaRoboterie sarà presente al Pride di Roma con il suo carro pieno di musica. Un Pride desiderato come „senza decoro e pieno di furia“, un Pride che viene giudicato estremamente diverso rispetto alle sue posizioni e forme di espressioni originarie, ma un Pride in cui è ancora si senta la necessità di esserci per «Poter offrire un’alternativa critica, politica e un posto davvero inclusivo e accogliente». Concetti che rimandano immediatamente a quello che è l’habitat naturale de LaRoboterie: il dancefloor, che sia quello di un club o di uno spazio autogestito. Un dancefloor politico, dove ogni volta si portano istanze, si generano domande, si esprime dissenso: attraverso i corpi e oltre i generi. Quello tra clubbing e queerness è un legame che continua a rafforzarsi ovunque, a Roma anche grazie all’attività decennale – anzi, ormai ventennale – di Alessandro Ciferri e Gianni Chelli (aka St.Robot e Backdrifter) che nel 2007 hanno fondato LaRoboterie, raccogliendo tutta l’eredità notturna e musicale della città a cavallo tra i Novanta e i Duemila: dai free party ad appuntamenti seminali come Phag Off. Una trasversalità testimoniata anche dagli appuntamenti in programma per il Pride 2025: venerdì 13 al Forte Prenestino con il festival itinerante Nostri i Corpi Nostre le Città, sabato 14 in strada e poi al Forte Trionfale con un party notturno; infine domenica 15 allo storico Alibi con il Queer Jubilee Happy Ending. Una marea danzante, che abbiamo cercato di racchiudere e raccontare in questa intervista.
Inizierei questa chiacchierata da quello che succederà nei prossimi giorni: prima, durante e dopo il Pride. Il primo appuntamento che porta la firma de LaRoboterie è il festival queer transfemminista Nostri i Corpi Nostre le Città. Cosa rappresenta per voi il corpo, cosa la città e come dialogano tra loro?
Crediamo sia fondamentale riappropriarsi degli spazi urbani, attraversarli, viverli, renderli sicuri e più simili a noi e a come davvero li vorremmo. Sogniamo città che contengano senza fatica la moltitudine di tutte le differenze tra i nostri corpi e sogniamo corpi più coscienti della propria unicità. Siamo convintə che il dialogo tra corpi e città debba essere continuo e sia concettualmente uno dei punti fondamentali del percorso all’autodeterminazione di tuttə noi.
NCNC è un festival itinerante e questa volta sarà ospitato dal Forte Prenestino. Cosa significa per voi questo spazio, sia da un punto di vista personale che da un punto generale: di città, di comunità e di movimento?
Il Forte Prenestino è un luogo del cuore e dell’anima. È il simbolo per eccellenza delle nostre lotte, memoria storica di esistenze coscienti, di percorsi formativi profondi. È stato teatro di centinaia di migliaia di ricordi indelebili e continua ad essere oggi uno spazio politico e sociale fondamentale per l’intera città.
I corpi e la musica si incontrano sul dancefloor. Cos'è per voi il club e perché riesce a essere più di altri uno spazio dove portare istanze politiche e di genere?
Ballare è un atto politico: noi lo sosteniamo da sempre. Il ruolo del ballo come rituale necessario alle nostre esistenze per convogliare energie, pensieri, battaglie e riflessioni è decisamente primario. Noi ai club preferiamo il tentativo di rendere dancefloor qualsiasi spazio non convenzionale, sovvertire l’utilizzo abituale di un luogo e trasformare ogni garage, ogni cantina, ogni capannone industriale e ogni bosco in club. Un po’ come funzionava con le T.A.Z., le Temporary Autonomous Zone. Cerchiamo di liberare ogni posto dall’abituale controllo sociale, restituire ai corpi gli spazi cittadini, rendendoli davvero liberi.
Il concetto di club negli ultimi anni si sovrappone sempre di più a quello di spazio sicuro. Come si ottiene uno spazio di questo tipo e come si riesce a mantenerlo?
Il club inteso come locale riconosciuto e istituzionale, purtroppo molte volte è tutto tranne che un posto sicuro. Ce ne sono di totalmente distanti dal nostro concetto di „safe place“, che vengono gestiti senza la benché minima consapevolezza di cosa dovrebbero davvero rappresentare. È proprio per questo che cerchiamo ogni volta di contaminare i club con cui collaboriamo con il nostro approccio e la nostra visione. Purtroppo non sempre ci riusciamo e commettiamo degli errori, anche grossolani, portando il nostro pubblico in luoghi che non si meritano di essere attraversati da una comunità cosciente e unità come la nostra, motivo per cui ancora oggi continuiamo a prediligere luoghi alternativi, lontani dalle logiche di mercato a cui troppo spesso il clubbing si prostra. Anni fa, durante una serata a Spin Time Labs, il palazzo occupato che sta a Santa Croce in Gerusalemme, portammo il live di Mykki Blanco. Fu di una potenza e di una profondità inaudita: un pugno allo stomaco indimenticabile. Subito prima della chiusura un ragazzo venne a salutarci e ringraziarci perché quella sera, per la prima volta, era riuscito a parlare apertamente alle sue amiche e ai suoi amici della sua sieropositività. E ci era riuscito perché aveva sentito di trovarsi in un posto sicuro, dove poter affrontare liberamente anche questo tipo di argomenti. Ecco, noi crediamo fermamente che il concetto di „safe place“ sia esattamente questo.
La pratica della sicurezza a volte sconfina nell'esclusione. C'è il rischio secondo voi che un dancefloor sempre più safe non sappia più riconoscere l'altro, smarrendo anche una funzione "educativa" nei confronti di chi può essere inquadrato come una "minaccia"?
Se un dancefloor è realmente „safe“, quello che non potrà mai mancare è proprio l’inclusività. In un posto sicuro si riconosce sempre l’altro e lo si educa dal profondo, trasformando ogni possibile minaccia in una parte integrante e un elemento fondamentale del tutto. In un dancefloor „safe“ non c’è esclusione e la sicurezza non è garantita da un servizio d’ordine, che troppo spesso è esso stesso causa di conflitti, ma da una comunità di intenti, comunicazione continua e sintonia, da un servizio di riduzione del danno sempre presente sul posto e da una condivisione di valori e di esperienze che fanno sì che gli occhi di tuttə riescano a comunicare e a capirsi, e che mani, braccia, piedi, gambe siano sempre pronte a sorreggere e ad aiutare.
In questo weekend sarete anche in piazza per un Pride che vi auspicate sia, giustamente aggiungerei, "senza decoro, ma pieno di furia". Che cosa rappresenta per voi il Pride a Roma?
Rappresenta un momento collettivo imperdibile, un appuntamento che serve per celebrare le nostre lotte, le nostre fatiche quotidiane, un momento in cui stringersi con tutte le persone che amiamo e in cui festeggiare tuttə coloro che invece abbiamo perso negli anni ma continuano a essere al nostro fianco. Rappresenta soprattutto l’espressione della nostra rabbia nei confronti di discriminazioni sempre più intollerabili, di una transfobia sempre più diffusa anche tra le forze femministe e all’interno della stessa comunità LGBTQ+, di atti violenti che settimanalmente riempiono le pagine delle nostre cronache locali e anche della diffusione di concetti come decoro, degrado e sicurezza che non hanno alcuna corrispondenza con la realtà di tuttə noi. Saremo in piazza con il carro de LaRoboterue insieme a Scomodo e da piazza della Repubblica fino al Colosseo avremo ospiti musicali, dj, performer, interventi di collettivi e il live imperdibile di una delle artiste italiane che in assoluto amiamo di più: Comagatte!
Il vostro primo Pride qual è stato? Che ricordi avete?
Come Roboterie, nel 2007, sia a Roma che a Bologna, quando la parata era ancora concepita e vissuta come una vera e propria street parade.
Tra i tanti Pride che ci sono stati, ce n'è uno a cui siete più legati?
Ce ne sono molti: il Pride di Roma ogni anno ci regala dei momenti indimenticabili anche solo per la bellezza dei luoghi che la parata attraversa. L’Euro Pride del 2011 sicuramente è stata una delle edizioni più memorabili, però c’è anche quello nazionale di Napoli del 2010, quando respirammo un coinvolgimento da parte di tutta la cittadinanza che ci tolse letteralmente il fiato. Senza dimenticare Bologna, ovviamente, e in particolare un momento del Pride del 2017 che non riusciamo a toglierci dalla testa: l’alba sul Lazzaretto, storico posto occupato bolognese, durante il live set di Dep, ex Kernel Panik: uno dei dj che amiamo di più. C’erano ancora più di mille persone e Peppe con la sua techno riuscì a scavare talmente nel profondo da toccare le corde dell’anima più nascoste di tuttə noi che ballavamo, come fosse una vera e propria missione, sfogandoci di tutte le preoccupazioni, prendendo a calci i nostri problemi, le nostre paure e le nostre stesse vite. Tantə di noi piansero ballando in un rituale liberatorio che è stato pura magia: a oggi una fotografia chiara di cosa significhi vedere una comunità che si stringe, si abbraccia e si sorregge, un momento che ha definito indelebilmente le nostre vite.
Di fianco al Pride stanno nascendo anche altri momenti di piazza, a volte paralleli, a volte in opposizione. Per voi perché è importante ancora essere dentro il Pride?
Per noi è ancora importante essere dentro al percorso ufficiale, soprattutto a Roma, per la stessa ragione che ci muove da quasi vent’anni: poter offrire alla nostra comunità un’alternativa critica, politica e un posto davvero inclusivo e accogliente all’interno di una parata e di un contenitore che purtroppo non ha più niente a che fare con noi, con le nostre convinzioni e con gli stessi ideali e principi che muovevano i primissimi Pride.
Tornando alla dimensione clubbing, con LaRoboterie siete attivi tutto l'anno e da parecchi anni ormai (tra poco saranno venti!). Sarei davvero curioso di sapere come nasce LaRoboterie e, soprattutto, l'idea di unire i robot (i vecchi Transformers) al clubbing queer. I primi flyer che trovai in giro mi fecero letteralmente, tant'è che decisi di parlare di questa realtà alla prima occasione.
L’immaginario dei robot accostato alla musica elettronica (in tutti i suoi numerosissimi derivati) è dove tutto ha avuto inizio. La riflessione attorno alle emozioni di una rete neurale artificiale, che possa riuscire a sostenere conversazioni complesse e profonde con gli esseri umani, è un secondo importantissimo punto di partenza. Da lì, passando per gli androidi e i replicanti di Philip K. Dick prima e „Blade Runner“ dopo, abbiamo messo in parallelo il tema dei sentimenti legati alle macchine e al modo di produrre musica elettronica solo con i computer, senza strumenti, fino ad arrivare a immaginare dei robot autodeterminati, coscienti, liberi, insoliti, eccentrici, fuori dagli schemi, con un’anima estremamente punk e anarchica. Robot queer insomma: una terza sessualità, antecedente per certi versi al concetto di not-binary. Da lì il nome con l’articolo femminile, a sottolineare un’unica certezza: LaRoboterie è donna!
Come taglio musicale voi vi siete posizionati in ambito techno, a volte con qualche synth più urlante, altre con qualche bpm in più. Vi faccio quindi la stessa domanda di prima, ma relativa agli ascolti e influenze musicali che vi hanno portato al vostro sound.
Anagraficamente siamo nati a metà degli anni Settanta. Siamo cresciuti quindi gli Smiths, i Joy Division, con i Cure e i Depeche Mode. L’anima è sempre stata profondamente rock, ma ci siamo innamorati inevitabilmente del pop di Madonna e Michael Jackson, di Whitney e Prince, di Alanis Morrissette e Sinead O’Connor. Siamo del tutto impazziti con i suoni di Bristol degli anni Novanta – Massive Attack e Portishead – e poi con l’elettronica dei Kraftwerk, di Björk, Prodigy, Chemical Brothers, Aphex Twin, Goldie, Moby, del french touch di Daft Punk, Air e Justice, dell’electroclash di Miss Kittin, Peaches, Tiga, Vitalic fino ad arrivare a Ellen Allien e Apparat, ai Modeselektor, Plastikman/Hawtin, Laurent Garnier, Timo Maas, quindi alla techno e ai suoi infiniti derivati: dalla tribe all’hardcore. L’esperienza dei free party negli anni Novanta, dei teknival e dei rave, ci ha poi influenzato estremamente, anche solo come idea di festa. Prendere un luogo abbandonato e dimenticato, decidere di farlo rivivere per tre giorni riempiendolo di musica, di idee, di arte e di una collettività mai schiava del profitto, che si unisce solo per il fine comune di un rito collettivo, con un preciso senso sociale e politico, ha segnato indelebilmente il nostro approccio. Anche il modo in cui viene vissuto e percepito il dj all’interno del rave è qualcosa che ci ha da sempre segnato: il dj non si vedeva, era completamente coperto dal muro di casse. Questo ci può dare la cifra di quanto diametralmente opposti siano i mondi in questione: da un lato il movimento politico dei rave e delle crew storiche della tekno; dall’altro la spettacolarizzazione della clubbing culture con i dj e le dj indiscussə protagonistə, nuove, vere e proprie star. Noi da sempre sosteniamo che la festa è qualcosa che facciamo insieme, chi suona e chi balla, chi monta l’impianto e chi segue la tecnica, chi si occupa delle proiezioni e chi si prende cura del fatto che tutto funzioni nel modo giusto. Tutti valori che provengono dalle storiche crew di raver, a cominciare da Spiral Tribe e, in Italia, Kernel Panik: artistə e musicistə con cui abbiamo avuto il privilegio di condividere questi nostri venti anni di attività e con cui continuiamo a collaborare ancora adesso. Insomma, lo spettro dei nostri suoni contiene un po’ di tutto questo e credo lo si possa percepire chiaramente durante ogni nostro set.
Negli anni qui a Roma avete attraversato tantissimi club - io mi ricordo di essere stato a una delle prime feste addirittura a Monti, alla Galleria dei Serpenti - e altri spazi ancora. Quali sono le realtà per voi più importanti e che hanno segnato in qualche modo il vostro percorso?
Ce ne sono tantissime, a cominciare proprio dalla Galleria dei Serpenti, che è di fatto il luogo dove LaRoboterie è nata. Poi ti potremmo citare Spin Time Labs, che è stato teatro di alcune tra le stagioni più belle e ricche: siamo riuscitə a portare in quel meraviglioso palazzo occupato artistə che sono tra lə nostrə preferitə in assoluto. Anche adesso abbiamo il privilegio di continuare a viverlo collaborando con Scomodo, che ha la propria base nel basement di Spin Time, La Redazione. Proseguendo tra gli spazi occupati romani, c’è sicuramente il Forte Prenestino, ma anche La Torre e l’Angelo Mai, altro luogo in cui ci sentiamo estremamente sicurə di poter costruire percorsi artistici in totale sintonia con le persone che lo abitano e che lo attraversano. Oltre a questi, ci sono anche luoghi che purtroppo non esistono più o che hanno cambiato soltanto aspetto, come l’Init, club al quale saremo sempre legati e che ci ha regalato anni di gioie, non solo musicali. Più recentemente invece, l’esperienza con Fluida e Cieloterra ci ha permesso di allargare tantissimo la nostra comunità anche tra le nuove generazioni e creare appuntamenti fissi mensili con ospiti incredibili, tra cui Boy Harsher, M¥SS KETA, Miss Kittin ed Ellen Allien.
In questi (quasi) vent'anni com'è cambiata Roma? Sia dal punto di vista del clubbing che dal punto di vista della comunità queer?
In questi ultimi venti anni c’è stato un crollo e un peggioramento a tratti imbarazzante sia del clubbing che della comunità queer, non solo a Roma ma in tutto il mondo. Prima della nostra nascita c’era Phag Off, che per noi è stato un appuntamento formativo al pari di decenni di studio accademico: avanguardia pura! Abbiamo visto e ascoltato artistə che hanno definito i nostri gusti attuali e non potremo mai essere riconoscenti abbastanza per il bagaglio di cultura, di arte e di vita che serate come quelle ci hanno regalato. Tenere il livello così alto sarebbe stata un’impresa da titani, ma nel nostro piccolo abbiamo sempre cercato di prendere come riferimento proprio quel modo di fare ricerca, cultura, politica e arte.
Come vi immaginate cambierà, se mai cambierà, questa città nei prossimi anni?
Purtroppo al momento la situazione generale ci lascia estremamente sgomenti: sembra che ci sia una totale mancanza di empatia e solidarietà e che anche all’interno delle minoranze ci sia volontà di divisione piuttosto che di unione e aggregamento. Noi cerchiamo semplicemente di mantenere viva e aperta una comunità continuamente ferita nel profondo, spesso disgregata e messa alla prova incessantemente dalle istituzioni, dallo Stato, dalla politica, dall’ignoranza e dalla violenza di questi anni particolarmente bui. Quello che ci auguriamo è che l’empatia torni contagiosa e che, dopo il baratro oltre il quale ci siamo spinti in questi ultimi anni, si possa tornare a una rinascita totale che potrà avvenire solo grazie alla musica, all’arte, alla letteratura, al cinema. Siamo molto cinici, ma in fondo anche inguaribili romantici e ottimisti.
Oltre che a Roma, siete legati anche ad altre realtà territoriali in Italia: le prime che mi vengono in mente sono Bologna e Livorno.
Ogni città che abbiamo attraversato in questi venti anni ci ha lasciato tantissimo e ci ha resə quellə che siamo. Bologna e Livorno sono due dei nostri amori più longevi. Quindici stagioni al Cassero e in tutti gli altri spazi che abbiamo avuto l’onore di vivere, tra cui il Crash, con il nostro primissimo Pride, XM24, Lazzaretto, Elastico e attualmente altre realtà che amiamo molto e a cui ci sentiamo estremamente legatə, come il Tank. Livorno e la sua attitudine anarchica e punk ci ha fatto vivere dieci anni di feste in spiaggia, numerosissimi illegali ed è entrata da subito completamente in sintonia con il nostro modo di immaginare la festa. Poi c’è stata Milano, con le stagioni che abbiamo fatto a Macao: esperienze memorabili ed estremamente formative. Torino, Firenze, ma anche Lecce, Bari, la Puglia, Sicilia, Calabria e lo storico Pride del 2010 a Napoli che abbiamo citato prima, quando suonammo nel cortile della facoltà di architettura. Il nostro essere itineranti ci ha letteralmente salvatə ed è il motivo per cui ancora oggi continuiamo a fare quello che facciamo con lo stesso entusiasmo.
È difficile fare rete su territorio che non sia quello della città, che, se pur grande, ha confini ben definiti e raggiungibili?
Per noi è paradossalmente più facile e sicuramente più soddisfacente fare rete con orizzonti ampi, piuttosto che farlo entro i confini stabiliti e raggiungibili delle città, sia concettualmente che a livello di espressione quotidiana. Non dimentichiamoci che LaRoboterie è nata prima su MySpace, creando una fittissima rete virtuale fatta però di persone vere che sono poi diventate parte integrante dell’intero progetto. Il fatto di non fermarci e di entrare in contatto sempre con realtà differenti, su latitudini e longitudini anche inedite, è il modo migliore per fare davvero rete e continuare a stupirsi e a innamorarsi giornalmente di persone, luoghi, parole e concetti.
Quali sono le battaglie che il movimento queer non dovrà perdere?
Non dovrà perdersi in imbarazzanti divisioni e dovrà sempre avere ben chiaro il fatto che la lotta deve per forza di cose essere intersezionale. Non ci può essere Pride senza coscienza civile profonda e abbiamo il dovere di rifiutare e combattere acremente il pinkwashing usato, ad esempio, per tentare di nascondere e legittimare il genocidio in atto in Palestina. Dovremo essere coscienti dei nostri privilegi e lottare contro transfobia, misoginia, razzismo, abilismo, omo e lesbofobia. Dovremo reagire alla violenza con la nostra furia, riprenderci le strade delle nostre città e renderle davvero sicure per tuttə.
Quali invece quelle che il clubbing non dovrà perdere?
Noi sogniamo un clubbing consapevole dove la musica sia veicolo di concetti e lotte. Dove la libertà sia davvero di tuttə, dove ognuno si possa esprimere nel modo che ritiene migliore, senza barriere né confini. Dove gli orientamenti sessuali e l’utilizzo di sostanze non siano tabù e dove la qualità, la ricerca e la varietà musicale non siano soltanto parole.