A che ora è la rivoluzione?
Diletta Bellotti, 25 anni laureata in Diritti umani e Migrazione internazionale a Bruxelles. Ma il curriculum si estende al di là di questo, Diletta Bellotti è un’attivista e fa parte di quella generazione di ragazze e ragazzi che sa sfruttare ogni media e ogni piattaforma dalle strade a Instagram per trasmettere un messaggio.
Comincia qualche anno fa dopo l’esperienza a Borgo Mezzanone raccontando le persone che ha conosciuto e le loro storie nel blog Pomodori Rosso Sangue. Non solo sostenibilità, agromafie, caporalato, comunità, questo è il mondo di Diletta e la sua battaglia che racconta con parole dirette e senza mezzi termini.
Partiamo da vicino, ti lascio carta bianca: parlami un po’ di te.
Sono Romana-Barese, molto italiana, queer e ossessionata dalla giustizia sociale.
La tua azione politica parte dal blog Pomodori Rosso Sangue e arriva nelle piazze con delle azioni performative per sensibilizzare sullo sfruttamento dei braccianti. Come è nata l’idea? Ma soprattutto, come reagiva la gente per strada?
La campagna di sensibilizzazione e informazione Pomodori Rosso Sangue nasce due anni fa con la necessità di rendere più comprensibili e accessibili le lotte dei braccianti contro le agromafie. Dopo un’analisi teorica e una residenza nell’insediamento informale (o baraccopoli) di Borgo Mezzanone in Puglia ho iniziato una serie di proteste in giro per l’Italia. Queste proteste univano tre simboli: la bandiera italiana, il cibo e il sangue. Rispetto alla collocazione geografica, le persone reagivano molto diversamente: questo ci dice tantissimo su come la percezione delle agromafie non sia ancora considerata dall’opinione pubblica una questione nazionale. Alcune persone mi ignoravano, pochissime capivano cosa stessi facendo immediatamente, la maggior parte erano affascinate e forse proprio da quell’aspetto più „performativo“ della protesta che citavi.
Si parla di rinascita dell’attivismo (Fridays For Future, Black Lives Matter, Extinction Rebellion), ma invece di legarti ai grandi sistemi ti sei scelta la tua battaglia in maniera decisamente specifica. Come mai?
Intanto non credo ci sia una rinascita dell’attivismo: la gente non ha mai smesso di lottare. Semplicemente molti movimenti sono riusciti ad utilizzare i mass media come mezzi di emancipazione invece che di repressione, questo ha portato per ora molta visibilità, vediamo quante vittorie effettive porterà. In realtà io stessa ho iniziato con XR in Belgio qualche anno fa, quando XR era appena nato. Credo e sostengo con tutta me stessa i movimenti che hai citato, semplicemente ho creduto che dovessi sfruttarmi per una lotta che doveva ancora iniziare ovvero quella contro le agromafie. Questa lotta è però intersezionale e ha radici profondissime con le istanze che portano avanti i movimenti citati. Credo sia importante però fare un lavoro sul territorio, capire chi si è e che lotta si può portare avanti.
Ti rigiro la domanda della tua bio su Instagram: cosa succede se non agiamo? Cosa succede se agiamo?
Queste sono due domande a cui dobbiamo rispondere per capire perché agire e come. Cosa succede se non agiamo? Il futuro sfugge dalle nostre mani. Cosa succede se agiamo? Tutto è possibile. Queste due domande aiutano le persone oppresse a capire perché vale la pena unirsi a chi vive l’oppressione similmente a noi. Ci dice anche quali saranno le conseguenze e ci fa capire se il nostro non-agire vale le conseguenze potenzialmente terribili che vivremo.
Pensi che ci sia bisogno di nuove forme politiche di protesta? Che ruolo hanno i social in questo?
Neanche due anni fa usavo ancora i social con lo scopo di dare un’immagine di me stessa, promuoverla e ostentarla. Ai tempi avevo tipo 3k su Instagram, che comunque non sono pochi. A un certo punto mi sono resa conto che era ridicolo che usassi la mia voce per dire solo ed esclusivamente puttanate, semplicemente per ostentare il mio status. Mi sono resa conto che se la gente mi ascoltava valeva la pena dire qualcosa di importante, di mostrare quello che per me valeva davvero la pena: cioè la lotta. Fino a quel momento avevo vissuto una profonda scissione tra il mondo social che mi ero creata e quello che vivevo internamente. Ora arriva la parte cattiva: adesso certe volte quando scrollo e vedo che gente che seguo ancora da quel periodo della mia vita che citavo sopra mi viene un po‘ di disgusto grottesco perché penso: „okay abbiamo capito che sei magr* e ricc*, ora magari vuoi dirci qualcos’altro“. Tutto questo excursus per dire che i social hanno un potere gigantesco, ma ce l’hanno perché siamo noi a darglielo ma a scegliere anche quanto ciò che è detto conta. I movimenti di protesta devono usufruire dei social media non necessariamente, ma perché ciò che loro combattano (qualsiasi forma di potere) utilizzerà i social media per farsi più forte.
Che capitalismo sia brutto e cattivo ce lo insegna paradossalmente la stessa Hollywood, ma come si affronta Qualcosa così strettamente connessa al nostro tessuto sociale. Le nostre scelte sono tutte bianche e nere o ci sono delle zone grigie? Se sì, quali?
Le uniche scelte giuste prese dentro una società capitalistica sono quelle anti-capitalistiche. Qualsiasi fosse la formulazione originaria del pensiero che ora distrugge il mondo, sicuramente non ne è uscito molto di buono. Le scelte di consumo che facciamo possono solo arginare o arretrare il collasso della nostra società. Dobbiamo comunque farle? Certo, ma principalmente per coerenza con quello che siamo.
Ne "Il dilemma dell'onnivoro" Michel Pollanz osserva che essere in cima alla catena alimentare rende l'uomo vittima delle scelte e del marketing legato all'industria alimentare. Sei d’accordo? Possiamo imparare a scegliere?
Da grande animalista, quando mi si pone come argomento anti-specista la catena alimentare dico sempre che se gli animali l’avessero ideata loro sicuramente non ci avrebbero messo in cima. Non ho letto Pollanz, ma forse sarà d’accordo con me nel dire che avere potere non significa necessariamente dover esercitare potere. Nessuna delle nostre scelte di consumo (e in primis quella del consumo di carne) è più nella sfera della possibilità, ma una necessità. In altre parole, se vogliamo che la nostra razza sopravviva e con lei l’ecosistema che ci tiene in vita dobbiamo necessariamente cambiare e dobbiamo farlo subito. Non c’è tempo per riduzionismi e speculazioni. Smettere di mangiare carne è in effetti una delle più forti e immediate scelte che possiamo fare per avere un impatto. Per altro esiste Vegetarian Calculator, un sito meraviglioso dove si possono calcolare in media quanti animali si sono salvati da quando si è smesso di consumarli e la riduzione di emissioni di CO2.
Spesso a delle scelte bio corrisponde un ingente investimento di denaro. Qualche esempio concreto qui a Roma per una spesa eticamente e finanziariamente sostenibile?
A Roma, come in altre parti di Italia, le migliori scelte, in questo senso, sono sempre le cooperative agricole sociali. Infatti, oltre a non sfruttare la terra e chi la lavora, hanno un fortissimo impatto sociale: creano realtà sostenibili all’interno di una metropoli ma fanno anche un fortissimo lavoro di integrazione. Alcuni esempi sono la Cobragor, Coraggio, Il Trattore e Agricoltura Nuova. La Cobragor per esempio ha collaborato con un’associazione di rifugiati per integrarli nel lavoro agricolo e quindi poi nella società. Porta avanti questo lavoro dagli anni 70 dopo aver occupato e rivalutato ettari ed ettari pubblici lasciati completamente abbandonati – ripeto, dentro Roma. La cooperativa agricola sociale il Trattore invece, oltre a tutto il fantastico lavoro agricolo che fa, collabora con il Centro Igiene Mentale di Roma per supportare i pazienti nella loro ripresa psico-fisica, tramite la cura della terra. Questi esempi sono spesso più accessibili delle marche bio super di moda, poi chi può permettersi quest’ultime ben venga e buon per loro.
Il quartiere nella sua funzione di particella locale può, secondo te, avere un ruolo nel costituire una comunità più consapevole? Come?
Le città, soprattutto se metropolitane, hanno la forza di aggregare e disgregare come niente, spesso i quartieri decidono chi siamo e in cosa crediamo.
I quartieri possono essere vittime di una speculazione edilizia molto distratta. Ai margini di tutto e al centro di niente. Non così ai margini, non così al centro. Di passaggio per ognuno, almeno così sperano. C’è chi ci è nato e chi ci è morto anche, ma davvero molto distrattamente. Giardini segreti e montagne incantate. Solo che nessuno ha scritto di loro. Ai posteri, nulla di nulla. Una speculazione edilizia molto distratta, non ho davvero altro da dire. Dio li fa e poi li ignora. È questo che penso, e mi dispiace pure un po’. Per quelle zona residenziali così ignorate, così malfatte, eppur benfatte, ma ignorate. Mi spiace anche per i sobborghi, quelli né di nicchia, né di moda. Per quelli non abbastanza underground non abbastanza rivalutati. Mi dispiace che nessuno pensi a loro. Mi dispiace che nessuno li abbia rivalutati. Che nessuno pensi abbiano qualcosa da dire. Sono quelli nel mezzo per cui mi dispiace. Quelli non abbastanza forti da prevalere e non abbastanza deboli da soccombere. Loro anche, sicuramente, avevano qualcosa da dire, solo che valeva un po’ di meno. Davvero poco, ma di meno, sì, e quindi non li abbiamo ascoltati. Davvero per distrazione. Davvero un piccolo dramma piccolo borghese, questa speculazione.
È vitale dunque che la progettazione urbanistica delle città guardi a questa forza e a questa possibilità con ossequioso riguardo. L’ultimo piano urbanistico di Roma risale agli anni sessanta e questo ci dice molto. Consiglio la lettura di Città Fallite e Roma Moderna, soprattutto in vista delle elezioni per la posizione di sindac* questa primavera.
Speculiamo sul finale, cos'è/com'è il FUTURO?
„Un figlio che mangia il padre“ diceva Nietzsche, anche se in realtà parlava dell’attimo non del futuro. Quando penso al futuro ho comunque sempre quest’immagine in testa. Non credo che nessuno abbia davvero tempo e voglia di pensare al futuro, se non con ansia annichilente. Però se qualcuno ne avesse voglia sarebbe sicuramente il caso di essere ambiziosi e di pensare a garantire qualcosa di decente per le generazioni a venire, come per esempio aria pulita e salari dignitosi.