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Emilia Verginelli

Il racconto del nuovo spettacolo 'Io non sono nessuno', in un piccolo viaggio dalle case-famiglia a Short Theatre, passando per Fivizzano27 e il Pigneto

quartiere Pigneto

Geschrieben von Nicola Gerundino il 4 September 2020
Aggiornato il 19 Juni 2024

Foto di Michael Schermi

Wohnort

Roma

Attività

Attrice, Regista

Short Theatre ogni anno non si rivela solo un momento comunitario di estremo arricchimento culturale e divertimento, ma è anche una cartina geografica che permette di scoprire di volta in volta le tante realtà di cui il tessuto teatrale romano è composto, nonché i territori a esse legati. Quest’anno il nostro focus è andato sul Pigneto, lì dove si trova Fivizzano27, spazio autonomo e indipendente gestito da Emilia Verginali dove ha preso vita „Io non sono nessuno“, uno degli spettacoli che saranno presentati in anteprima all’edizione 2020 di Short Theatre (in programma alla Pelanda mercoledì 9 alle 19:30 e giovedì 10 alle 20:30). Protagonista il mondo, sconosciuto ai più, delle case-famiglia, da cui è scaturita una riflessione sui ruoli sociali che ricopriamo ogni giorno tutti noi. A passo di danza.

Il cast di „Io non sono nessuno“, foto di Claudia Pajewski

 

“Io non sono nessuno” nasce da un'esperienza molto particolare, quella della casa-famiglia, ce la puoi raccontare?

Non so se tutti sanno cosa siano le case-famiglia: sono dei luoghi che ospitano bambini in situazioni di difficoltà familiare mandati dal tribunale dei minori. Sono tante e tutte diverse, e al loro interno ognuno ha la propria storia. Ad esempio, non tutti da lì vanno in adozione o in affido, c’è chi ci resta o chi torna alla propria famiglia di origine. Io ho iniziato a fare volontariato a 18 anni in una casa-famiglia, ero molto piccola. Ora di anni ne ho 36 e in questi diciotto anni ho portato avanti diversi progetti: laboratori di teatro e attività artistiche, uscite, progetti di sostegno e formazione, anche l’organizzazione delle feste, per esempio il Natale. Con il tempo una serie di relazioni con bambini, bambine e adolescenti di questo luogo sono diventate parte della mia vita, con tutto quello che una relazione comporta nel quotidiano. Prendono il tempo che prenderebbe una famiglia.

Presentando questo spettacolo hai spesso parlato di come ti abbia colpito il modo in cui all'interno di una casa-famiglia i ruoli sociali si trasfigurino. C'è qualcosa che ti ha colpito invece rispetto agli spazi? Come cambia il rapporto con lo spazio, con il quartiere o con la città, all'interno di una casa-famiglia?

Se per spazio si intende un luogo delimitato da un cancello, che crea un fuori e un dentro, all’interno della casa-famiglia si ricrea un piccolo modello societario che è simile, ma non del tutto uguale, a quello del „mondo di fuori“. Questa separazione spesso crea un’idealizzazione del fuori e il fuori coincide con la parola „famiglia“. L’idea della famiglia è una narrazione culturale, giuridica e sociale che non coincide con la realtà, ma se non ne fai esperienza diretta è più facile cadere nell’idealizzazione. In questo caso specifico le figure genitoriali vengono sostituite da numerose altre che sono invece istituzionali, con compiti ben precisi e delineati. Oltre al mondo dentro e a quello fuori c’è anche un mondo prima: un luogo di ricordi e tradizioni che ognuno si porta dentro. È difficile prescindere dai legami con la famiglia di origine: si tratta di un passaggio da una situazione sociale a un’altra e quindi anche a un modo molto diverso di vivere il quartiere e la città. La mia riflessione prende spunto dai ruoli che ci sono all’interno della casa-famiglia. Sono partita da lì e da lì mi sono interrogata su cosa siano le mie relazioni al di là del mio ruolo. Anche perché una volontaria, al livello burocratico, non esiste.

Come hai tradotto questa esperienza in uno spettacolo? Cosa hai cercato maggiormente di riportare: gesti, parole, sensazioni?

Io e Muradif, un ragazzo che ho conosciuto in casa-famiglia quando aveva 8 anni, siamo in scena insieme e questo per me già riporta sul palco quell’esperienza. Con noi ci sono registrazioni d’archivio, merendine, scatoline di fiammiferi: tutti oggetti che fanno parte della nostra memoria condivisa. Inoltre, visto che Muradif non è un attore, ho pensato di fargli delle domande attraverso un’intervista video e sono rimasta molto colpita dall’intimità che la videocamera riusciva a creare. Così l’intervista è diventata il linguaggio scenico che mi ha permesso di dialogare con una serie di persone, tutte molto legate a me o alla casa-famiglia, quindi in un certo senso intime. Il lavoro sulla scena è più legato a uno stare insieme, e quindi a delle sensazioni.

“Io non sono nessuno” è legato anche a un'altra casa, quella degli spazi di Fivizzano 27. Ci puoi raccontare brevemente la storia di questa realtà?

Quando ci sono entrata per la prima volta ormai dieci anni fa, Fivizzano27 era uno scantinato in disuso: non pensavo ne sarebbe nato uno spazio culturale. Avevo voglia di studiare e di portare un mio percorso di studi in un luogo „safe“, accessibile a tutti e tutte. Fivizzano27 è uno spazio di accoglienza, di incontri, di approfondimento, dove ci si confronta e si crea, dove può nascere un pensiero prima ancora di un processo produttivo e un’idea di business. Fino a oggi abbiamo gestito lo spazio con un’idea di coabitazione: ognuno propone stage o attività e lo utilizza per ricerche personali. Mi piace dire che non c’è una direzione artistica, un po’ perché non facciamo una vera e propria programmazione, un po’ perché ognuno è libero di proporre. Ogni anno Fivizzano27 è abitato da persone differenti che ne determinano la sua evoluzione. Oggi sto cercando di coinvolgere persone più giovani che spero possano portare avanti questo processo già iniziato. È importante che in una città ci siano spazi d’incontro autorganizzati e slegati da una logica di produzione: quello che facciamo è cercare di rendere possibile quest’idea.

Qual è il tuo rapporto personale con Fivizzano27?

Per me è una casa, un luogo di relazioni e una responsabilità.

Fivizzano 27 è in una traversa dell'Isola Pedonale del Pigneto, qual è il tuo rapporto con questo quartiere?

Lo abito, ci abito.

Ci sono delle realtà del Pigneto, teatrali e non, che hanno influenzato il tuo lavoro? Se sì, quali e in che modo?

Abitando al Pigneto, un quartiere che ora sta sempre di più subendo un processo di gentrificazione, posso dire di conoscerlo abbastanza bene. Negli anni qui si è creata una comunità artistica e queer che spesso vive al di fuori delle convenzioni sociali. La riflessione sui ruoli che è presente nello spettacolo e che nasce in un contesto istituzionale come la casa-famiglia, sicuramente è influenzata dallo stile di vita „scollegato“ che vivo e spesso ritrovo in alcune realtà di Roma Est. Con le contraddizioni che ne conseguono.

C'è qualcosa del Pigneto che hai portato dentro “Io non sono nessuno”?

Semmai il contrario: ho portato la casa-famiglia al Pigneto.

“Io non sono nessuno” non si appoggia solo agli spazi di Fivizzano 27, ma a un vero e proprio network teatrale cittadino, a partire da Bluemotion e dall'Angelo Mai dove è andato in scena un primo studio. Come sono nate queste collaborazioni?

Frequento l’Angelo Mai da sempre, così come il Rialto e altri spazi che purtroppo hanno chiuso. Questo tipo di realtà sono luoghi in cui ci si scambiano idee, ci si confronta e si ha un sostegno produttivo che altrove è molto difficile da trovare. Si condivide il tempo, la passione, gli ideali, le manifestazioni. Così si consolidano amicizie e si cerca di sostenersi a vicenda. L’Angelo Mai è uno di questi luoghi ed è anche stato la casa di „Io non sono nessuno“. Fondamentale è stato anche il sostegno di Carrozzerie n.o.t., Santarcangelo Festival, del Teatro India con la sua nuova gestione, di 369gradi e di tutte le persone che fanno vivere questi spazi.

Quanto conta per una realtà teatrale indipendente essere all'interno di una rete che le dà sostegno? A Roma quanto è diffusa e forte questa rete?

A Roma esiste una rete ed è fondamentale, perché altrimenti non ce la si fa. E non credo sia un caso che le persone coinvolte in questo mio progetto vengano tutte da Fivizzano27 e che il progetto sia sostenuto da tutti gli spazi che ho elencato prima. Bisogna però stare attenti a questo discorso sul sostegno della rete, perché si rischia di nascondere il problema del tanto lavoro non retribuito che fa parte di un progetto indipendente e che non tutt* si possono permettere. Si può creare un pericoloso principio di esclusione o inclusione sulla base di possibilità economiche preesistenti o di sacrifici eccessivi e di condizioni che rendono la vita di un progetto molto accidentate. Se c’è un talento che non è bravo a tessere relazioni, che fa? Si spara?

Short Theatre può considerarsi come una delle manifestazioni più forti di questa rete cittadina, che riesce a “catturare” e portare in scena anche performance dal resto d'italia e dall'estero. Qual è il tuo rapporto con questo festival?

Aspetto i festival sempre con ansia: sono momenti in cui finalmente riesco a vedere performance di teatro e danza che non trovo in altri cartelloni. Nel frequentare i festival si crea una dimensione di incontro, il pubblico diventa familiare, si intreccia e si riconosce. Una volta usciti dalla sala ci sono concerti, incontri, luoghi deputati alla socialità. Durante Short Theatre le comunità artistiche e il pubblico si ritrovano insieme a chiacchierare e il confronto diventa diretto. Credo sia importante creare questo tipo di accoglienza: soprattutto ora che le comunità sono spesso virtuali, l’importanza dell’incontro dal vivo prende ancora più valenza. Associare il teatro, la cultura e l’approfondimento al divertimento è fondamentale.