Intervistare Enrico Gabrielli è un viaggio eclettico nel tempo: si è portati a seguire percorsi inconsueti e complessi, alla ricerca di storie e pezzi apparentemente disparati che, grazie all’esperienza ampia e sfaccettata di Enrico, finiscono col concordare senza alcuna frizione e montarsi in un mosaico coerente e stratificatissimo. A otto anni dalla nascita di Esecutori di Metallo su Carta, un ensemble con cui insieme a Sebastiano de Gennaro e Francesco Fusaro porta in vari spazi un approccio alla musica neoclassica interattivo, personale e divulgativo, il cantautore e compositore racconta del percorso dentro e fuori dall’accademia che ha ispirato questo universo. Tra l’interazione con il cinema, la ricerca del coinvolgimento del pubblico e la reinterpretazione di partiture in chiavi personali, quella di 19’40” – la collana discografica – è una dimensione che mira a riscrivere il concetto di musica classica per consegnarne una visione accessibile a chi non ha avuto una formazione nel campo, per creare una sorta di contaminazione reciproca fra chi ascolta la musica e chi la fa.
«Il pubblico è uno spettacolo a sé stante… un grande esperimento sociale che può diventare musica.»
Carlotta Magistris: Esecutori di Metallo su Carta viene definito come “ensemble di musica anticlassica”. Mi spieghi meglio cosa significa questa definizione? Come mai anticlassica?, e quindi: qual è il tuo rapporto con l’accademia?
Enrico Gabrielli: Diciamo che per essere antiaccademici bisogna prima avere a che fare con l’accademia. Io personalmente non ce l’ho mai avuta con la disciplina che ti concede la formazione accademica, anzi: gli anni di formazione al conservatorio mi hanno dato molto. Ho fatto tantissima musica contemporanea come clarinettista durante i miei vent’anni, ed ero molto proiettato verso quella scelta lavorativa. Quasi nessuno allora intraprendeva quella scelta, cosa che rendeva quel settore particolarmente interessante, dato che c’era molta polemica e i compositori si arrabbiavano l’uno con l’altro… un periodo molto diverso da oggi. Accade poi che, per una mia vicenda personale, vengo buttato fuori dall’ensemble in cui suonavo e da lì dichiarai a me stesso che non avrei mai più avuto a che fare con quelle realtà. Le più grosse nevrosi e le persone più complicate non le ho viste nella musica pop o nel mondo sperimentale, ma nella musica classica – per altro senza neanche la scusa dell’alcol o delle sostanze. Negli anni a seguire abnegai totalmente questo tipo di approccio alla musica e gli studi finché nel 2016 conobbi Sebastiano de Gennaro. Con lui iniziai a fare dei lavori di composizione che, seppur avessero a che fare con quegli studi, erano pensati per essere eseguiti negli spazi che frequentavo: club, centri sociali e spazi giovanili, posti in cui quel tipo di musica non andava. Parallelamente al progetto è nato 19’40”. Ufficialmente avvenne all’Angelo Mai di Roma, dove trascrissi dieci pezzi della scena noise italiana per ensemble acustico, cose come Aucan, Bologna Violenta, Julie’s Haircut… Lo chiamai “Esecutori di metallo su carta” proprio perché era musica metal trascritta su partitura, nome che poi si è portato dietro altri tipi di esperienze.
CM: Parliamo di 19’40”, definita sul sito collana discografica e non label. Su Bandcamp ho visto che è localizzata a Londra. In che periodo è nata? C’erano delle reference?
EG: La label ha avuto come sede legale Londra per molto tempo per scelta di Francesco Fusaro che, insieme a me e Sebastiano, formava il collettivo (inizialmente c’era anche Tina Lamorgese). Lui al tempo viveva a Londra ed era quello tra noi che aveva più contatti con le scene di questa nuova classica. Sicuramente siamo stati influenzati dal nonclassico di Prokofiev: una realtà interessante al punto che allo Sziget Festival (mi pare nel 2016) c’era un palco interamente dedicato alla nonclassica. La nostra scelta di intraprendere questa direzione, con un approccio che è prettamente divulgativo, si muove su tre tecniche: la restituzione su partitura, la trascrizione (come il concerto all’Angelo Mai che citavo prima) o il sabotaggio, che è la nostra preferita; consiste nel prendere del materiale e fare qualcos’altro, giocandoci e creando anche dei falsi storici. È tutta sperimentazione, ma la finalità è sempre quella di divulgare questi suoni a persone che non ascoltano né classica né contemporanea. Ed è una collana e non una label perché pubblichiamo solamente noi stessi, mai cose d’altri, sollecitando per certi aspetti il collezionismo: d’altronde le collane sono concepite per averle tutte le uscite, dalla prima all’ultima.
CM: Mi sembra poi di capire che durante le vostre esibizioni il rapporto con il pubblico prende una dimensione più interattiva e meno frontale, con un coinvolgimento diretto.
EG: Dipende dalla tipologia di programma che stiamo proponendo. Per esempio, ultimamente al Biko di Milano abbiamo fatto una serata Arcade Games, risuonando la musica di alcuni videogames assieme a dei compositori di musica per videogiochi, o un’altra in cui abbiamo eseguito una performance sullo stile di Zappa mettendo sul palco soltanto delle biciclette. Quel che faremo in Triennale il 2 luglio per l’Hyperlocal Club si intitola proprio Musica Partecipativa, in cui eseguiamo brani specificatamente concepiti per un rapporto interattivo col pubblico. Trovi in questo la nostra visione politica della musica, di un lavorare con il pubblico e in tempo reale, anche in una modalità leggera e ironica ma stimolante da entrambe le parti. Escono fuori sempre cose molto interessanti.
CM: C’è una tipologia specifica di stimolo che volete portare o è più un abbattere la frontalità della performance?
EG: Facciamo brani diversi, per cui ognuno mette in atto meccanismi di relazioni diverse. Ti faccio un esempio: quando eseguiamo Machine 41 (brano diviso in 4 parti e che dura 3 minuti e mezzo) dividiamo il pubblico e lo schermo in quattro, e ogni quarto di schermo funziona come un semaforo con un counting all’interno. Conoscendo tutti il funzionamento di un semaforo, le persone vengono chiamate ad agire sulla base dei colori per creare una partitura in cui magari una parte fa soltanto rumori, una fa lettura, l’altra voci e così via. Al di là dell’esito musicale in sé, è interessante e divertente come l’happening collettivo riesca quasi a invertire i ruoli. Poiché oltre alla frontalità di cui parlavi c’è anche una verticalità che si attenua, e questo a noi interessa molto perché il pubblico è uno spettacolo a sé stante… un grande esperimento sociale che può diventare musica. Di base usiamo brani pensati apposta per avere una formalità tale per cui anche chi non si è mai approcciato alla musica può mantenere una certa coerenza esecutiva. Ci interessa la gente, senza qualità e senza specificità.
CM: Qual è allora la tipologia di pubblico che si approccia a una dimensione musicale così peculiare?
EG: Tanto pubblico che arriva dalle esperienze collaterali che facciamo: Sebastiano ora suona con Einaudi, ha suonato una vita con i Baustelle; quindi, la scena pop cantautorale degli ultimi 20 anni. Io con l’esperienza nel cinema e nei Calibro 35 mi porto dietro un altro pubblico, abbastanza affine. Dal mondo della sperimentazione invece il pubblico è meno folto, probabilmente perché dal loro punto di vista siamo un po’ dei disturbatori – ci sono sempre dei “puristi”, ma poi si divertono anche loro. In ogni caso, la nostra idea è fare qualcosa per chi non ha una formazione radicale.
CM: Pensando alla vostra release “Leò Ferrè sans mots” mi viene da chiederti qual è il tuo rapporto con l’autorialità, specialmente rispetto al riproporre determinati lavori in una chiave diversa. Si tratta di tributi o di riproposizioni sonore? Entrambe le cose assieme? Dov’è il confine (se c’è)?
EG: Con un po’ di presunzione mi viene da dire che quello che stiamo cercando di fare è consegnare ai posteri una modalità di musica classica diversa – laddove poi, la definizione di “classica”, è arbitraria: a un certo punto il mondo ha deciso che sarebbe stato così. Nel caso di Ferrè abbiamo preso le partiture da suo figlio Mathieu e su quelle, con l’ensemble che avevamo a disposizione (era una partitura scritta per un ensemble di novanta persone, quindi economicamente fuori misura), abbiamo reinterpretato il suono. Addirittura, in uno dei brani abbiamo deciso di utilizzare l’intelligenza artificiale per ricostruire la voce di Leò, sempre partendo dalla sua partitura e riproducendola come sarebbe stata secondo le sue intenzioni e il suo stile compositivo, quindi senza creare qualcosa di nuovo ma facendo una sorta di servizio alla partitura stessa.
CM: Che musica ascolti ultimamente?
EG: Domanda difficile. Credo di essere entrato in una fase della maturità (non creativa ma biologica) in cui inizia a esserci il desiderio della memoria oltre che del futuro. Mi rendo conto di fare parecchia fatica a usare Spotify quindi ascolto prettamente vinili che, per quanto sia ancora una moda per alcuni, si rivolgono spesso al passato. Sto riprendendo dischi che non ascoltavo da molto, come le release di una label che si chiama ECM, abbastanza datata. Ti cito anche Ermeto Pascal, un politrumentista con una gran voce che sta tornando fra i producer moderni. Forse la ragione per cui ascolto cose vecchie è che al momento mi interessano più altre forme d’arte come il cinema, e non sempre c’è spazio per tutto. Ecco domande di questo tipo mi sembrano sempre un po’ da psicanalisi [ride]… Però ultimamente ho ascoltato della roba figa a un festival qui in Italia: Coca Puma, che è molto brava secondo me, e Gaia Morelli.
CM: Qual è la città a cui ti senti più legato come influenza musicale e culturale in Italia?
EG: Anche se ho trascorso a Torino gli ultimi cinque anni, una città con una rete di festival fantastica e di alta qualità culturale, ma complessa per molti altri aspetti, è Milano il posto in cui sto bene, e infatti sto tornando a viverci. Tra le città che ho conosciuto in tutta la mia vita, è quella che cambia più rapidamente, è molto vivace. E nonostante ci siano tante contraddizioni – come una socialità intrisa e dipendente dagli eventi, con ritmi che a volte sono pesanti –, sono tutte piuttosto scontate e quindi il terreno di gioco è più chiaro.