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Francesco João

L’opera d’arte e l’oggetto, il Brasile e l’Italia

Geschrieben von Alessia Romano il 18 Mai 2023

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Si racconta descrivendo il Brasile e l’Italia come i luoghi che contraddistinguono la sua vita, sia quella personale che quella lavorativa, che porta avanti indipendentemente che si trovi al bar o che si trovi in studio. Francesco João è un artista dalla vita movimentata, perennemente in giro e attratto da diverse dimensioni che convivono. Una ricerca che spazia a livello pratico e che fino ad ora si è focalizzata su quelle che erano e che sono le caratteristiche della pittura: interrogativi e riflessioni si traducono in un’estetica minimal ricca di contenuto che combina al suo interno la sacralità dell’opera d’arte e la funzionalità dell’oggetto.

Il mio “essere artista” consiste in comporre musica, scrivere e ovviamente fare pittura, scultura, creare oggetti.

 

Partiamo dalle basi, parlaci di te: chi è Francesco João?

Sono nato a Milano da madre indigena brasiliana e da padre milanese, ma ho passato l’infanzia in Amazzonia. Andavamo spesso a trovare mio nonno che aveva una piccola fazenda nell’entroterra, proprio in mezzo alla foresta tra lo stato di Amazonas e lo stato del Parà, nella città di Paritins. Il percorso di studi però l’ho fatto in Italia, da piccolo sul Lago Maggiore e poi a Milano: ho fatto l’Accademia di Belle Arti di Brera e nel 2012 mi sono trasferito di nuovo in Brasile, a San Paolo, fino al 2019. In generale ho sempre fatto avanti e indietro tra l’Italia e il Brasile, sia per motivi lavorativi che per motivi familiari e continuo ad avere un forte legame con entrambi questi luoghi: ad esempio l’ultima mostra che ho inaugurato a gennaio 2023 è stata proprio a Sao Paolo da Marli Matsumoto. Non ho un luogo che sento più mio dell’altro.

Il tuo studio di Milano si trova in un palazzo storico in pieno centro. Qual è il tuo rapporto con questo spazio e con i dintorni? Come vivi l’ambiente dello studio d’artista?

Sì, il mio studio si trova tra Cadorna e Conciliazione, effettivamente nel quartiere a ridosso di Parco Sempione e allo stesso tempo proprio a due minuti dal centro. Io sono una persona abitudinaria e per questo motivo non esco molto dal mio quartiere nonostante i posti dell’arte si trovino altrove. Ero un fan del Bar Anny in Via De Togni, che però ha chiuso. Quindi adesso le mie colazioni sono sempre al Leonardo, bar tradizionale in Via Saffi. Per quanto riguarda lo studio non ho un rapporto stretto con il concetto di artista che lavora nel suo atelier e che ci vive, ci passo relativamente poco tempo. Mi piace pensare all’artista in maniera “espansa”: la parte principale del mio lavoro consiste nel fare ricerca, leggo, scrivo, guardo il lavoro di altri artisti e così via, il lavoro in studio accade solo in un secondo momento. Sono tutti processi che posso fare indipendentemente da dove mi trovo. La cosa che mi serve è principalmente una buona connessione internet. Quell’idea dell’artista legato allo studio non è una cosa che mi appartiene. Per quanto mi riguarda il mio “essere artista” consiste in comporre musica, scrivere e ovviamente fare pittura, scultura, creare oggetti. E spesso tutte queste cose si combinano insieme.

Abbiamo capito che il luogo per lavorare non è fondamentale. Come ti relazioni quindi con le tecnologie e il digitale?

I social sono alla pari dell’indossare un vestito, una cosa che è normale avere e utilizzare. Io li uso per lavoro ma anche per seguire i giocatori del Milan. Sulla ricerca ho un approccio ampio, sulla condivisione invece sono sempre un po’ indeciso e così non sono mai veramente del tutto soddisfatto dei miei post. Da buon monotematico quelli che lascio sono sui i miei punti fermi e restano sempre gli stessi: arte o calcio.

Diversi sono gli approcci che si possono individuare all’interno della tua pratica. Qual è il focus della tua ricerca artistica?

Il punto da cui ho iniziato e che ho portato avanti ha sempre riguardato la pittura: non tanto attraverso un pratica da “pittore”, ma per il semplice fatto che la pittura, per me, è un buon modello per un discorso più ampio che può comprendere anche di altri medium. Se non altro perché è il mezzo più antico che ha da sempre accompagnato gli esseri umani, dalla pittura rupestre a oggi. Quando ero all’Accademia mi sono sempre interessato alla pittura ma non ho mai dipinto, anzi, facevo principalmente video. I miei video funzionavano in maniera, per così dire, pittorica, attraverso la regolazione dell’opacità delle immagini, modificata, andavano a creare delle dissolvenze, delle trasparenze, come dei layers di acquerelli o gouache. La pittura l’ho poi approcciata come medium per la prima volta in occasione della mia prima mostra personale nel 2012 da Gasconade a Milano, curata da Michele d’Aurizio. In questo modo ho portato la mia riflessione sulla pittura nella pittura e da lì ho effettivamente iniziato un percorso di dieci anni in cui non ho mai spostato lo sguardo da questa ricerca, nel senso più ampio possibile.

Una ricerca durata dieci anni! Quali sono state le considerazioni che hai dovuto fare e sui cui ti sei dovuto soffermare durante tutto il tuo percorso per cercare di avere sempre uno spunto nuovo?

Quando vado a rivedere i lavori passati, riesco a vedere chiaramente la strada percorsa, il modo in cui sono partito e la ricerca che si è andata ad evolvere per sottrazione, interrogandomi su quali fossero le cose necessarie o rilevanti. Fino a dove posso arrivare prima di aver eliminato tutto? E alla fine è rimasto quasi solo il telaio. Mi sono accorto di avere la tendenza ad “oggettificare” le pitture, parlando della tela e della sua trasparenza e non di quello che c’è sopra. Non del soggetto. Il soggetto è solo il pretesto per iniziare a dipingere e per portare le pitture a essere dei veri e propri oggetti, con un approccio quasi scultoreo. Sculture di pitture ottenute combinando gli elementi che arrivano dalla pittura tradizionale: il telaio, la tela, la pittura, il pigmento e così via. Ultimamente sono andato oltre, applicando questo ragionamento agli oggetti stessi, alla scultura. il mio punto di interesse è arrivato a posarsi sul punto di relazione che c’è tra la pittura, eventualmente applicata a differenti media, e l’arte: nella sua dimensione spirituale e contemplativa e in quella economica e funzionale.

Ci hai raccontato di dedicare molto tempo alla ricerca mediante canali diversi. Cosa guardi e cosa studi quando devi fare ricerca?

Ultimamente ho guardato tanto i corrimani della linea rossa di Franca Helg e Franco Albini, quelli di Lina Bo Bardi del Sesc e della Casa de Vidro, per esempio. Mi interessa la traiettoria del lavoro di Donald Judd, come esso si sia modificato nel tempo. Come siano passate da essere sculture solenni, quasi sacre, a essere considerate furniture, complementi di arredo, soprattutto dopo la sua morte. L’opera scultorea di Judd è passata dall’assomigliare ad uno scaffale all’essere uno scaffale, un pezzo di design. Allo stesso tempo già lui in casa sua aveva elementi funzionali da lui disegnati che riprendevano esattamente le sue sculture. Mi interessa quindi andare ad analizzare questo percorso non lineare che la vita dell’opera poteva e può avere.

Agganciandosi al tema del design e parlando di vicini di casa, quest’anno si festeggiano i cento anni di Triennale Milano. Quartiere Sempione!

Ho un ottimo rapporto con la Triennale, fin da bambino. Mio papà è da sempre appassionato di architettura e di conseguenza questa è stata la prima tra le istituzioni a cui mi ha introdotto. Ho un grande amore per la musica, in particolare la musica techno e, insieme ai miei amici, negli ultimi anni di liceo capitava spesso di prendere voli per andare a Berlino o a Londra per andare a sentire questo e quell’altro dj. Quando invece si restava a Milano, si cercava qualcosa di autenticamente locale e quindi, non ti nascondo, che si capitava anche all’Old Fashion, che fa parte del Palazzo della Triennale…In quei casi la musica non c’entrava niente.