Nel 1966 nasce a Firenze Superstudio, un gruppo di architetti dalle visioni e dalle idee uniche che diviene ben presto il principale riferimento italiano per il movimento della cosiddetta architettura radicale. Ne faranno parte Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Roberto e Alessandro Magris, Gianpiero Frassinelli, Alessandro Poli. A 50 anni dalla fondazione, il Maxxi gli rende omaggio con una retrospettiva che inaugurerà il prossimo 21 aprile, curata da Gabriele Mastrigli, autore anche di due libri sul tema: La vita segreta del Monumento Continuo e Superstudio – Opere 1966-197. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la mostra e per discutere sull’eredità e l’attualità del Superstudio (in foto, Superstudio, Compagni di viaggio, 1968).
ZERO: Iniziamo dalle presentazioni.
Gabriele Mastrigli: Gabriele Mastrigli, nato a Roma nel 1969.
Dove hai studiato architettura?
Alla Sapienza di Roma e alla RWTH di Aachen.
Che altre tappe ha avuto il tuo percorso formativo?
Un dottorato in progettazione all’Università di Pescara, e poi molti scambi con l’estero, in particolare con l’Olanda, al Berlage Institute, e con gli Stati Uniti, alla Cornell University, dove in varie forme ho fatto ricerca e insegnato.
Qual è stato il tuo primo incontro con i lavori del Superstudio? Ti ricordi quale fu la tua prima reazione?
Ovviamente sui libri, durante gli anni di studio. Poi, circa quindici anni fa, ho conosciuto Cristiano Toraldo di Francia, uno dei fondatori del Superstudio, all’Università di Camerino presso la Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno, dove entrambi ancora insegniamo. Cristiano è una persona formidabile. Ne è nata una bella amicizia che mi aperto le porte del Superstudio, che però è rimasto a lungo un mondo seducente quanto misterioso: non è stato facile farmi un’idea chiara del loro percorso.
E come sei riuscito a fartela?
Dieci anni fa ho pubblicato una raccolta di scritti di Rem Koolhaas per l’editore Quodlibet di Macerata. A Cristiano è piaciuta molto è abbiamo iniziato a pensare a un libro che raccogliesse il lavoro del Superstudio. Così sono andato a trovare Gian Piero Frassinelli, il „conservatore“ dell’archivio Superstudio, a Firenze, e poi Adolfo Natalini, che del Superstudio è stato l’altro fondatore. Oltre ai materiali che mi hanno mostrato sono stati i loro racconti a rivelarmi il senso del loro lavoro. È stato un percorso lungo, ma appassionante.
Il libro che ne è nato porta come titolo La vita segreta del Monumento Continuo, puoi dirci in breve che cos’è il Monumento Continuo? È questo l’aspetto che più ti ha colpito del lavoro complessivo del Superstudio?
Il libro nasce da una serie di interviste ad Adolfo, Cristiano e Gian Piero che ho raccolto in occasione della Biennale di Venezia del 2014, diretta da Rem Koolhaas. In quell’occasione Koolhaas e Ippolito Pestellini Laparelli, che curava la sezione Monditalia, mi hanno chiesto di presentare l’esperienza del Superstudio. Lo abbiamo fatto attraverso un’istallazione (La moglie di Lot), un film (Cerimonia) e un libro con le interviste. In quel libro c’è il racconto dell’intera esperienza del gruppo – del quale hanno fatto parte anche Roberto e Alessandro Magris, scomparsi qualche hanno fa, e Alessandro Poli che è stato nel Superstudio dal ’70 al ’72 – visto da tre prospettive singolari e irriducibilmente differenti. Il Monumento Continuo rappresenta in fondo ciò che li ha tenuti insieme, cioè il senso della loro ricerca, che poi è l’architettura tout court: spazio di riparo, oggetto del desiderio collettivo ma allo stesso tempo sistema coercitivo da cui l’uomo aspira a liberarsi.
Cosa hai cercato di raccontare, invece, nel nuovo libro, Superstudio. Opere 1966 – 1978?
Nel libro ho cercato di raccogliere sistematicamente testi, immagini e documenti dell’intero percorso del gruppo. A ormai mezzo secolo dall’inizio di quell’esperienza mancava ancora una ricostruzione attraverso i materiali prodotti che mettesse in tensione le immagini con i testi, troppo spesso lasciati in secondo piano. C’è una dimensione letteraria del Superstudio che è ancora tutta da scoprire.
Secondo te qual è stato l’aspetto veramente rivoluzionario del Superstudio? E quale l’elemento debole che poi ha portato la sua forza ad affievolirsi?
Sono stati tra i primi a prendere atto, nella forma più radicale, che l’architettura è progetto e che il progetto è rappresentazione, cioè il modo in cui l’uomo razionalizza il suo essere al mondo. Ma, soprattutto, che questo processo, portato al limite, mette in seria discussione l’esistenza stessa dell’architettura, almeno come la intendiamo comunemente. La loro è stata una filosofia dell’architettura più che un semplice progettare per costruire.
Se dovessi descrivere Superstudio in una frase quale sarebbe? Una sorta di aforisma per accendere la curiosità di chi non conosce per niente il loro lavoro.
Ce ne sono molte, ognuna con un significato diverso, ma tra le tante sceglierei «L’unica architettura sarà la nostra vita», che non è una semplice dichiarazione di „morte dell’architettura“, quanto piuttosto un invito a guardarla in un modo diverso.
Dopo i libri è arrivata la mostra, che tra pochi giorni inaugurerà al Maxxi: ci puoi raccontare cosa vedremo e cosa hai voluto raccontare attraverso questa esibizione?
Superstudio 50 è una sorta di viaggio
di formazione autobiografico attraverso le installazioni, gli oggetti, i disegni,
i fotomontaggi, insieme alle stampe,
alle pubblicazioni e ad una serie di film realizzati dal Superstudio tra il ’66 e la fine degli anni 70. Vedremo le opere finite, ma anche i materiali di lavoro. E attraverso di essi scopriremo che l’architettura non è solo un oggetto bello e funzionale, ma un modo di osservare e comprendere il mondo in cui abitiamo e persino noi stessi.
Il materiale in mostra da dove proviene?
Per la maggior parte dall’archivio Superstudio e dagli archivi personali di Natalini, Toraldo e Frassinelli. Poi ci sono le opere della collezione del Maxxi ed altre che provengono dal Centro Luigi Pecci di Prato, dal FRAC di Orléans, e da collezioni private, tra cui quelle delle aziende Giovannetti, Poltronova e Zanotta.
A ottobre anche il PAC ha dedicato una mostra al Superstudio, c’è qualcosa che potrebbe giustificare nel 2016 una nuova contemporaneità del lavoro del Superstudio?
Al di là della ricorrenza del cinquantenario della fondazione del gruppo e della nascita della cosiddetta „architettura radicale“, il periodo di crisi che stiamo attraversando ci pone delle domande sul senso delle parole „sviluppo“, „progresso“, o „innovazione“, di cui l’architettura e i design sono da sempre vettori. Il lavoro del Superstudio è una potente terapia contro i falsi miti, le semplificazioni e le soluzioni facili che spesso accompagnano la retorica della crisi.
Circa dieci anni fa hai curato un’altra mostra al Maxxi, ci puoi raccontare quell’esperienza?
La mostra si chiamava Holland-Italy. 10 Works of Architecture. Era un confronto tra architetti emergenti italiani e olandesi promosso dall’Ambasciata dei Paesi Bassi a Roma. Anche lì si parlava di architettura come progetto, come proiezione verso una dimensione altra, piuttosto che come risposta a richieste funzionali o di programma; ma a partire da esempi specifici. Non a caso in mostra c’erano solo dieci progetti.
In futuro ne curerai di altre? Hai già qualche progetto nuovo tra le mani?
Le mostre sono occasioni fondamentali per chi fa ricerca in architettura. Tuttavia non mi ritengo un curatore, diciamo così, di professione; sono piuttosto un architetto, un docente e uno studioso che utilizza, tra gli altri, anche lo strumento della mostra per indagare, narrare e presentare l’architettura.
Allargando un po‘ lo sguardo a Roma, qual è secondo te lo stato di salute della città da un punto di vista architettonico, pensando soprattutto a nuovi edifici e alle idee di riorganizzazione urbana?
Roma è una città che ha risorse enormi, ma che non ne è sempre consapevole. Soprattutto non è più capace di proporre una visione sul lungo termine. Al di là dei problemi specifici credo sia questo il vero problema.
C’è un legame tra Roma e il Superstudio, un influenza dell’uno sull’altra e viceversa?
Ovviamente la storia di Roma brulica di architettura con la „A“ maiuscola. Per questo la ritroviamo frequentemente nelle visioni del Superstudio. Penso al Monumento Continuo che „atterra“ a Piazza Navona o nel Colosseo, che vedremo in mostra. Ma a parte questo non c’è un legame diretto.
Ritrovi qualcosa delle idee del Superstudio in Roma? Qualcuna delle loro intuizioni che, involontariamente, ha trovato corpo in città?
L’architettura è un fatto ad alto valore simbolico – appunto, un monumento – anche quando esprime istanze funzionali al massimo livello. Questo a Roma lo si vede benissimo: dai resti degli acquedotti romani al chilometro del Corviale.
Se il Superstudio dovesse ridisegnare la città oggi, come la immaginerebbe secondo te?
Non si porrebbe il problema.
In generale, quanto spazio c’è per un pensiero radicale in architettura al giorno d’oggi? C’è qualcuno che secondo te potrebbe raccogliere il testimone di Superstudio?
C’è sempre spazio per un pensiero radicale. Guai però a farne un’etichetta. La fine dei radicali è stata appunto quando hanno iniziato ad essere definiti tali.
Il tuo edificio preferito di Roma?
Ce ne sono molti. Pensando al Superstudio mi viene però in mente quel luogo che oggi chiamiamo il Circo Massimo, un monumentale non-edificio che è insieme una piazza, un parco, uno spazio pubblico. Come afferma il Superstudio, «L’architettura sta al tempo come il sale all’acqua». Una volta che la sua immagine simbolica si è sciolta, l’architettura rivela il suo vero scopo, essere abitata. Ma per fare questo è necessario un nuovo progetto. Dunque il processo è circolare.
Il tuo scorcio preferito di Roma?
Quello della Garbatella, dove vivo.
Un’ultima domanda, qualche giorno fa si è spenta Zaha Hadid, che dell’edificio Maxxi è stata la creatrice: un tuo pensiero su di lei e sulla sua eredità.
È stata un grande architetto che, tra l’altro, grazie a Rem Koolhaas, negli anni di formazione all’Architectural Association di Londra ha incrociato il Superstudio. Ricordo una sua bella mostra al Guggenheim di New York, nel 2006, che mostrava i progetti di architettura accanto alla sua opera pittorica, tutta nel solco dell’astrazione. Il convegno che accompagnava la mostra, al quale partecipai, è stato un momento non retorico di riflessione su tutto questo. Sono tornato a Roma ancor più persuaso che il suo valore andasse oltre quello „stile Hadid“, che pure l’ha resa nota in tutto il Mondo.