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Gabriele Mitelli e Fabrizio Saiu

Le anime di una visione poliedrica ci raccontano RAAA, il nuovo festival di arti performative contemporanee di Brescia.

Geschrieben von Annika Pettini il 10 November 2022
Aggiornato il 11 November 2022

Siamo andati a districare i fili di un progetto nuovo che però esiste da tanto, di una visione che unisce musica, arte e performance, grazie a un lavoro lungo e profondo di ricerca, di persone che si mettono in gioco e in discussione creando un terreno fertile per menti creative e nuove sensibilità. Insomma, siamo andati a conoscere Gabriele Mitelli e Fabrizio Saiu, anime del progetto BAO (Brescia Artistic Observatory) che, con un lungo trascorso artistico e organizzativo alle spalle, portando in città la prima edizione di RAAA, il festival di arti performative contemporanee tutto da scoprire.

Ogni pratica è in realtà un intreccio di pratiche.

 

Inizierei dal districare le vostre identità e le realtà che portate, perché RAAA è solo l’ultima manifestazione di un lungo lavoro e di diverse persone che nel tempo sono cambiate e maturate. Da dove cominciare?

Brevissimamente: noi siamo la progettazione e la direzione artistica, ma tentiamo sempre di coinvolgere tutto lo staff, tutto e tutti sono progettazione e assembramento di idee. 

Per il resto io (Gabriele ndr) posso dire di me che ho suonato e suono tantissimo, ovunque, che ho conosciuto tanti artisti e ho lavorato tanto ai miei progetti. Ho iniziato ad approcciarmi a uno strumento abbastanza tardi ma ho avuto la fortuna di incontrare persone molto formate e musicisti importanti che mi hanno permesso di crescere e imparare molto velocemente – musicisti come Stockhausen, Cristiano Calcagnile, ma anche la musica improvvisata del jazz e la scena di Chicago (Rob Mazurek, Jeff Parker), con il suo approccio libero. Sono partito dalla tromba e poi sono arrivato agli strumenti a fiato in generale. Quando lavoro a un certo punto arrivo sempre a una crisi, a quel momento in cui, superata la gratificazione, inizio a chiedermi perché lo sto facendo, a cosa può davvero servire il mio lavoro e la mia musica e non ci trovo un reale senso, se non a livello egoistico e personale. Lì entrano in gioco i miei eventi – l’altra parte del mio lavoro. Sono partito con l’associazione e i festival circa 6 anni fa, quando hanno preso forma il Ground Music Festival e Indica, con la voglia da sempre di rendere unica la selezione e le location, con un approccio radicale legato all’elettronica e all’improvvisazione europea o il sound painting.

Ma il mio solito problema del “perché lo fai?” mi si è imposto ed è affondato dentro di me e ho deciso di coinvolgere Fabrizio, che ho letteralmente corteggiato per anni. Ci conosciamo da tantissimo tempo, tempo in cui ho seguito e imparato a stimare il suo lavoro. Fabrizio rappresenta quella persona che ha fatto un certo tipo di percorso e poi se ne è fottuto, ha cambiato punto di vista.

Quando l’associazione che ho fondato ha preso due soldi in più, ho scelto di coinvolgerlo in un progetto: BAO, come dimensione in cui accogliere e aprire i linguaggi, e poi RAAA, il festival, come prima manifestazione in cui restituirli.

 

(Fabrizio ndr) Sul nostro incontro Gabriele ha detto la verità, ci conoscevamo, ci siamo incontrati in più occasioni, anche a cena a casa sua, dove bevendo e mangiando abbiamo fatto anche chiacchierate importanti.

Da parte mia posso dire che una grande caratteristica di Gabriele è la sua capacità di rilanciare l’attività artistica in modo sempre nuovo, andando a fondo nelle ricerche in modo comunitario, generando reti e connessioni nutrienti.

E così è nato l’invito: mi ha detto “facciamo BAU” – che poi è diventato BAO – e lì è nato RAAA.

Per quanto riguarda me, nasco come batterista sia nell’ambito jazz che nell’improvvisazione e fino al 2010 ho portato avanti questo percorso. Da quel momento, gli sviluppi della mia ricerca sui modi di organizzazione del suono mi hanno portato a smettere. La batteria si era come allargata, includeva lo spazio e lo strumento pian piano è sparito del tutto, o quasi. Ho studiato con Roberto Dani che ha saputo trasmettermi la capacità di avere una visione trasversale, ho lasciato la musica in senso stretto per poterla portare avanti traducendola nello spazio e nel corpo che lo vive. In fondo suonare un piatto è un gesto era quello a interessarmi.

Andiamo dritti dritti al punto: RAAA, ovvero la prima edizione di un festival fortemente trasversale che porta le forme più ibride di tanti linguaggi. Ce lo raccontate?

RAAA è come una performance e nel 2024 lo diventerà del tutto. Nasce come festival rivolto allo spazio pubblico che si confronta con dinamiche di fruizione e narrazione.

Questa esperienza è un primo passo, è un figlio o una figlia a tutti gli effetti e in quanto tale vogliamo che cresca, che diventi più maturo e capace di accogliere nuovi linguaggi e di coinvolgere più persone.

Nasce anche come vocazione per la performance intesa come spostamento nello spazio pubblico che porta con sé il mondo del suono, che rischia sempre di restare l’elemento più trascurato nell’ambito performativo. Solitamente l’aspetto musicale è inferiore rispetto a quello di danza e movimento, mentre per noi l’esperienza del suono è importante e rimane importante e si apre a pratiche diverse.

Avete scelto una linea che abbandona molte delle linee guida dei diversi sistemi culturali: arti, musica, performance, tutto sembra proporsi in una chiave traslata. Che storia vorreste raccontare?

Rendersi conto che ogni pratica è in realtà un intreccio di pratiche, è già un punto di partenza. Suonare è muoversi nello spazio, e queste cose sono già state affrontate in passato (pensa a fluxus) e vorremmo trovare quegli artisti che lavorano su questa oscillazione, che nella pratica che stanno facendo ti portano da un’altra parte, traslano i linguaggi, ti portano nella musica ma poi arriva la poesia o forse è un workshop.

Un problema dei festival in generale sono spesso gli organizzatori, che sono tutto tranne che esperti o ricercatori e quindi mettono insieme programmi approssimativi. Per sfuggire a queste dinamiche abbiamo scelto, attraverso BAO e per RAAA in specifico, di unire diversi livelli di produzione: per la musica, le arti, le performance e così via, si collabora in tanti e si lavora cercando di scardinare e rimontare costantemente il pensiero e le visioni. Condividiamo e colmiamo mancanze. Bisogna tenere le direzioni aperte, accettando anche suggestioni e contributi che noi, da soli, non avremmo scelto.

Le realtà che coinvolgiamo sono scelte per la loro specificità, per le loro peculiarità culturali e organizzative. Includerle in BAO significa dare risalto a queste singolarità per ciò che esse sono e, al tempo stesso, favorire anche lo scambio e il confronto.

BAO è un progetto in divenire e sappiamo che ha bisogno di tempo, dobbiamo fare in modo che i rapporti che stiamo generando diventino naturali, dobbiamo conoscerci e assimilarci.

RAAA si propone su un territorio periferico, passatemi il termine, rispetto a Milano. Brescia è una “sorellina minore” della city ma forse le cose stanno cambiando. Sembrano muoversi tante cose, e voi ne siete una manifestazione. È solo una sensazione o è così anche per voi?

Brescia è una città densa e bellissima ma è ancora troppo legata alla cultura del lavoro e questa narrazione, nonostante sia straordinaria da un punto di vista architettonico e densa di realtà vivissime, deve trovare il modo di essere inclusiva e di raccontarsi.

La scelta di Brescia come location del festival è stata spontanea: siamo qui e facciamo cose qui, il lavoro, amici, conoscenti, gli spazi erano raggiungibili. Non abbiamo mai pensato a Brescia come luogo: era la nostra casa.

Che legame avete con il territorio?

Diciamo che il primo ad aver affondato le radici a Brescia sono io (Gabriele ndr), qui ho organizzato i primi eventi come concerti, cinema all’aperto, e quando il tutto è diventato un festival allora Laura Castelletti – vice sindaco e assessore alla cultura con una sensibilità particolare e che capisce subito chi sta facendo cosa – mi ha notato e mi ha coinvolto come realtà del territorio. È una persona come ce ne sono poche in Italia e grazie a lei Brescia è cambiata molto negli ultimi 10 anni. Ha favorito l’associazionismo, la creazione di spazi, in qualche modo aiuta e investe nella cultura.

Come rispondono o come risponderanno secondo voi le persone?

Vorremmo che il pubblico di Brescia smettesse di essere pubblico e riuscisse a sentirsi coinvolto, in modo non respingente ma strutturato, che partecipa e che sente suo il festival. Vorremmo un rapporto più stretto con la realtà, perché qui tutti si conoscono ma c’è separazione, sono molti pubblici di nicchia che andrebbero fatti agire e reagire.

Ciò a cui puntiamo è creare più movimento e una partecipazione consapevole e critica. Il pubblico bresciano sta sulle sue, partecipa poco e a fine spettacolo va a casa. Naturalmente generalizzo, ma è una situazione molto diffusa. Vorremmo una comunità più attenta a ciò che accade, capace di interagire e di costruire assieme una realtà culturale più complessa e meno disciplinata dal rapporto programmatore – performer – spettatore. Ovviamente non succederà quest’anno, la strada è lunga.

Come vivete il legame con Milano? Anche se in realtà so che viaggiate molto, quindi cosa vedete rispetto ad altri luoghi che vivete da un punto di vista artistico e professionale?

Milano è piccola, come è piccola l’Italia, come è piccolo tutto. Da un punto di vista culturale e organizzativo ci abbiamo pensato poco, c’è un rapporto attivo con Milano ma non è centrale. Diciamo che si trovano poche cose di livello, il mercato vince sempre a Milano ed è troppo pesante rispetto al contenuto perché costringe a produrre robe di basso livello, vuote o facilmente assimilabili. Chi fa ricerca vera fa molta fatica a trovare il suo posto.

E poi Brescia è spesso un test per quello che poi arriva nella “grande città” perché possiamo permetterci di rischiare di più, abbiamo meno vincoli. Ci possiamo permettere più semplicità e apertura.

Vorrei entrare un po’ più nel merito del festival: cosa ci aspetta? Gli artisti, i luoghi, il palinsesto?

Tanti ci dicono: che programma particolare. In tanti ci hanno detto “non conosco quasi nessuno” perché peschiamo anche dall’ambito musicale, intrecciamo i linguaggi e nell’ambito performativo potrebbe essere un unicum. Puntiamo davvero a creare delle traslazioni di pensiero, su un piano pratico. Tenere Brescia come punto di riferimento ma accogliendo artisti e direttori artistici da ovunque e gli spazi che abbiamo coinvolto infatti sono tanti, istituzionali e non. C’è il MOCA, il Teatro IDRA, il Bunkervik, Brescia Mobilità con la metropolitana, la Pinacoteca Tosio Martinengo, il MICS  e poi anche spazi privati, come Vulcano Studio e associazioni come Spazio Contemporanea e Spettro. Ciascuno di loro ospiterà uno o più eventi, installazioni, concerti di musica elettronica, workshop  e momenti di festa e  convivialità. Non mancheranno, penso al 12 novembre, i momenti di discussione come il talk di Leandro Pisano che porterà il suo manifesto futurista della ruralità, che problematizza la dicotomia tra periferia e centro e promuove un nuovo approccio al periferico come zona liminale, in continua trasformazione. Poi ci sarà Salvo Lombardo con una performance partecipativa, un incrocio tra una sessione di training alla danza e un rave tra le opere del Moretto e del Romanino; lo Spazio Contemporanea, con il live di Elisabetta Porcinai e Roberto Crippa, sarà riempito di fumo che alla luce dei neon diverrà un ambiente sonoro immersivo. E poi, per finire o ri-iniziare,  a casa di Spettro troveremo i Chorus Abstracta, che sono anche gli ideatori  di Spettro, con un concerto live trio. Tutto questo e molto altro per generare una situazione stratificata e partecipata. Ma questa è solo una spolverata di un festival molto più ampio, che vi invitiamo a scoprire di persona!