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Gian Maria Tosatti

Una conversazione con Gian Maria Tosatti su Storia della Notte e Destino delle Comete

Geschrieben von Valentina Rossi, Marco Scotti il 11 Mai 2022

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Di Storia della Notte e Destino delle Comete, il progetto espositivo di Gian Maria Tosatti ospitato dal Padiglione Italia alla 59° Biennale di Venezia, a cura di Eugenio Viola, se ne è parlato tantissimo. Anche solo per il fatto di essere la prima mostra nella storia del nostro padiglione a presentare l’opera di un solo artista. Il lavoro è una grande installazione ambientale, realizzata in maniera impeccabile e perfettamente in linea con la ricerca che Tosatti porta avanti da anni in spazi e architetture straordinarie, da Novara a Napoli passando per Istanbul e Odessa. L’esperienza è senza dubbio di grande impatto, anticipata da una lunga coda all’ingresso che prelude a una visita solitaria e in rigoroso silenzio. Ma per andare a fondo di questa complessa macchina teatrale in due atti, che affronta in maniera diretta la storia recente del nostro paese, abbiamo voluto incontrare Gian Maria Tosatti, ritagliando un attimo di calma nella frenesia dei giorni dell’anteprima.

Uno specchio deve essere sempre vuoto per poter accogliere la visione di chi ci si mette davanti. Credo che gli artisti costruiscano specchi e poi decidano dove collocarli, per potercisi ritrovare, per vedere sé stessi riflessi in un contesto.

 

Sappiamo che parte delle suggestioni e riflessioni che compongono il lavoro nel Padiglione Italia arrivano da una tua esperienza a Kiev, qualche anno fa. Ci racconti qualcosa delle origini di Storia della Notte e Destino delle Comete?

Ero in Ucraina per il progetto Il mio cuore è vuoto come uno specchio – Episodio di Odessa. Stavo studiando la città di Kiev, che ho amato e che ancora amo, ma che probabilmente è tra le più brutte d’Europa. È la capitale di un paese che ha, forse, una delle nature più rigogliose del continente e che, di contro, ha visto, negli anni Novanta, quindi nell’immediato post-Sovietico, una urbanizzazione deleteria e selvaggia. 

Lì mi sono reso conto che abbiamo una tale aggressività, una ferocia nei confronti della natura, da farci sembrare dei cani rabbiosi. Finiamo costantemente per stuprarla, mostrando anche un certo senso di compiacimento. Allo stesso tempo, però, la natura reagisce: a Kiev si costruisce una strada e un albero la sfonda. A Odessa, proprio di fronte alla Scalinata Potëmkin, dopo il crollo dell’Urss costruirono un albergo altissimo, simile a un motel Agip dei più brutti, sulle palafitte, che oggi blocca completamente la visione del mare.

Questo abominio non ha mai aperto al pubblico, perché la natura ha iniziato a farlo sprofondare e inghiottirlo, rendendolo quindi vulnerabile, inagibile. Ecco, l’Ucraina è un paese che mi ha insegnato tanto. Ero andato lì per guardare da vicino l’orrore di una guerra che va avanti da molto tempo, per capire alcune cose dell’umano che ho bisogno di indagare, e mi sono trovato di fronte a un altro scontro: quello dell’uomo contro la natura.

Come vengono restituite queste esperienze nel lavoro alla Biennale?

Il finale dell’opera è il momento in cui – dopo tutto quello che è stato, dopo tutto ciò che abbiamo pensato e costruito – la natura dà la sua versione. In questo caso è una versione molto crudele: distrugge tutto, allaga quella grande piazza di carico che c’è davanti all’ultimo capannone, rende la città sommersa.

Ma questa distruzione non è un evento orrendo: contiene al contrario una bellezza profonda. Arriva uno sciame di lucciole che volano sul pelo dell’acqua, è il segno di una pace possibile. 

D’altronde noi viviamo di archetipi, di elementi che appartengono alla nostra storia e alla nostra civiltà. Storie molto antiche, miti che continuiamo a ripeterci, forse perché non impariamo mai. In fondo non è sull’acqua che la colomba ha incontrato Noè alla fine del diluvio? In quest’opera si legge in filigrana la storia di Lucifero: la volontà di qualcuno di prendere il posto di qualcun altro che è più in alto di lui, che è più potente di lui, per sedersi su un trono che non saprebbe gestire. E proprio perché pecca di questa insensata arroganza, finisce per sprofondare. 

Ed è quello che sta succedendo anche a noi. Ci siamo fatti padroni della natura e non la sappiamo gestire.

Si potrebbe leggere tutto il padiglione attraverso una narrazione e un processo: un primo momento che ripercorre la massiccia industrializzazione e un secondo che mette in scena il tracollo di questa industrializzazione, potremmo dire una vendetta della natura.

Questo non lo dice l’opera, lo dice la realtà che viviamo. L’opera è uno specchio. C’è questo titolo che uso per un progetto di lunga durata: Il mio cuore è vuoto come uno specchio. Perché uno specchio deve essere sempre vuoto per poter accogliere la visione di chi ci si mette davanti. Credo che gli artisti costruiscano specchi e poi decidano dove collocarli, per potercisi ritrovare, per vedere sé stessi riflessi in un contesto. È un’immagine sintetica, un frammento. Uno specchio, infatti, non è l’immenso che abbiamo attorno: in uno specchio non ti perdi, ma vedi tutto compreso in una cornice, in un perimetro.

Quest’opera non dice veramente niente, riflette quello che vediamo tutti i giorni. Solo che lo fa in una maniera molto precisa.

Per come è stata realizzata l’opera, hai sicuramente dovuto confrontarti con gli spazi complessi del Padiglione Italia. Quanto ha influito questo ambiente nella concezione e nell’allestimento dell’opera?

Ci sono un paio di questioni. La prima è che il Padiglione Italia è dentro l’Arsenale, che è stato, forse, la prima vera fabbrica moderna in Italia.

Allo stesso tempo il padiglione è anche un luogo che si cancella ogni anno, e non conserva quell’energia spirituale che, di solito, vado cercando negli spazi in cui faccio i miei lavori: solitamente cerco proprio dei luoghi che hanno uno spirito, un’identità. Invece, lavando via tutto ogni anno, si finisce per avere un luogo che, in questo senso, è parzialmente neutro. Per me è stato sicuramente più difficile lavorare in questo contesto perché ho dovuto praticamente ricreare tutto quasi da zero e per farlo siamo andati in luoghi reali, in fabbriche vere, fabbriche fallite che abbiamo comprato, impacchettato e portato qui, con la loro verità di imprese in liquidazione, con le macchine ancora calde. È questa la verità di cui si è nutrita l’opera. Quella verità che cerco di inseguire – e spero di riuscire anche a raggiungere – quando faccio le mie opere ambientali in luoghi fortemente compromessi con la società.

Di che fabbriche stiamo parlando?

Non sono importanti i nomi, ma la loro provenienza: per esempio c’è una fabbrica di Mondragone, una di Pavia e una di Trezzo d’Adda, c’è una fabbrica di cittadini poi, perché c’è anche un pezzo che viene da una scuola cattolica fallita, una scuola che non aveva più i soldi per poter andare avanti, a Napoli. 

Abbiamo coperto tutto il paese, e questo è significativo. È il Padiglione Italia. Che poi gli autori, come dice il curatore Eugenio Viola, siano un po’ a trazione meridionale – di base siamo tutti napoletani –, è vero, ma abbiamo fatto veramente un Grand Tour nell’Italia di provincia, nell’Italia industriale.

Una citazione importante in questo lavoro è quella tratta da Pier Paolo Pasolini, dal suo celebre articolo “Il vuoto del potere”, apparso sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975, da cui prendi la metafora della scomparsa delle lucciole. Chi è per te Pasolini?

Pasolini per me è come un fratello maggiore. Io ho sempre cercato di essere un intellettuale, così come lo sono stati i grandi intellettuali italiani, come Leonardo o Pasolini, appunto. Figure che avevano interessi di carattere artistico, letterario e scientifico, uomini di cultura che non si sono chiusi in una singola disciplina, in quella che oggi è una catena fordiana della cultura. Oggi il sistema culturale ci chiede: “Ma vuoi fare il critico? Allora fai il critico, perché fai anche le opere? Ma se vuoi fare lo scrittore, allora perché ti occupi anche di cinema?”. Potremmo anche dire che questi grandi predecessori appartenevano a una civiltà differente, perduta. Ma il fatto che il corpo di Pasolini sia ancora caldo, dimostra il contrario. Dimostra che questa tradizione è ancora viva, che ne possiamo essere eredi. D’altronde Pasolini è una di quelle figure che ha lottato fino alla fine, e per certi versi penso che si sia battuto anche per me. Penso a quando ero giovane, quando mi sono trovato davanti a un “o scegli di essere inquadrabile o noi non ti sosteniamo” – perché questo accade nel sistema, lo sappiamo bene – per certi versi lui mi ha difeso. Mi ha dato il coraggio e la forza di essere quello che volevo essere.

Per finire, vorremmo chiederti anche della presenza umana, che in Storia della Notte e Destino delle Comete sembra essere completamente assente.

Penso all’ultimo lavoro che ho fatto, Kalbim Ayna Gibi Boş – İstanbul Bölümü, dove c’era una performer, che restava però una presenza un po’ spettrale. È vero che le presenze umane che entrano nel mio lavoro assomigliano più a spettri che a corpi. Penso che, semplicemente, se il ritratto agli uomini di questo tempo risulta spettrale è anche perché stiamo diventando spettri. Non dipende da me. Noi artisti non scegliamo niente. Ma d’altra parte, non è forse questo che intendeva Damien Hirst con Treasures from the Wreck of the Unbelievable? Ci mostrava il naufragio di una vecchia nave, di un’antica civiltà scomparsa, e lentamente ci faceva accorgere che i relitti erano pezzi della nostra civiltà, del nostro presente, come i Transformers o Topolino, su cui però sono cresciuti i coralli. Ecco, forse siamo naufragati molto tempo fa, e sulle nostre vestigia sono già cresciuti i stessi coralli.