Esistono ancora i teorici dell’architettura? Sì, Gianni Pettena è uno di loro. Uno che ha preso l’abilitazione più per far paura agli altri architetti che per un reale bisogno. Gianni non solo parla di architettura, ma lo fa con un linguaggio diverso quello dell’arte, dell’installazione, della performace, perché lui si è sempre più sentito vicino all’artista, che reputa più libero rispetto alle regole rigide della pratica architettonica. Affiliato dell’avanguardia radicale ha ragionato sullo spazio urbano, costruito e non, maneggiando natura, paesaggio e materiali in maniera unica, rimanendo uno dei Radicali più sperimentali. In occasione di un’inedita mostra da Mega abbiamo conosciuto meglio l’anarchitetto Gianni Pettena.
ZERO – Ti senti ancora una spia?
Gianni Pettena – Sì, però meno rispetto al periodo in cui è stata scattata quella fotografia (vedi foto di copertina, ndr).
Quello era il primo scatto della foto di gruppo degli architetti che avevano deciso di partecipare alla Global Tools. Io avevo dei dubbi rispetto agli altri, avevo preparato un cartello che ho tenuto sotto il maglione e l’ho sfilato solo allo scatto del fotografo.
Quindi gli altri architetti erano all’oscuro di tutto.
Gli altri non sapevano niente.
E come l’hanno presa?
Dissero “eh va be’ il primo scatto è stato rovinato da Gianni, facciamo il secondo e utilizziamo quello come scatto ufficiale di gruppo!“.
La presero con filosofia.
Sì, ma alcuni però mi hanno dimostrato il loro disappunto. E comunque il secondo scatto ebbe successo perché finì sulla copertina di Casabella, dove però si vede che io sono un po’ imbronciato, mentre sul primo sono più sorridente.
La volontà era comunque di sorprendere gli altri e l’ho fatto in quel modo performativo che però raccontava la verità: ovvero che io non mi sentivo particolarmente intonato all’occasione, ma avevo accettato comunque di partecipare alla Global Tools perché, anche se ero pieno di dubbi, non trovavo ragioni sufficienti per dire di no.
Ero dubbioso perché dopotutto gli altri membri, dei futuri radicali, mi sembravano abbastanza orientati verso la professione dell’architetto. Volevano praticare di giorno, e tenere la parte sperimentale e di pensiero sull’architettura per la sera, così per riequilibrare l’eccessiva durata del tempo spesa per la bieca pratica architettonica. Ecco io non pensavo che per amare la donna architettura fosse necessario mandarla a battere nel parco.
Che poi è un po’ strano, perché gli altri radicali hanno realizzato poco, o sbaglio?
Soprattutto i primi anni gli Archizoom hanno progettato e costruito, idem il Superstudio… ma non cose riconducibili al lavoro di ricerca.
Oggi ci sono delle spie in architettura? Come possiamo riconoscerle?
Le spie in architettura secondo me ci sono e sono coloro che si sentono un po’ a disagio e stretti all’interno della frustrante e via via desolata professione dell’architetto. Io ricordo gruppi come gli Stalker o gli IaN+.
Ci sono stati gruppi che urlavano frustrazione e che però non rinunciavano alla professione come atto di amore verso l’architettura.
Io invece penso che si possa benissimo fare architettura, senza dovere imporre necessariamente, e per lunghi anni, il tuo traballante costruito.
Spie sì ci sono ancora, ma diciamo che i maggiori contributi teorici e linguistici all’architettura, fin dalla fine degli anni 60, non sono stati dati dagli architetti ma dagli artisti visivi che, abbastanza incazzati dell’anonima produzione degli architetti, si sono rimboccati le maniche e hanno reinventato un alfabeto e una sintassi completamente diversa.
Artisti come Kounellis, Smithson, Peter Cook, Walter Pichler, Vito Acconci, Christo eccetera… hanno dato il miglior apporto teorico e linguistico all’architettura, artisti molto spesso fonti d’ispirazione non citate per molti architetti tutt’ora operanti. E oggi si assiste ad ampie citazioni delle idee Radicali, spesso rimaste solo disegnate o descritte nei fotomontaggi.
Gli architetti hanno sempre questo arduo compito di avere a che fare con le persone e la natura, aspetto molto evidente anche nei tuoi lavori.
Il rapporto, almeno quello praticato dall’architettura più bieca, è sempre conflittuale se non assassino nei confronti della natura.
Come mai questo ritorno, in questi anni, verso i radicali che mettevano un po’ in gioco tutti i principi dell’architettura? L’architettura è ancora in difficoltà?
Be’ direi in profonda difficoltà. Perché non si è lasciato spazio al divenire della cultura e delle attività sperimentali delle generazioni successive, né sulle riviste specializzate né nelle occasioni del costruire (concorsi eccetera…). Sperimentazioni che invece molti artisti visivi producevano ed esibivano in installazioni ed esposizioni, senza essere imprigionati nelle carriere universitarie, come succede agli architetti laureati e con propositi di erigere il proprio piedistallo-architettura costruita utile a sorreggere il futuro monumento equestre dell’architetto ormai defunto.
Ci si è dimenticati della strategia che dava forma al proprio pensiero anche in termini temporanei, per esempio le mie architetture sono per la maggior parte nei filmati e nelle fotografie o sul mio sito.
Ecco a proposito di teoria: in „Viaggio sul Reno“, insieme con La Pietra, Arra e Vaccari, vi siete imbarcati su un battello e avete navigato da Düsseldorf a Basilea, qual era lo scopo di questo viaggio, che riguardava più che altro la comunicazione dell’architettura?
Noi quattro del “gruppo comunicazione” della Global Tools (che era una scuola fatta per noi, che eravamo docenti e studenti contemporaneamente) volevamo vedere cosa potevamo fare insieme.
Il “Viaggio sul Reno” fu una seconda scelta. La prima scelta era stata quella di partire in macchina da Milano e andare verso Est, fino a Samarcanda. Non volevamo però fotografare i luoghi ma solo le facce delle persone e la progressiva meraviglia di queste persone, che aumentava man mano che ci allontanavamo dal punto di partenza. Però capimmo che era impossibile farlo perché l’agenzia statale russa (eravamo in pieno comunismo), dava i permessi a solo gruppi organizzati e suggeriti dal Partito Comunista Italiano. Sarebbero passati 6/8 mesi solo per avere i permessi: loro avrebbero deciso le tappe, gli alberghi e la guida che doveva accompagnarci.
Ci prendemmo un break: era la fine di agosto, e ci raccontammo le vacanze che avevamo appena trascorso. Tutti eravamo contenti di come avevamo trascorso quel tempo e ci dicevamo bravi reciprocamente. Bravi a scegliere una vacanza… ma allora perché non ne sbagliamo una intenzionalmente? Così pensammo a cosa non avremmo mai voluto fare… ma una crociera! Decidemmo di rendere questa esperienza ancora più noiosa facendola lungo un fiume e durante una stagione sbagliata. Così scegliemmo il Reno e partimmo a novembre su una nave lussuosissima con il proposito di filmare tutti i passeggeri a bordo che avevano sbagliato la vacanza.
Per oltre il 50% erano coppie tedesche anziane, spesso con uno dei due evidentemente malato e quindi probabilmente sarebbe stato l’ultimo viaggio romantico di questa coppia. Ricordo che dopo cena si ballava e c’era una coppia in cui lei era semiparalizzata, veniva più o meno trascinata dal compagno per ballare un valzer…
Altre coppie invece erano giovani ma sudamericani in viaggio di nozze e non avevano pensato che attraversando l’equatore le stagioni si sarebbero invertite.
E di architettura cosa avete scoperto in questo viaggio?
Abbiamo studiato la nave che era disegnata apposta per navigare lungo un fiume. Noi eravamo ovviamente molto atipici, catturavamo la curiosità degli altri e ci inventammo il fatto che ci avesse assunto la compagnia di navigazione per fare uno spot pubblicitario sulla crociera e sull’uso di queste navi. Imbarcazioni disegnate apposta per superare le diverse chiuse del fiume Reno, con degli accorgimenti di carattere tecnologico formidabili.
Il nostro viaggio documentava il comportamento degli utenti di questa mini città che era la nave.
Poi avete fatto altri viaggi insieme?
Avevamo fatto anche una riunione a Firenze in un piccolo paesino con chiesa e due o tre case (proprietà di uno dei fratelli Magris di Superstudio), per capire un po’ le future attività della scuola.
C’erano tutti: Sottsass, Mendini e anche Bill Viola, che poi divenne il grande videoartista americano.
Eravamo tutti dei giovani architetti con voglia di parlare di architettura anche se non attraverso un progetto disegnato per essere costruito.
Un altro grande tema della vostra non-architettura è il rapporto con lo spazio urbano. Come si è evoluto il tuo approccio con questo concetto?
Il mio primo lavoro fu la trasformazione del Palazzo d’Arnolfo nel centro di una delle “città nuove” di Cosimo De Medici, S. Giovanni Valdarno: i loggiati del palazzo rinascimentale vennero chiusi da mie pannellature, a strisce diagonali nere e argento, per ospitare una mostra d’arte contemporanea con molti artisti del tempo e molti dell’arte povera…
Poi ci fu la trilogia Carabinieri, Milite Ignoto e Grazia & Giustizia fatte a Novara, Ferrara e Palermo. La scritta in cartone Grazie & Giustizia fu portata in processione accompagnata dalla musica della M.E.V. e buttata in mare.
L’anno successivo, nel 1969, a Como nella piazza del Duomo feci un’installazione dove stesi della biancheria ad asciugare…
Oggi come ti approcci allo spazio urbano? Ci sono degli esempi di artisti o architetti che ti incuriosiscono?
Ad esempio le cose che ha fatto Kounellis in piazza del Plebiscito a Napoli sono meravigliose: aveva appeso all’interno del soffitto del loggiato armadi vecchi, era bellissimo. Ecco, quando l’artista si cimenta con il tessuto urbano batte qualsiasi architetto.
Il mio dialogo, fin da quando studiavo architettura, fu sempre più intenso con gli artisti della mia generazione. Quindi ho sempre frequentato le gallerie d’arte dove gli artisti visivi parlavano delle loro ricerche lavoravano il linguaggio visivo della mia generazione, ovviamente spesso senza addentrarsi in livelli di carattere spaziale o urbano ma indicandoti la strada che è quella di autocostruirsi la traduzione del proprio pensiero, anche se a volte potrebbe risultare effimera.
A proposito di effimero o nascosto, una cosa che mi ha incuriosito particolarmente e affascinato è stata l’attenzione dei radicali verso la progettazione di „architetture nascoste“ come le discoteche. Conosci quei progetti (Mach2, Space Electronic, Bamba Issa, Piper di Torino e di Roma, Altromondo di Rimini, Bang Bang…)? Che ne pensi? Ti sei dedicato a questo tipo di architetture dell’evasione? Per alcuni Radicals è stato l’unico progetto concreto realizzato… e per alcuni di loro pensare alla progettazione di un locale era come progettare una città.
Io non mi sono mai occupato di questo tipo di architetture ma le ho utilizzate. A me piaceva molto lo Space Electronic. Mi piaceva entrare saltando da un sasso all’altro perché l’ingresso era allagato e una volta superata questa “difficoltà” c’era un bancone enorme che era un acquario con dentro dei piragha. a cui il barista dava ogni tanto da mangiare…
Ci portai anche le mie figliole, appena adolescenti…
Che altri locali frequentavi?La notte io poi frequentavo altri luoghi: in piazza Pitti c’era un caffè che era il ritrovo di tutti i nottambuli ovvero di tutti coloro che dopo aver cenato o esser andati cinema o a teatro,andavano lì. E passavano da Gregotti a vari artisti, architetti e anche attori, c’ho conosciuto Benigni, Gassman e altri. Lì comunque io ci andavo anche per lavoravo: uscivo verso mezzanotte e contrattavo con i giovani politici fiorentini il finanziamento delle mostre che progettavo Hans Hollein, Robert Venturi, Richard Maier… la prima mostra del Superstudio…
Ero spesso anche a Milano, dove ho avuto uno studio per 17 anni.
E dove stavi a Milano?
Lo studio era in Brera, mi incontravo con Ugo La Pietra e spesso dormivo anche a casa sua. Lui faceva la rivista Inpiù ed era bravissimo. Il suo contributo enorme ai Radicali è stato inventare la rivista per comunicare il nostro pensiero, prima che Casabella vedesse Mendini come direttore. Vedevo spesso anche Ettore Sottsass e Fernanda Pivano e da loro conobbi Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti e tanti altri…
Oggi le riviste ospitano invece soltanto progetti da fare o appena costruiti, mentre tutto il dibattito architettonico, integrato alla sperimentazione e alle arti visive, è escluso da questi organi ufficiali dell’architetto per bene (ride, ndr).
Ma è normale credo perché le riviste sono finanziate dai produttori di materiali da costruzione e arredi, quindi si rivolgono solo all’architetto credente e praticante, e noi Radicali eravamo credenti e poco praticanti.
Uno dei lavori che più mi ha colpito del tuo operato è stato „Paper“ con questi strisce di carta da tagliare per conquistarsi lo spazio, un’idea semplice e geniale. Com’è nata?
Non so com’è nata, mi venne e decisi di farla! Era una grande aula per conferenze e andammo a prendere dai giornali di Minneapolis la fine del rotolo di carta della stampa, che viene sostituito prima che finisca del tutto. Tagliammo il rotolo a strisce, tendemmo dei fili metallici e con lo scotch appendemmo le striscie di carta. Poi comprammo 100/150 forbici che vennero date a chiunque entrasse e tutti dovevano inventarsi un itinerario per costruire anche uno spazio comune, all’interno del quale avrei poi fatto la conferenza sul mio lavoro.
E come ti sei avvicinato invece alla land art? Come ti sei imbattuto in Robert Smithson e Gordon Matta-Clark
Smithson l’ho incontrato a Roma alla Galleria L’Attico per fare l’Asphalt Rundown. Lo incontrai di nuovo in America per caso a South Lake City e poi abbiamo passato 3-4 mesi a New York insieme, dove mi introdusse alla galleria John Weber che era la chiesa dell’arte concettuale e della land art.
Qui io feci una mostra mia personale, 4 mesi prima di Italian New Domestic Landscape a cui io ero stato invitato ma rifiutai.
Perché?
Sempre perché ero insieme ad architetti o a designer che facevano la pura professione. Io non mi sentivo catalogabile in nessuna delle due categorie, io mi sentivo più un artista visivo con l’interesse verso lo spazio e con quel tipo di libertà. Imprigionarmi o nella professione del designer o in una mostra di designer non mi interessava.
Io mi sentivo in dialogo con Bob Smithson, Gordon Matta-Clark, James Wines ma non con i Radicali.
Con Gordon come ti sei incontrato?
Ci incontrammo a New York e anche lui aveva avuto un’esperienza simile alla mia. Anche lui si era laureato in architettura e si era preso la licenza professionale come me… a ripensarci forse abbiamo preso la licenza più per spaventare i colleghi che per altro!
Senza conoscerci entrambi avevamo già iniziato a lavorare nelle smagliature del tessuto urbano, rammentandole con le nostre osservazioni temporanee: Gordon Matta sfondando muri di edifici in corso di demolizione e io utilizzando edifici abbandonati e rinaturalizzandoli con ghiaccio o creta o arbusti.
Facevamo lavori molto simili, pur senza esserci mai conosciuti e percorrevamo itinerari molto simili, amando l’architettura e lavorandola con gli strumenti dell’arte.
(Nel frattempo un tuono ha fatto saltare la luce nella casa di Gianni, non era una performance, ndr)
La land art (o meglio ancora la public art) è una chiave di lettura per salvare lo spazio urbano?
Certamente! È una strategia che tiene conto del divenire di un linguaggio visivo che poteva trascriversi anche in architettura.
Il cittadino deve riconoscersi nello spazio urbano e per farlo secondo me deve provare un senso di appartenenza verso quel luogo: non è che la land art o la public art possono sviluppare questo sentimento?
Sì un po’ sì, ma sono cose un po’ istituzionalizzate, come la manifestazione di luci a Torino… le cose possono essere anche molto trasgressive. L’80 percento delle cose che facevo io non avevano permessi le facevo e basta, semmai aiutato dall’università riuscivo a ottenere i permessi necessari.
Oggi molte cose possono essere realizzate anche facendo braccio di ferro con la scala dell’architettura e della città, però questi interventi sono troppo “minimali” quasi timidi: non si sfida la scala della città o dell’edificio. Sono solo delle piccole notazioni a margine.
Come si può sfidare l’architettura e rendere tutto sostenibile anche con la natura? Il rispetto è anche un altro tuo punto fermo.
Io avevo viaggiato per deserti, negli Stati Uniti, e pensavo di poter trovare il mio “foglio bianco” sul quale disegnare la mia “visione”. Invece scoprii che i deserti erano già stati percorsi e concettualmente definiti dai nativi nomadi: per esempio quella che noi chiamiamo la Monument Valley in Utah per il nativo, abitante di quei luoghi, è la Valle dei Templi, quindi architettura!
Per loro le grandi grotte, come Mesa Verde, in cui costruiscono il loro villaggio, sono ancora la loro architettura, pubblica e domestica.
Interagisce con il paesaggio e a esso è ispirata la tua casa all’Elba, ci parli di come l’hai progettata? So che ci sono diversi contributi di altri architetti…
Esatto! Raccoglie in qualche modo questa mia esperienza. Era una piccola costruzione (ormai un rudere) usata dal contadino-pescatore per tenere la rete da tonni, che la si butta verso la fine di aprile e la si toglie a fine luglio, finito il transito dei tonni che risalgono il mediterraneo. Io la ripulii dai rovi, ma non volevo rompere l’equilibrio creato nel frattempo dalla natura, volevo solo fare un po’ di spazio per me la mia donna e miei figli. Anche tutt’oggi questa casa non si vede perché è perfettamente integrata nel paesaggio che non è stato minimamente modificato. Ci sono una parete in muratura, con un caminetto, disegnata da Sottsass, un altra parete è disegnata da Mendini con al centro un mosaico… una banderuola disegnata da Branzi…un paio di tavoli di Ugo Marano… Mendini è stato l’unico a risiedere lì per un intero mese…un giorno mi telefonò e mi disse “Gianni vorrei invitarti a cena a casa tua” Io ero a Firenze e ci andai…
Quanta natura, quanto paesaggio e quanta architettura ci saranno nella mostra che ci sarà prossimamente a Milano da Mega?
Lo spazio è piccolissimo e farò vedere una cosa che ho pensato alla fine della anni 60 ma che non ho mai realizzato: sarà un grande stendardo appeso dall’alto e che dirà:
“ SPAZIO
VUOTO
RISERVATO
A
GIANNI PETTENA”
Vieni spesso a Milano? Che ne pensi di questa città?
Una o due volte al mese passo da Milano… mi è sempre piaciuta…. Tornando dall’America, eravamo indecisi se traferirci a Roma o a Milano e decidemmo di tornare a Firenze, a metà strada … è stato un modo per non scegliere….