Prima ancora che il Maxxi inaugurasse, Domitilla Dardi curava già mostre di design nei suoi spazi. In quasi dieci anni ha costruito a Roma un territorio del design autonomo dal mondo milanese, anche se in un clima di stretta collaborazione. Vincenzo De Bellis l’ha nominata quest’anno curatrice della sezione design di Miart, Object, dall’8 al 10 aprile (a Roma potrete incontrarla qualche giorno prima, il 23 marzo al Maxxi, per un talk con la star del graphic design Michael Bierut). Il suo invito alle gallerie per il Miart è stato subordinato a due imperativi: fare ricerca e individuare i maestri di domani. Sempre impegnata a comprendere quali sono i nuovi modelli produttivi e progettuali, Domitilla ha stretto fortissimi rapporti con le gallerie vecchie e nuove, che oggi rischiano più delle industrie. In queste righe ci confessa anche due difetti tremendi: la meteoropatia e una perniciosa addiction alle puntarelle.
ZERO: Iniziamo dalle presentazioni.
Domitilla Dardi: Domitilla Dardi, nata Roma nel 1970.
Che percorso scolastico hai fatto?
Liceo classico, laurea in Lettere con indirizzo Storia dell’Arte alla Sapienza di Roma (tesi sugli architetti della Rivoluzione Francese), dottorato di ricerca in Storia e Critica dell’Architettura con Renato De Fusco a Napoli.
Ti ricordi cosa è stato che ti ha avvicinato al mondo del design?
Un libro. Ma, per strano che possa sembrare, non scritto da altri, bensì un libro di cui sono stata incaricata io. Si trattava di una piccola monografia su Achille Castiglioni per la collana Universale di Architettura di Zevi. Me lo propose Tonino Paris e non mi tirai indietro. Fu la scoperta del Paese delle Meraviglie per me.
Quando hai capito e hai deciso che il design sarebbe stata la tua professione?
Studiando per quel libricino ho capito che si trattava di un mondo in parte ancora inesplorato, nel quale mi sentivo come un pioniere, soprattutto provenendo io dalla storia dell’arte e dell’architettura dove esiste una tradizione di studi storiografici ben più frequentati. In quei campi non mi sarebbe mai capitato a 28 anni di avere l’onore di scrivere di un maestro assoluto come Castiglioni. E men che mai di ricevere da lui in persona una telefonata per complimentarsi del risultato! All’inizio pensai si trattasse di uno scherzo telefonico…
Visto che Roma e il design contemporaneo sono praticamente agli antipodi, volevo chiederti come si sente un appassionato in questa città, se un pesce fuor d’acqua o meno.
Esistono molti tipi di design: industriale, artigianale, di speculazione e ricerca, di servizio, materiale e immateriale etc. In realtà il design è ovunque e quindi ogni territorio ha il suo patrimonio da scoprire per chi studia e ama questa materia. Roma è la città più stratificata della storia e la sua ricchezza in termini di produzione di materiali, tecniche e oggetti è millenaria: impossibile non sentirsi stimolati.
Prima che arrivasse il Maxxi quali erano gli appigli per il design a Roma, tra gallerie, librerie e shop?
Come ho appena detto, dipende sempre da che tipo di design stai indagando. Roma conserva tesori di ogni tipo, suppellettili di antiche civiltà, così come capolavori delle arti decorative. Certo poi ci sono stati anche i negozi storici: penso all’Emporio Floreale, o ai Magazzini Forma e Memoria – ideati da Pino Pasquali. Ma anche ai flagship store di grandi aziende del Made in Italy e a uno dei primi concept store della Capitale, Spazio Sette. E poi qui si trovano archivi eccezionali nel mondo della sartoria di alta moda, costumi e scenografie legate a Cinecittà, le teche Rai. Senza parlare di quella meraviglia che sono le case museo.
Quali sono adesso, sempre Maxxi escluso?
Esistono più luoghi dove vengono esposte mostre interessanti legate ai temi del design. Ogni stagione offre qualcosa di diverso e si possono trovare diverse manifestazioni di rilievo. Per esempio al Museo dell’Ara Pacis sono state ospitate mostre importanti (Prouvé, Munari, Mendini, solo per citarne alcune). E poi esistono anche fondazioni private che sposano progetti di design: nel 2012 con la Fondazione Volume! abbiamo portato la mostra di Giulio Iacchetti, Cruciale, addirittura dentro una chiesa (Santo Stefano Rotondo) e fu una meraviglia assistere all’incontro tra antico e contemporaneo, sacro e profano; poi con la IMF Foundation abbiamo realizzato DOS. Disegnare Oggetti Sonori esposta nei foyer dell’Auditorium di Renzo Piano. Senza dimenticare il Pastificio Cerere a San Lorenzo. Di sicuro anche le gallerie sono un punto di riferimento e a Roma ci sono due punte di diamante: Giustini Stagetti/Galleria O. e Secondome.
Arriviamo al Maxxi quindi, come sei entrata a far parte del team del Museo e cosa hai curato fin ora?
Nel 2007 il Maxxi non era ancora il museo che conosciamo oggi, il progetto di Zaha Hadid era ancora in progress, ma la lungimiranza della direzione aveva già iniziato il suo percorso espositivo nelle caserme dove oggi risiedono la biblioteca e il ristorante. Così chiesi a Margherita Guccione se fosse possibile introdurre il tema design. Iniziammo con un alfabeto, un piccolissimo ciclo di oggetti associati alle lettere dell’alfabeto per avvicinare il pubblico nascente del museo al tema. Poi il museo è stato inaugurato nel 2010 e tutte le volte che uno dei temi portanti del Maxxi Architettura è stato affrontato c’è stato lo spazio per un approfondimento sul design. Sia quando si sono affrontati singoli autori (Rietveld, Pesce), ma anche i grandi temi (il riciclo di materie e pensieri con i Campana e i Formafantasma, o i designer migranti con Design Destinations). E poi abbiamo creato un modello di collaborazione inedito con Alcantara: insieme a Giulio Cappellini curiamo da 6 anni questo progetto di co-produzione, nel quale azienda e museo lavorano insieme per indagare possibili strade progettuali che uniscono le potenzialità di questo straordinario materiale ai temi di ricerca del design contemporaneo, con una selezione di autori sempre più ricca.
Cosa curerai in futuro al Maxxi, puoi già farci qualche anticipazione?
Continueremo la collaborazione con Alcantara e ci dedicheremo sempre alla trasmissione delle storie del design, quest’anno con un ciclo di lezioni in autunno che porteranno a Roma interpreti di grande rilievo.
Spostandoci di qualche chilometro più a Nord, qual è il tuo rapporto con Milano, che del design è capitale?
Milano è una città che mi ha sempre accolto con grande generosità. Ho tantissimi amici lì, molti legati al mio campo di lavoro e questa non è una cosa scontata. È ovvio che è una piazza completamente diversa rispetto non solo a Roma, ma a qualunque altra città del Mondo: a Milano inauguri una mostra e arriva il gotha della stampa specializzata e hai una facilità di frequentazione e incontro, data dalla concentrazione dei percorsi, inimitabile. Il motivo per il quale tutti noi lavoratori del design continuiamo a non perderci il Salone è principalmente per la dimensione di villaggio globale che questa città sa immancabilmente offrirci. E stare tra simili, parlando lo stesso linguaggio, almeno una volta all’anno, è sempre un conforto. Dopo di che torno sempre volentieri a casa mia, a Roma: sono meteoropatica e puntarella-dipendente!
Parlando sempre di Milano, nella sezione Object del prossimo Miart 2016 sono invitate quelle gallerie di design che tu consideri fondamentali nella produzione del design di ricerca, non più legato solo alla produzione industriale: ci puoi dire quali sono e perché il loro ruolo è così importante?
Le gallerie sono 14 e provenienti da tutta Italia, più un paio di straniere. Tra le milanesi ci sono Nilufar, Luisa Delle Piane, Erastudio, Dimore Studio e Camp; mentre da Roma arrivano Giustini Stagetti/Galleria O. Roma e Secondome. Sono gallerie che da sempre investono non solo sul design storico, ma anche sulla scoperta di nuovi territori e autori. Il requisito di quest’anno per aderire al progetto curatoriale era, infatti, proprio quello di individuare i “maestri di domani” e indicarli al pubblico dei collezionisti come un investimento sul futuro. Ne è emerso un ritratto composito e molto variegato del design contemporaneo, dove risulta che il lusso più grande non è nei materiali o nelle lavorazioni impiegate quanto nel tempo dedicato allo sviluppo di un progetto e nel credere a un’idea. In questo i galleristi sono rimasti tra i pochi a ricoprire un ruolo che negli anni Cinquanta era una prerogativa dei produttori italiani.
Chi sono i designer italiani più interessanti di questo tipo, molto vicini alle ricerca artistica?
In questo specifico ambito, tra gli italiani ci sono molti autori con una spiccata attenzione speculativa e di ricerca: i primi che mi vengono in mente sono i Formafantasma, Andrea Anastasio, Paolo Ulian, Maurizio Montalti, Francesca Lanzavecchia, Francesco Faccin, Giovanni Innella, Gionata Gatto, Giorgia Zanellato. Ma la lista è davvero molto più lunga di così.
I più interessanti in generale?
Tutti quelli che trovano il modo di rendere fruibili e condivise le loro ricerche e che stanno lavorando per portare nelle industrie una nuova visione. C’è molto bisogno nel mondo della produzione di un nuovo modo di vedere le cose e sono sempre di più i designer che si sottraggono alla logica della più banale richiesta di un prodotto stereotipato, pensato solo per minimizzare il rischio d’investimento degli imprenditori.
Quelli su cui scommettere per il futuro?
Quelli che stanno pensando un modo per progettare alternative possibili al sistema attuale, partendo dai suoi ingranaggi e processi. Molti di loro non progettano mobili o oggetti, ma sistemi e procedure, istruzioni per l’uso e modelli. Il loro lavoro vive di scienza e di arte in scambio continuo. E soprattutto non è classificabile in maniera univoca: ogni storia è a sé.
Nella mostra Design Destination al Maxxi avevi invitato sette designer che per fare ricerca sono andati all’estero. Pensi che la situazione si stia invertendo o l’Italia resta sempre un paese difficile per questo genere di produzione più indipendente e sperimentale?
È davvero un problema ampio che investe un impegno programmatico e politico. Tutti loro vanno dove esiste un terreno per far attecchire la loro ricerca. In Italia l’università, per esempio, tende ad avere un atteggiamento endogamico nella gestione dei suoi fondi. All’estero, al contrario, puoi entrare in programmi sostentati economicamente o nella docenza anche se sei un outsider.
Perché ritieni così importante la dimensione simbolica del progetto?
Perché l’essere umano è un animale complesso e sin dall’inizio della sua storia ha avuto bisogno di andare alla ricerca di nutrimento, ma anche di portare una finestra sul mondo dentro la sua caverna.
L’ultimo libro di Chiara Alessi, Design senza designer, mette in questione, tra le altre cose, i luoghi comuni sul Made in Italy. Tu che ne pensi, che cos’è oggi il Made in Italy?
Resta una storia di uomini e condizioni uniche al mondo, dove nello stesso distretto produttivo convivono tante professionalità diverse – tecnici, progettisti, artigiani – in grado di incontrarsi, raccontarsi e affrontare problemi. L’open source in Italia è sempre stato nelle piazze ben prima che nella rete. E questo non si cancella facilmente.
Hai scritto un libro su Castiglioni, che pur essendo industrial designer per eccellenza non si può dire che non fosse un grande sperimentatore. Esiste ancora una possibilità del genere oggi?
Certamente! Il mondo del design è pieno di questi esempi. Molti oggi lavorano su più fronti: nell’industria, in studio in autoproduzione, per progetti speciali con altri autori, in residenza per periodi limitati. Tutto sta nel capire le regole e gli strumenti dei rispettivi campi e utilizzarli al meglio.
Tornando al prossimo futuro romano, a breve sarai impegnata in un incontro con Michael Bierut che presenterà un libro dal titolo lunghissimo: How to use graphic design to sell things, explain things, make things look better, make people laugh, make people cry and (every once in a while) change the world, davvero il graphic design può fare tutto questo?
Questa è una domanda che porrò a lui. Ma sono certa che la grafica ha un potere enorme sulla percezione che abbiamo delle cose, spesso superiore a quello che crediamo.
Il tuo designer preferito in assoluto?
È una domanda che detesto perché ce ne sono troppi. Ma se devo rispondere per forza, torno al mio primo amore: Achille Castiglioni.
C’è un libro, un documentario o qualcos’altro che consiglieresti a un non appassionato di design per comprendere ed entrare in questo mondo?
Ogni libro di Bruno Munari: il più grande a spiegare con sublime semplicità la complessità di questo mondo e del mestiere di chi progetta. Il saggio Le ceramiche delle tenebre di Ettore Sottsass.
E poi la visione di Power of Ten degli Eames.
Qual è la mostra più bella e interessante che hai visto ultimamente in assoluto?
Rinascimento di Adrián Villar Rojas alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino.
Quella più bella e interessante a Roma?
Una Dolce Vita?, curata da Irene de Guttry e Mapi Maino, prodotta dal Museo d’Orsay di Parigi, dedicata alle arti decorative italiane. Materiali eccezionali finalmente raccolti in un’unica mostra, al Palazzo delle Esposizioni.
Qual è il tuo museo preferito di Roma?
(A parte il Maxxi) il Museo Etrusco di Villa Giulia: lì c’è il design delle epoche passate e l’eleganza degli etruschi è un punto sommo della creatività umana.
Un bar e un ristorante che ti piace frequentare quando non sei al lavoro?
Mangio quasi sempre a casa o da amici, quindi quando esco è per andare o in un posto accogliente per incontrare qualcuno o a mangiare qualcosa che non saprei cucinare da sola. Nel primo caso vado da 20mq: è un locale che mi piace soprattutto perché ha iniziato la sua storia in un mercato, quello di Testaccio, portando tra i banchi della frutta un design quotidiano e dal prezzo contenuto. Il buon design, infatti, non è necessariamente costoso. Per mangiare al di sopra del livello casalingo poche volte all’anno mi permetto di andare a scoprire quello che fanno alcuni giovanissimi chef, cresciuti e formati nel Mondo, ma sedotti dalla cucina romanesca. Di recente ho mangiato molto bene da Alba Esteve Ruiz, al ristorante Marzapane. Appena fuori Roma consiglio una gita a Labico, dallo chef Antonello Colonna: un luogo incredibile, tutto da scoprire, dove la raffinatezza di una cucina stellata è impastata con la verità delle radici contadine.
Il tuo scorcio preferito di Roma?
Sarà banale, ma la discesa dal Gianicolo è sempre quella che mi apre il cuore.