In un momento in cui proliferano gli pseudoreportage e un engagement di maniera, in cui migliaia di fotografi/curatori di scarsissime letture riempiono giornali e gallerie di immagini su paesi disgraziati che non dicono niente, il lavoro di Francesco Jodice emerge con una profondità e una consistenza culturale e politica straordinaria, perché è costruito sui dubbi, sulle domande ma anche sulle prese di posizione. Fortissimo lettore, maniaco di fumetti Marvel, Francesco ha rivelato nell’ultimo libro Humboldt Books, American Recordings, uno straordinario talento narrativo: riesce a raccontare un fenomeno incerto e complesso come il decadimento dell’egemonia culturale americana e l’atteggiamento di incredulità e riluttante accettazione che l’accompagna citando testi e immagini che con ogni evidenza gli appartengono fino al midollo.
Panorama è una grande mostra a cura di Francesco Zanot organizzata in cinque stanze che scandiscono sei progetti importanti dal 1995 a oggi di Francesco Jodice, e un corridoio di 50 metri che ospita un altrettanto lungo tavolo-installazione progettato da Roberto Murgia, dove si possono attraversare, guardare, sfogliare tutti gli altri progetti esposti nelle forme più eterogenee. I sei progetti prescelti sono ovviamente What We Want, la grande ricognizione fotografica che Francesco Jodice conduce da vent’anni sugli spazi urbani, The Secret Traces, il progetto di pedinamento,Citytellers, i tre film su San Paolo, Aral e Dubai, Solid Sea di Multiplicity, Ritratti di Classe, un carotaggio dello stato della società italiana attraverso i ritratti scolastici, e The Room, l’installazione che compone i ritagli di centinaia di titoli di giornali in un inventario impressionante.
ZERO: Come hai conosciuto Francesco Zanot?
Francesco Jodice: L’ho incontrato diversi anni fa, come direttore della scuola di fotografia di Forma Milano – dove tuttora insegno, oltre che alla Naba e alla Scuola Holden di Baricco a Torino. Nonostante all’epoca lui fosse veramente molto giovane ho subito avuto l’impressione di essere di fronte ad un tipo di curatela e critica fotografica non in linea con la tradizione italiana: cioè non autoreferenziale, non legata esclusivamente al sistema culturale italiano della fotografia, ma molto interessata a vedere la fotografia come un oggetto interposto fra i vari dispositivi dell’arte. Credo che a sua volta si sia interessato al mio lavoro proprio perché non ero un fotografo tradizionale, anche se ero in possesso di una conoscenza della cultura fotografica importante e seria.
Ho notato che alcuni dei progetti in mostra sono ancora attivi, in progress. Come mai?
What We Want, o anche ad esempio The Secret Traces, sono delle scatole metaboliche all’interno del quale io continuo a gettare progetti. What We Want è il mio vero grande progetto fotografico, e quindi al suo interno faccio anche delle verifiche sul mutamento del mio rapporto con la fotografia e prendo atto dei cambiamenti dei codici linguistici dei media, o dei dispositivi culturali che riguardano la fotografia. Ma è anche un progetto che reagisce ai mutamenti storici: ad esempio tra il 1996, l’anno della sua nascita, e il 2001 presta grande attenzione ai fenomeni legati alla socialità e all’urbanesimo, mentre dall’undici settembre in poi inizia a essere sempre più influenzato dalle questioni geopolitiche.
Oggi il progetto contiene opere realizzate in 150 metropoli differenti, e continua a essere fondato sul concetto di comparazione di fenomeni simili in distinte parte della terra: un’analisi sui comportamenti delle comunità, su come queste agiscono per ragioni di natura culturale e religiosa, politica o finanziaria. Del resto il nome What We Want, insieme al sottotitolo Landscape is a projection of people desire, nasce dall’idea di vedere il paesaggio come la proiezione dei desideri delle collettività, della coppia, della famiglia, del consorzio umano, dell’azienda, del quartiere. Un paesaggio non governato dal basso, ma, come dire, che esplode dal basso verso l’alto: ad esempio oggi gli eventi di Parigi e di Bruxelles hanno generato una modifica spaziale importante, che le nostre stazioni ferroviarie non sono più accessibili a tutti. Una dimostrazione di come il paesaggio venga fisicamente e moralmente cambiato in funzione di queste di queste azioni.
Quindi immagino che ci sia spesso un conflitto latente dietro l’immagine.
Sì però tieni conto che in tutti i miei lavori anche più recenti di geopolitica per me non è rilevante mostrare attraverso i film e le installazioni o le fotografie lo stato delle cose, ma piuttosto delle anomalie, degli scarti, delle dimenticanze: ad esempio in What We Want non c’è nulla che faccia mai direttamente riferimento all’undici settembre, ma piuttosto di una serie di strane declinazioni che il nostro quotidiano ha assunto a partire da quell’evento in poi. Siamo a distanze siderali dal reportage fotografico, uso le fotografie come un dispositivo per imparare a costruire delle domande, per migliorare i propri dubbi: in realtà non basta mai una fotografia o tre, c’è bisogno di guardarne una sequenza molto ampia se non tutto il progetto, ed è soltanto attraverso questo mosaico di frammenti che si comincia davvero ad avere dei dubbi. Ed è per questo che a Camera il progetto è mostrato attraverso dei glossari, degli atlanti, e dall’altro lato con una sola opera finita formalizzata di dimensioni preponderanti. La stanza si presenta come una biblioteca, dove con molta noia sei messo a confronto con due leggii e due grandi libri che contengono tutti i lavori, accompagnati ciascuno da un testo di geopolitica che permette al visitatore di farsi un’idea. Ognuna delle stanze della mostra in realtà è temporalmente inaffrontabile, se il visitatore volesse leggere tutti i testi, vedere con attenzione le opere. Il video Solid Sea, di Multiplicity, dura mezz’ora, The Secret Traces sono 5 film, Citytellers ha tre film per la durata di quasi tre ore complessive, nella stanza dei giornali di The Room ci sono 400 titoli da leggere: non è un errore progettuale, Zanot e io volevamo che venisse fuori questo aspetto, l’inaffrontabilità del contemporaneo, la frustrazione dell’ingovernabilità dei frammenti, ma dall’altro lato questo piacere quasi pornografico, erotico: non averne mai abbastanza dell’infinito, il potere dell’incompiutezza.
Come gestisci un archivio del genere?
Ma sai, il problema dell’archivio fotografico è un problema irrisolvibile. Ci sono fotografi che hanno gli archivi molto ordinati e a me fanno un po‘ tristezza. Qualsiasi artista fotografo quando ritorna sui propri negativi di vent’anni prima vorrebbe ritagliare, ricoprire, riprodurre, il ciano diventa verde: ci deve essere questa libertà di immaginazione, e poi l’archivio è in continua tensione con la fenomenologia del contemporaneo. Recentemente sono tornato sul testo di Latour sull’invenzione della modernità e ho pensato che una parte dei miei lavori sono nati vent’anni fa confrontandosi con le teorie della post-modernità. Molto banalmente un testo di riferimento per me era Underworld di Don De Lillo. In questo momento probabilmente i testi di Latour mi costringono a rivedere questo archivio. Quando sei arrivata ti ho detto che eravamo in crisi nera perché eravamo stranamente in grande ritardo: in genere non sono mai in ritardo, anche per le mostre importanti o molto articolate, ma in realtà il ritardo è dovuto alla bellezza di perdersi in vent’anni di lavoro. Non è stato possibile fare dei semplici carotaggi, prendere un pezzo e rimetterlo in scena così com’era. A parte Solid Sea di Multiplicity, tutti gli altri lavori sono stati ripensati, tradotti, immaginati secondo una metodologia del display che deve tener conto della della crisi in atto, ma in modo positivo, come un gioco. È stato un processo costruttivo molto divertente, implementato dall’invenzione del tavolo macchina di Roberto Murgia. Pensa che in teoria avremmo dovuto rifare il sito in questi mesi, ma abbiamo rinunciato perché la mostra ha riscritto l’archivio: lo rifaremo dopo.
Come funziona la distribuzione dei tuoi film?
Per quanto riguarda i film del progetto Citytellers, quindi San Paolo (2006) Aral (2008) e Dubai (2010), hanno sempre avuto questa desiderata e ricercata ambiguità per cui hanno una circolazione sia all’interno del sistema dell’arte – quindi prevalentemente biennali fondazioni e musei – sia nel circuito cinematografico, e quindi Festival del cinema, broadcasting televisivo: in realtà queste due cose ho cercato sempre di non tenerle indipendenti ma di renderle contemporanee, come nel libro di Mousse. Alla Biennale di San Paolo nel 2006, quando presentai il primo film, insistetti sull’idea che il progetto non era il film come oggetto d’arte, da esporre tra le stanze chiuse del museo, ma che bisognava tenere un regime di vasi comunicanti tra i media. La biennale aveva questa strana forma di inaugurazione: il primo giorno opening esclusivissimo, il secondo giorno inaugurazione per le autorità, il terzo giorno per i giornalisti, il quarto giorno riservato alle pulizie e quinto giorno, finalmente l’apertura al grande pubblico. Per me questi 5 giorni di ritardo sull‘access to knowledge erano inaccettabili, stabilii che il progetto per me era proprio sul bypassare questo problema, e ottenni che il mio film andasse in tv la sera dei vip. Per cui la prima sera il film era dentro l’edificio di Oscar Niemeyer nella sua forma aulica di installazione cinematografica di un’opera d’arte in un museo blablabla, ma era in tv a Rete Globo che come al come dire Raiuno in prima serata con un documentario qualsiasi sulla città: e quindi tutta l’opera si deformò per assecondare quel sistema: durava 47 minuti contati come un documentario televisivo, aveva quattro capitoli perché doveva accettare tre intervalli pubblicitari all’interno. Come un parassita, prendeva la forma di un altro dispositivo narrativo, il documentario, per poter aggredire un luogo, la televisione, che per me in quell’occasione diventava la protesi dello spazio museale.
Io non volevo necessariamente fare film, ma mi interessa il potere di dialogo e di giacitura che il filmmaking aveva rispetto alla fotografia. Gore Vidal, nella sua autobiografia Navigando a vista dice: io parlo attraverso il cinema perché il cinema è l’unica lingua condivisa dei nostri anni.
Perché allora il progetto Citytellers ha un inizio e una fine?
Dopo Citytellers ho continuato ad utilizzare il filmmaking con la stessa costanza, ma la crisi economica, la bolla della Lehman Brothers, ha reso difficile proseguire con un formato così costoso: non ho più trovato sponsor per delle produzioni che duravano circa 2 anni, con una lunga fase di ricerca e sopralluoghi accurati. Francamente mi interessa anche fare altre cose, negli ultimi anni sto cercando di raccontare l’indisponibilità dell’Occidente a confrontarsi con il suo declino. Il film breve Atlante che ho presentato all’interno della mostra Proportio al Palazzo Fortuny durante l’ultima Biennale e la video installazione su 5 schermi American Recordings, esposta al Castello di Rivoli in autunno, nonostante la totale diversità, sono entrambi progetti che mettono a confronto reperti prodotti della cultura audiovisuale occidentale degli ultimi 50-60 anni, cioè la storia del secolo breve prodotta per conquistare il mondo, ma che quasi torna indietro come un boomerang.
Anche nel libro che ho scritto per Humboldt Books, American Recordings, ho cercato di raccontare come l’impero americano sia stato effettivamente uno dei più grandi della storia, ma grazie a un’arma impropria, l’immagine. Gli USA hanno occupato il mondo con il videoclip musicale, il cinema, i serial televisivi, le sit-com degli anni 70, il documento videogiornalistico. Penso al famoso inseguimento di O.J. Simpson o al pestaggio di Rodney King, al filmato Zapruder dell’omicidio Kennedy, in qualche modo hanno costruito il lessico familiare della cultura dell’intero Occidente, ma anche sudamericano e del Far East.
La cultura europea non è in crisi quindi?
L’Europa è stata la Suburbia, il ghetto, la periferia povera di quel codice linguistico. Noi abbiamo prodotto forme di cultura altissima, ma non siamo riusciti a produrre una lingua universale e quindi non siamo riusciti a condizionare la forma del mondo, non siamo riusciti a produrre desiderio, non abbiamo raggiunto questo canone di bellezza irraggiungibile molto erotico, perfino pornografico della cinematografia americana
Dal momento che il tuo lavoro è così appassionatamente legato alla dimensione narrativa, ti sei mai interrogato sulla dimensione più sinistra, pervasiva dello storytelling in tutti i campi? Quella che toglie sostanza alle cose?
Ti rispondo partendo da una coincidenza: la prima idea strutturante che Zanot aveva avuto per la retrospettiva era di costruirla interamente sulle parole chiave: investigazione, networking, partecipazione, antropometria, e tra queste un ruolo predominante aveva lo storytelling. Ma poi abbiamo rinunciato, proprio perché la parola è talmente abusata che non se ne può più neanche sentire il suono.
Lo storytelling è da sempre una mia ossessione, che ha radici nella mia storia familiare. Tutti naturalmente pensano che io sia stato influenzato soprattutto da mio padre (Mimmo Jodice, ndr) e che quindi abbia avuto input straordinari sul piano della cultura fotografica e dell’immagine. Ma mia madre, una lettrice compulsiva e insonne, ha avuto un ruolo determinante nell’inculcarmi la passione per la lettura. Lei ci procurava e da piccoli ci leggeva i fumetti americani della Marvel in inglese, per insegnarci anche la lingua. Il risultato è che la mia soffitta è occupata da 22000 fumetti americani.
Credo che il momento più emozionante della storia dello storytelling abbia preso forma quando due signori ebrei newyorkesi che sono noti con i nomi di Stan Lee e Jack Kirby della Marvel Comics, quella dei vari X-Men, Hulk, Iron Man, gli Avengers, i Fantastici 4, Thor, Spider-Man, Capitan America, hanno inventato la narrativa crossover, che sostituiva alla sequenza lineare tra i fumetti di un singolo personaggio una linearità diagonale tra le serie. Una storia nata su Avengers continuava il mese dopo sul numero 72 di Spider-Man, poi proseguiva sul numero 46 di The Fantastic Four di quello stesso mese e a fine numero diceva che continuava sul numero 56 degli X-Men di quel mese, e solo finito il giro delle testate ti diceva che il successivo sarebbe comparso nuovamente su Spider-Man, per cui tu eri costretto a comprare tutti i fumetti. L’idea che la narrativa sia trasversale per intenderci è come se negli anni 60 tu avessi visto la puntata di Happy Days che continuava sull’episodio di quel mese di Starsky e Hutch che continuava sulla puntata di quel mese di Mork e Mindy o di Twilight Zone per poi tornare sulla puntata di Happy Days. Questa forma fluida secondo me è l’idea più bella della storia della narrazione post Tolstoj, e viene dal fumetto.
In effetti continuo a pensare che la letteratura e il fumetto se la passino meglio dell’arte contemporanea, siano più vitali
Sono d’accordo nel dire che fumetto e letteratura tutto sommato ancora oggi godono di una libertà espressiva, politica e culturale che ad altri sistemi come il cinema e in parte l’arte contemporanea mancano. Il mercato dell’arte è un sistema opprimente, ed è alimentato in parte dalla sua utilità a fini fiscali – è uno spazio privilegiato per l’evasione. Ma attenzione, il mercato dell’arte non è l’arte: io vedo lavori bellissimi, sono appassionato all’opera di artisti come Armin Linke o Adrian Paci. Invece, da insegnante, trovo pernicioso il sistema delle residenze. Ho sempre fatto la guerra a questa pulsione verso la Fondazione Ratti, la borsa di studio, la residenza al PS1: è vero che quella roba lì diventa una specie di corridoio, se le fai sei automaticamente bravo, ma per entrare in quel cerchio magico si è disposti a fare qualsiasi cosa. È molto meglio trovare un rapporto con una galleria in cui credi, che crede in te, e poi lasciare che la galleria venda quelle opere e con i soldi fare quello che vuoi. Le residenze purtroppo strutturano un sistema di servilismo, c’è poco da fare.
Ho il ricordo di un incontro pubblico con te che lanciavi un’invettiva contro i social network, qualche anno fa.
Ma sì, ho spesso fatto, come tu le chiami, delle invettive contro i social network. Sia ben chiaro, il mio non è un discorso alla Savonarola reazionario, sono soltanto incuriosito da quello che accade domani mattina, per cui in realtà la mia invettiva riguarda una sorta di illusione, un fraintendimento che tutti quanti abbiamo vissuto rispetto ai social, e cioè che i social avrebbero un certo punto democratizzato la società. In realtà io ho visto sempre nel costruzione social un dispositivo nichilista e un po‘ nazista per rendere la società sempre meno democratica. All’epoca mostravo gli statement dei social, quelli scritti da loro, e tanto in quelli all’epoca più elitari come Small World, tanto in quelli apparentemente aperti a tutti come Facebook, a un certo punto compariva questo passaggio obbligato: «a protected place where to meet with the people you know». Trovo questa frase di un fascismo spaventoso: c’è un posto già di per sè chiuso e protetto dove incontrarti con le persone che già conosci. È la pura costruzione del familismo, del clan. Alla fine i social servono soltanto per scopare: in sostanza quando mai noi tra i nostri amici di Facebook abbiamo dei cingalesi, dei somali o dei siriani appena sbarcati pezzenti morti di fame: abbiamo tutta gente che ci assomiglia. Tutto sommato una sera in discoteca ubriachi lo becchiamo un senegalese, mentre FB è un posto veramente protetto, anche il finto sconosciuto è, per dirla a modo nostro, carta conosciuta.
Dove vai a bere e mangiare?
Purtroppo, data la mia veneranda età, ho perso la mia vena clubbing. Mi piace molto questo punto della città (via Savona, ndr) un po‘ perché sono a persona di una pigrizia mostruosa, e poi quando non sono in giro per il mondo mi piace fare politiche di quartiere. Sotto casa mia c’è una piazza Berlinguer che già mi fa piacere e c’è uno dei più bei bar di Milano: Gogol and Company. Adesso va molto di moda fare la libreria con bar, ma devo dire che loro a Milano sono stati veramente a quel livello i primi, perché poi la selezione di libri che hanno è favolosa e in più non possono entrare gli hipster. Altri posti sono l’Atomic e il Rocket: persone e luoghi dove vado perché sono i posti che mi hanno adottato, dove tu stavi di notte con gli amici. E poi sono un utente di cinema compulsivo, ma solo cinema di qualità: a Melzo vado al Carroponte. Durante l’Expo a me faceva piacere che ci fosse il Mercato metropolitano, che era un po‘ un circo e con tutta roba di qualità abbastanza normale, però era bello il fatto che ci fosse questo grande spazio comune per Milano e pure il cinema all’aperto. Ah, e poi fondamentale: Otto a via Paolo Sarpi.