Marzia Migliora prende il meglio di Milano e di Torino, e di quello che c’è in mezzo: sul fronte del cibo e dell’abitare propende giustamente per il Piemonte, ma a Milano ci sono Lia Rumma, gli amici e le mostre da monitorare. E Marzia, che attraversa questo spazio come un’unica conurbazione, passando dal suo studio a Valenza, ha portato a Milano un luogo simbolo di Torino, il Palazzo del Lavoro progettato nel 1961 da Pierluigi Nervi. Un edificio che appartiene a quell’esercito italiano di straordinari monumenti al Moderno, e alla fiducia nel futuro che potava con sé, che poi sono stati lasciati decadere fin quasi allo sfascio, e infine destinati all’inesorabile metamorfosi commerciale.
Per come è stata strutturata sui tre piani dell’imponente galleria Lia Rumma affacciati su via Stilicone, la mostra si configura come una grande opera site specific alla maniera di Matta Clark o di Robert Smithson, con le tracce di un luogo, di un lavoro fatto su quel luogo, sono riportate in un altro. Un pezzo di Torino traslato e reinterpretato a Milano, un palazzo dedicato al trionfo del lavoro portato in una galleria che sorge in un’area piena di ex manifatture e densa di tracce del lavoro. Al piano terra un’installazione ricostruisce un modulo del solaio di Nervi, al primo piano delle fotografie ottenute con macchine stenopeiche riproducono lo scenario con un punto di vista bassissimo, rasoterra, e al secondo un video fa „suonare“ l’edificio attraverso i suoi scarti.
ZERO: Il biennio 2015/2016 sembra essere molto importante per te: dalla mostra degli Anni Novanta alla fondazione Ettore Fico a Torino – dove si percepiva quanto era fondamentale il periodo storico per quella generazione di artisti di cui fai parte – Pivi, Favaretto, Cattelan, Vedovamazzei, Moro, Marisaldi, Arienti eccetera; – poi la Biennale di Venezia, con quel padiglione italiano deludente, ma dove la tua opera ci ha lasciato un filo di speranza per il messaggio, la forma e l’impatto visivo; e ancora, recentemente, una tua opera ormai „storica“ esposta all’interno della persona della Macuga, e, infine, questa personale da Lia, che ti ha sostenuta negli anni, Forza Lavoro. Ci racconti com’è nata questa ultima mostra?
L’idea è nata quando sono passata davanti all’edificio proprio mentre era in fuoco, quest’estate, e ho provato la sensazione di volermene occupare. Oltre al fascino che emanano le rovine, quelle contemporanee come quelle antiche, era il suo enorme portato simbolico ad attrarmi. La straordinaria mostra curata da Giò Ponti nel Palazzo del Lavoro, Italia’61, con 21 paesi invitati, fu una specie di expo. Tra gli invitati c’era persino Fontana, con un neon grandissimo. I pilastri di 25 metri di altezza progettati da Nervi rendevano il senso di potenza, di ottimismo legato al lavoro e allo sviluppo.
La forma dell’installazione qui a terra è il disegno di uno dei solai di palazzo Nervi: più precisamente di un suo modulo 10×10. Quelle che sembrano decorazioni sono l’andamento delle linee di forza del solaio. Io le ho riprodotte con mattonelle di carbone, che al tempo stesso sono combuste e combustibile: è un soffitto crollato, ma anche il fondamento su cui si può costruire un nuovo futuro.
Ad agosto già avevi in mente la mostra che avresti fatto qua?
No, il primo progetto è stato quello del video. Nasce da un invito diverso. La fondazione Pinot Gallizio mi aveva invitato a lavorare su Gallizio. Ero andata ad Alba a vedere L’anticamera della morte, che contiene tutti i suoi oggetti di lavoro di erborista, farmacista, chimico: c’era una bilancia, un teschio, uno stampo per pastiglie, in un mobilio angolare tutto ricoperto di nerofumo. È stata questa visione a creare un collegamento con l’incendio del Palazzo del Lavoro, e ho deciso di collegare le due cose, sono riuscita ad entrarci e girare il video e ho ampliato l’omaggio a Gallizio.
Solo dopo sono andata dalla mia gallerista e le ho presentato l’idea della mostra strutturata già su tre piani.
Come vi dicevo prima Nervi progettava e costruiva le casseforme per le nervature isostatiche in cantiere, che hanno un nome: nonna mamma figlia, con un sistema di positivo-negativo analogo a quello del bronzo per esempio. La prima parte della forma, la nonna, è fatta con mattoni accostati, come questi.
Per il video ho chiamato Francesco Dillon, che è partito da un accordo del Requiem di Mozart ma poi ha improvvisatoal violoncello. Inoltre ha fatto risuonare lo spazio utilizzando i detriti come strumenti: batte i mattoni, i tappeti, i cocci, i ferri. Un saluto alla veste originale del Palazzo prima che sia trasformata. Quella mattina c’era una nebbia incredibile che entrava dai vetri sfondati.
In effetti mi chiedevo che effetto fosse questo flou nelle fotografie…
Le fotografie sono ottenute con delle macchine a foro stenopeico che ho ricavato da oggetti trovati nel palazzo: questo per esempio faceva parte del sistema di automazione della scala mobile. Funzionano come una camera oscura ottocentesca. Mi piaceva molto l’idea di usare oggetti del palazzo per fotografare altri oggetti del palazzo, come nature morte di grandi dimensioni.
Quando hai conosciuto Lia?
Nel 2006. Nel 2007 ho fatto la mia prima mostra in via Solferino, Bianca e il suo contrario, gli scheletri che ora sono esposti al primo piano nella mostra di Goshka Macuga alla Fondazione Prada. In quel periodo stavo facendo la mostra Tanatosi alla Fondazione Merz, lei evidentemente capi che riuscivo a tenere uno spazio come quello, e mi chiese la mostra
Com’è iniziato il rapporto con il Museo del 900?
Ho vinto un concorso twist della Regione Lombardia. Cominciai a lavorare quando il museo era ancora cantiere. Interpellai una serie di persone che non avevano a che fare con l’arte (bambini, astronauti come Franco Malerba, giornalisti come Fabrizio Gatti, intellettuali come Stefano Bartezzaghi): sceglievo un’opera, mettevo la persona di fronte e le chiedevo di descrivere le proprie sensazioni e idee. Il risultato è un’audioguida che però non è una guida, ma ti cala nella professione, nella mente di un’altra persona. Era un modo di dimostrare che l’arte se è buona non invecchia.
Continui a frequentare il museo da allora? Ti sembra un museo vitale?
Si, nonostante che sia un museo di arte moderna, e non contemporanea, è attivo, fanno un sacco di cose che attirano il grande pubblico.
E quali altri posti frequenti?
HangarBicocca e Fondazione Prada
E quindi stai a Torino ma sei una specie di city user?
Si, vengo per le mostre mie, quelle che vedo, per gli amici. Ma poi ho lo studio a Valenza, che è vicina.
E dove vai a mangiare e bere con gli amici?
Al Casottel. Alle Cantine Isola, ma non mi piace
A Torino da Quit: aperitivo con tapas freschissime fatte al momento a San Salvario. Tutti gentili, sorridenti, costa poco. Poi a Bra dal mio compagno.
Qualità prezzo del cibo a Torino non c’è paragone. Io poi ho lavorato nella ristorazione una vita: cuoca, barista, cameriera, preparavo i dolci per dei ristoranti.
Sai fare anche i cocktail?
Sì! Pensa che a vent’anni in un bar avevo la cartucciera con i bicchierini di tequila, un caschetto, poi mettevo il caschetto in testa ai clienti e gli facevo la tequila boom boom sulla testa. Comunque mi è rimasta una passione fortissima per la cucina, anche per dolci, biscotti e torte.
ROSSELLA FARINOTTI e LUCIA TOZZI