Dal Link di via Fioravanti al Cassero, Daniele Del Pozzo, classe 1966, originario di Ancona, conosce benissimo l’evoluzione della Bologna degli ultimi vent’anni. Una città nella quale – parole sue – „la cultura sulle diverse identità di genere viaggia più avanti e veloce della politica“, la prima in Italia (nel 1982) ad assegnare una sede e degli spazi sulle bacheche (immediatamente ribattezzate bachecche) a un’associazione gay e lesbica qual era all’epoca il „Circolo di cultura omosessuale 28 giugno“ (poi Circolo Arcigay Il Cassero). E la città di Gender Bender, l'“unico“ festival internazionale dedicato alle rappresentazioni del corpo e delle identità di genere e orientamento sessuale nella cultura e nelle arti contemporanee.
Alle porte della tredicesima edizione (dal 31 ottobre all’8 novembre), ne abbiamo approfittato per farci raccontare da lui (che è direttore artistico del festival da sempre) cosa succederà, ma anche cos’è stato e perché.
ZERO – Che cosa facevi prima di Gender Bender? E che cosa fai oltre a dirigere il festival?
Daniele Del Pozzo – Prima di Gender Bender, insieme con altri aprivo e davo vita al Link; poi conducevo la Libera Università Omosessuale, dirigevo il Festival di Cinema Gaylesbico e il concorso Blowing Bubbles. In seguito, contemporaneamente a Gender Bender, ho progettato e curato le stagioni culturali estive per il Comune di Bologna – bè bolognaestate – e per la Mole Vanvitelliana di Ancona. Recentemente, ho progettato e curato il progetto europeo Performing Gender.
Come sei arrivato al Cassero?
La prima volta, con l’autobus.
Com’è cambiato il Cassero in questi anni e com’è cambiato il vostro lavoro?
Il Cassero è stato fondato nel 1980 e, grazie al cielo, in 35 anni sono cambiati gli spazi (da un piccolo castelletto nel 1982 in via Saragozza a una struttura al centro di un giardino pubblico e di un distretto culturale nel 2002) e le generazioni che si sono succedute al suo interno (ben quattro), così come la cultura e la società italiane. Restano solidi un modello di gestione no-profit, che reinveste in servizi offerti alla città; una vocazione sensibilmente vicina al sociale e ai bisogni delle persone; e una curiosità che spinge continuamente a stringere relazioni con soggetti pubblici e privati, apparentemente molto distanti dal magico mondo dei gay e delle lesbiche.
Dal punto di vista lavorativo, Gender Bender e il progetto europeo Performing Gender, di cui siamo stati capofila, sono stati in questi anni un’ottima palestra per la professionalizzazione di molte figure.
Oggi si parla di „gender“ tutti i giorni, ma quando avete messo in piedi la prima edizione qual era la situazione? E da dove nacque il nome del festival?
Fino a pochi anni fa „gender“ era una parola che girava fra addetti ai lavori, molti dei quali appartenevano al mondo circoscritto dell’accademia, delle teorie femministe e delle comunità gay, lesbiche e trans. In questi anni il termine è diventato quasi di uso corrente, un segno di come siano cambiati in maniera sensibile la cultura e il linguaggio. Nell’uso quotidiano e maggiormente diffuso, ci sta anche un impiego approssimativo, e a volte fuorviante e strumentale, di termini e concetti. Di fatto, ragionare sul genere significa porsi domande sulle diverse possibilità di realizzazione personale, che ci vengono offerte a seconda del genere di appartenenza o del proprio orientamento sessuale. In altri termini significa ragionare sul potere. E questo, a volte, potrebbe infastidire qualcuno. Rispetto al nome, ci piaceva che il festival avesse il sapore di uno scioglilingua.
C’è il rischio che un festival come Gender Bender e, in generale, i lavori legati al genere e all’identità sessuale rimangano ristretti solo a un pubblico più vicino a questi argomenti?
Dalla prima edizione ci siamo posti esattamente questa domanda. Poi ci siamo anche detti che non c’è niente di più comune alla condizione umana, pur nelle diverse culture, della differenziazione tra maschio e femmina e tra desiderio etero od omosessuale. Non è straordinario come fin da piccolissimi i bambini abbiano già chiaro in mente che cosa vada considerato “da maschio” e cosa invece “da femmina”? Il modo con cui ognuno di noi fa i conti con queste proiezioni appartiene in maniera spiccata alla nostra storia personale e alla nostra possibilità di una realizzazione piena. Gender Bender non fa altro che chiedere agli artisti di immaginare il futuro. By the way: dal nostro questionario anonimo (circa 500 campioni ogni anno) il pubblico di Gender Bender è composto per circa il 60% di persone gay e lesbiche e per il 40% di eterosessuali; per circa il 55% da donne e per il 45% da uomini.
Il programma è vastissimo; puoi consigliarci 3 cose da vedere a tutti i costi?
Uno spettacolo di danza: le due versioni di Rite of Spring della compagnia danese Granhøj Dans, una rilettura potente e originale della Sacre du Printemps di Stravinsky, il rito del sacrificio sociale giocato tutta al maschile e tutta al femminile con musica dal vivo.
Un film: Gayby Baby della regista australiana Maya Newell, un documentario emozionante su quattro bambini e ragazzi, figli di coppie gay e lesbiche, alle prese con le prime fragilità dell’adolescenza.
Un progetto speciale: Jukebox, un nuovo lavoro appositamente creato da Teatro Sotterraneo all’interno di un supermercato Coop, che si preannuncia nel solco di quello spirito caustico e dissacratore con cui la compagnia si è affermata come una delle più interessanti della nuova scena teatrale italiana.
Quest’anno inaugura col festival la seconda edizione di Teatro Arcobaleno, il cartellone di spettacoli di teatro e laboratori per l’infanzia che promuove il rispetto delle differenze. Com’è stata la partecipazione l’anno scorso e come reagiscono le famiglie e gli stessi bambini?
Siamo rimasti stupiti noi per primi della partecipazione, sia in termini numerici che di apprezzamento, grazie alla quale ci siamo convinti di rilanciare quest’anno con una seconda edizione ancora più allargata. Tra gli aspetti che più ci hanno motivato, vedere seduti fianco a fianco, ad applaudire lo stesso spettacolo, bambini, famiglie, gay, lesbiche e trans. Lo abbiamo trovato un bel segnale di civiltà. Tra quelli che più ci hanno convinto a continuare, la colorata manifestazione di protesta promossa da organizzazioni della destra, che picchettava contro La bella Rosaspina addormentata, lo spettacolo di Emma Dante che apriva il cartellone.
Quali gli episodi di questi anni legati al festival che ricordi con più piacere e quali con più dispiacere?
Uno fra i tantissimi: le signore anziane in pelliccia che applaudono entusiaste lo spettacolo della tostissima coreografa olandese, Ann van den Broek («Mo vè, che brave le ragasse!»). Tra i dispiaceri… non mi viene in mente niente!
È mai successo che qualcuno vi negasse una location per via degli argomenti che trattate?
Mai!
Quali sono i migliori festival in Europa e Italia simili a Gender Bender?
Purtroppo, siamo unici.
Ho sempre considerato Bologna come la città più aperta in Italia alle differenze di genere, merito sicuramente del Cassero. È così?
Merito in primis di una cultura tutta emiliana, e bolognese in particolare, che per anni ha dato valore all’individuo – nelle sue differenze – come parte integrante della comunità. Senza questa premessa, non ci sarebbe stato Il Cassero. O la storia avrebbe preso un’altra direzione.
Ci sono nell’arte contemporanea, nel teatro o nel cinema messaggi discriminatori cui non facciamo caso?
Faccio affidamento, per quanto possibile, sulla libertà di espressione artistica.
Probabilmente le parole „gay friendly“ sono passate da tempo, lo spero. Ma ci sono luoghi a Bologna che ti senti di consigliare e dove andare a passare del tempo senza sentirsi giudicati?
Lasciate a casa il giudice che è in voi e girate tranquilli dove più vi garba.
Dove abiti? Hai abitato sempre nella stessa zona?
Abito al centro da alcuni anni, prima abitavo subito fuori il Ponte di Mascarella.
E vai ancora a ballare al Cassero?
Non se ne parla proprio: sto al Cassero tutto il giorno, manca solo ci torni la notte.
C’è qualcosa, oltre a Gender Bender, che ci consigli di vedere a Bologna in questo periodo?
I colli: in autunno sono una favola.