Laminarie come il nome delle alghe che assorbono i liquidi e si espandono e che per questo motivo venivano inserite in steli nella cervice uterina per favorire la nascita.
Dal 1994 Laminarie è la compagnia fondata da Bruna Gambarelli e Febo Del Zozzo grazie alla quale nel 2009 è nato DOM la Cupola del Pilastro, laboratorio delle arti in cui la ricerca teatrale è diventata uno strumento per mettersi in relazione con altri linguaggi e con le specificità di un quartiere popolare ricco di culture diverse.
Uno spazio sempre aperto e attraversabile, che ospita non solo spettacoli, ma anche laboratori per l’infanzia, proiezioni, mostre e incontri che nel 2012 ha ricevuto il Premio Speciale Ubu perché – si legge – „lavora sui confini tra produzione in residenza e ospitalità, tra città e periferia, tra migrazione e memoria, tra infanzia ed età adulta, tra ricerca teatrale e ascolto dell’ambiente circostante al quartiere Pilastro di Bologna“.
In occasione dei 30 anni „incauti“, dal 4 all’11 dicembre LAMINARIE presenta cinque appuntamenti tra performance, momenti informali e laboratori che mirano a propiziare il lavoro futuro in un contesto – quello culturale e di Bologna – sempre più alle prese con l’incertezza e la precarietà.
Il programma completo è qui e noi ne abbiamo approfittato per fare una chiacchierata con Bruna Gambarelli.
Iniziamo dal 1994.
Eravamo in quattro e tutti in Romagna. Dopo il Dams a Bologna, sia Febo che io collaboravamo con la Societas Raffaello Sanzio, lui come attore, io nella scuola e fu lì che nacque la compagnia. Decidemmo poi di tornare a Bologna. Dopo poco vincemmo il Premio Iceberg dell’Ufficio Promozione Giovani Artisti con il nostro primo spettacolo Tu, misura assoluta di tutte le cose, tratto da Lettera al padre di Kafka. In scena c’erano due figure piegate ricoperte di fango che cercavano di opporsi all’oppressione di quel peso. Quel lavoro ricevette anche il Premio Dani Teatra Mladih a Mostar, un’esperienza incredibile che ci permise di lavorare lì dove si continuava a fare teatro nonostante la guerra fratricida della Bosnia-Erzegovina.
Prima di arrivare a DOM dov'eravate?
Per quasi 15 anni siamo stati nomadi, senza un posto fisso dove provare e produrre. Quella condizione ci ha fatto, però, sviluppare tutta una progettualità rivolta all’estero, portando lavori a Tokyo, New York, in Francia, Spagna ecc. e mettendo le fondamenta per quello che facciamo ancora oggi. Poi nel 2009 è arrivato il bando per il DOM.
Siete stati voi a scegliere il Pilastro?
No, è capitato. Ma quando vedemmo il DOM da fuori ci piacque subito, soprattutto per l’aspetto architettonico, e l’architettura era proprio uno degli elementi che caratterizzavano i nostri lavori. Partecipammo, quindi, al bando chiedendo, nel caso in cui avessimo vinto, di dire la nostra rispetto agli ultimi aspetti della ristrutturazione che era ancora in corso, come ad esempio avere una sala vuota e senza le classiche poltroncine piantate a terra, quindi uno spazio palcoscenico. E così è stato.
Com'è stato all'inizio il rapporto con il quartiere?
Un enorme fallimento. Essendo una compagnia di teatro di ricerca eravamo un po’ come alieni. Gli abitanti si resero subito conto che la nostra non era una programmazione da intrattenimento. Ma a un certo punto abbiamo capito che avevamo qualcosa in comune. Nel senso che loro erano arrivati al Pilastro perché avevano bisogno di una casa – il rione ha ancora il 36% di case popolari. Tuttavia, pur avendo tetto e il lavoro, gli mancava tutto il resto. Non avevano l’acqua, il riscaldamento, le scuole e i trasporti. Gli mancava l’abitare.
Allo stesso modo noi siamo arrivati qui per produrre, ma senza avere una relazione con l’area. Abbiamo, quindi, iniziato a instaurare un rapporto e a costruire un pubblico, passo dopo passo, comunicando con le realtà già presenti, gli anziani, i bambini, gli adolescenti, le famiglie.
Ci siete riusciti?
Credo di sì. La sfida è stata sempre proporre i linguaggi del contemporaneo non solo a un pubblico di addetti ai lavori, perché un’opera messa di fronte sempre allo stesso pubblico e un’opera che muore.
Lavorare in periferia è stato un vantaggio o uno svantaggio?
Da un punto di vista economico è stato uno svantaggio. Lavorare in periferia è tre volte più faticoso che farlo in centro. Anche solo banalmente per le persone che devono venire: a Bologna se fai una cosa fuori dalle mura è come farla in un’altra città. Ma oggi questa posizione la preferisco, perché ci permette di stare in raccoglimento rispetto alla trasfomazione del centro e perché in questo momento, per chi si occupa di cultura, è più interessante lavorare in luoghi non turistificati. E poi credo che la periferia abbia un dinamismo che il centro storico non ha. La periferia muta continuamente, mentre il centro è piuttosto statico, sempre alla prese con la valorizzazione del patrimonio piuttosto che del nuovo.
Cosa avete imparato del Pilastro?
Che non è come viene descritto: né il bronx né un posto bellissimo dove ci sono tanti parchi e si sta bene perché non succede niente. Qui vive la più alta percentuali di poveri della città, il livello di istruzione è il più basso e ci sono moltissime persone sole; ci sono 15 diverse etnie e ci sono problemi strutturali legati soprattutto alla povertà. E la povertà non è solo economica, ma anche culturale e con questa bisogna fare i conti.
In un posto così quant'è importante una presenza come la vostra?
Non siamo noi a dirlo, ma sono gli/le abitanti e le realtà sportive e sociali, le scuole con le quali collaboriamo ad avercelo dimostrato. Qualche anno fa, quando il Ministero ci tolse i contributi, ed eravamo sull’orlo della chiusura, alcuni cittadini aprirono una sottoscrizione per opporsi e sono stati moltissimi i messaggi d’affetto e riconoscenza. Li abbiamo raccolti in un numero della nostra rivista Ampio Raggio.
Eppure qualche settimana fa è risuccesso: il rischio di chiudere si è ripresentato.
Problemi economici li abbiamo sempre avuti, è sempre una grande lotta per riuscire ad arrivare in fondo all’anno. Non è mai stato facile, ma qualche settimana fa è stato uno dei momenti più brutti, perché non avevamo più disponibilità economiche per proseguire. Ci siamo salvati solo grazie a un bando della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. A inizio novembre ci hanno comunicato di aver vinto un finanziamento di 100mila euro per un progetto biennale che si concluderà nel 2026.
Il contributo del Comune e della Regione non basta?
Nonostante 30 anni di Laminarie e 15 anni del DOM, le istituzioni locali (Comune e Regione) non sono in grado di garantirci una stabilità. La realtà è che per stare aperti dobbiamo vincere dei bandi e non basta essere bravi. Per non parlare dell’enorme lavoro richiesto per la compilazione e gli adempimenti burocratici, sempre più gravoso, che toglie energie preziose alla produzione artistica. Così però non può funzionare, perché in un sistema sano dovrebbero essere le istituzioni a garantire quantomeno una base solida da integrare poi con altri contributi e non viceversa.
La rivista, gli incontri, la televisione di quartiere e tutte le attività che affiancano la produzione teatrale fanno parte della visione di un teatro come spazio per leggere il mondo o sono un modo per attirare nuovo pubblico?
Entrambe le cose. Non è possibile fare un lavoro come questo rimanendo nel piccolo cerchio di chi fa le stesse cose. Noi abbiamo bisogno di nutrirci di altre arti e altre esperienze, confrontarci con la matematica, la filosofia, l’arte visiva e qualsiasi altra cosa. Sarebbe invece strano se questi attraversamenti non avvenissero, perché sono determinanti e permettono di aprirsi. Abbiamo, inoltre, sempre provato a espanderci nel territorio. Per fare qualche esempio: due anni fa abbiamo aperto tutte le serrande che erano chiuse da almeno 40 anni nella zona più difficile del Pilastro, Piazza Lipparini; abbiamo risistemato il parco che abbiamo intitolato a Simone Weil; e quest’anno abbiamo aperto la centrale termica di Hera per farci uno spettacolo.
Come lo vedi il futuro di Laminarie?
Continueremo a cambiare, come abbiamo sempre fatto.