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Non siamo movida, siamo una risorsa

Dopo aver detto la nostra sul perché l'utilizzo del termine movida sia tanto fastidioso quanto pericoloso, abbiamo chiesto a chi si trova dall'altra parte del bancone cosa ne pensa

Geschrieben von Nicola Gerundino il 28 Mai 2020

Foto di Linh Nguyen

„Boom“, „choc“, „assalto“, „fuori controllo“: in questi mesi di crisi sanitaria e lockdown, dove il buono o cattivo andamento della situazione generale è dipeso dalle persone e dai loro comportamenti, ha preso definitivamente il largo una comunicazione mediatica tutta centrata sullo stigma sociale, che ha cercato di parlare più alle pance che alle teste. Tra i tanti termini utilizzati fino a livelli di saturazione, sicuramente „movida“ è stato uno dei più abusati: una parola odiosa perché ormai totalmente svuotata del suo significato originale e carica, invece, di connotati semplicistici e negativi (ne abbiamo parlato qui). Ci siamo chiesti cosa voglia dire per un professionista del mondo dell’accoglienza lavorare con questa etichetta addosso e abbiamo fatto qualche domanda in merito a Leonardo Leuci, portavoce dell’Italian Hospitality Network, associazione di settore nata proprio in risposta alle difficoltà del settore causate dall’emergenza Covid-19.

 

Dal 18 maggio c'è un problema di "vocabolario" che sta investendo il mondo dell'accoglienza. Cosa sta succedendo?

Subito dopo la riapertura post lockdown abbiamo assistito a un fenomeno che personalmente ritengo intollerabile e rafforza la convinzione che l’informazione italiana – che si tratti di carta stampata o social – non stia vivendo il suo momento migliore, sia da un punto di vista etico che deontologico. In maniera continua, giornaliera, estenuante, articoli web, post e pagine di giornale hanno fornito una narrazione completamente distorta su quello che è realmente accaduto, e cioè che le persone, come prevedibile dopo una lunga e difficile reclusione forzata, hanno ricominciato, magari anche in maniera disordinata, nessuno lo nega, a riappropriarsi degli spazi di socialità. Ma invece di evidenziare un problema comportamentale che ha toccato tutti in maniera generica, perché si sono riempiti i parchi, i grandi magazzini tipo Ikea, i negozi, le piazze, si è puntato il dito senza sosta su quella che viene chiamata „movida“ e che vedrebbe come colpevoli solo ed esclusivamente bar e i ristoranti, che invece stanno cercando semplicemente di riprendere il proprio lavoro e non possono essere demonizzati per qualcosa che a loro non compete minimamente. Oltre a essere un assurdità, sembra quasi che si stia creando sottotraccia un capro espiatorio per poter scaricare in futuro le colpe di un eventuale ritorno dei contagi. La gente sta uscendo, i parchi sono pieni, le strade del commercio piano piano si stanno affollando come è normale sia, perché prendersela con i locali? Dopo aver visto in questi mesi volare accuse assurde nei confronti di runner che se andavano tranquilli e isolati per i parchi, adesso si è tornati a uno dei bersagli preferiti in assoluto sia da una politica retrograda e proibizionista, sia da una stampa incapace ormai di un’analisi obiettiva quando c’è di mezzo il settore dell’ospitalità.

Come si sente e cosa prova un professionista di questo settore quando vede il suo lavoro descritto come "movida"?

Da un parte posso dire di sentirmi scoraggiato, perché questa superficialità è deprimente, dall’altra sono stimolato a lottare per affermare la realtà e cioè che noi non siamo „movida“, ma siamo un’industry, come dicono all’estero. Un’industria che ha un peso specifico nell’economia del Paese troppo spesso sottovalutato. Negli ultimi 20 anni in città come Roma, ma in generale in tutta Italia, il settore dell’accoglienza è stato depotenziato e avversato dalla totale mancanza di volontà della politica di affrontarne in maniera costruttiva lo sviluppo, cosi come le normali criticità. Invece, anche grazie all’inadeguatezza di sigle e associazioni di settore che da anni comodamente siedono ai tavoli che contano, si è preferito instaurare un nuovo proibizionismo, vietare a oltranza e chiudere la comunicazione con un mondo che per molti non è degno di essere ascoltato. I risultati sono evidenti e possono essere considerati drammatici. Si va dalla desertificazione dei centri storici, sia delle città che delle piccole realtà di provincia, al mancato sviluppo e riqualificazione delle periferie, dalla morte di locali storici all’incentivazione dell’abusivismo commerciale, fino alla sparizione di decine di migliaia di posti di lavoro, che diventano centinaia di migliaia se valutiamo l’enorme potenziale inespresso dell’intero settore. In momento cosi delicato per l’economia pensiamo sia fondamentale affermare che è impensabile che la politica continui a ignorarci o, peggio ancora, continui a cercare di distruggerci, con azioni bigotte e retrograde, un iper regolamentazione assurda, una burocrazia asfissiante, tasse insostenibili e un approccio distruttivo intollerabile.

Un gap comunicativo al quale si affianca un enorme gap culturale, quindi.

In tutte le città del mondo, l’ospitalità, che comprende ristorazione, hotelerie, somministrazione e intrattenimento notturno, è considerata una ricchezza. Citta come Londra, Berlino, Parigi, Lisbona, Barcellona, New York, fino ad arrivare ad Atene, hanno saputo sviluppare e sfruttare in maniera corretta il potenziale della nostra industria, che è diventata addirittura di primaria importanza nel rilancio o nella crescita economica dell’intera nazione. Vedere risorgere interi quartieri di Londra come Shoreditch o Brick Lane, vedere il Temple Bar diventare il motore economico di Dublino o il centro di Atene trasformarsi in uno dei luoghi più dinamici del mondo dovrebbe ispirare la nostra politica, ma purtroppo non è cosi. Ciò che prevale, invece, è la volontà di combattere lo sviluppo dell’ospitalità e dell’intrattenimento notturno tramite una guerra ideologica e anacronistica, una guerra che è sinonimo di inadeguatezza e incapacità di chi ci amministra e che denota sicuramente un gap culturale con il resto del mondo.

Hai visto lo spot della Regione Veneto uscito qualche giorno fa? Che ne pensi? C'è da dire che se "movida" è un termine scoraggiante, "happy hour" non scherza...

Le parole sono importanti, recitava Moretti in un suo film. Ed è vero. Lo spot della Regione Veneto è un goffo tentativo di comunicare con un mondo che non si conosce. Quel tipo di comunicazione viene respinta da tutti: dai giovani che non si rivedono in quello stereotipo e dai meno giovani che non hanno di certo bisogno di una tale banalizzazione per essere informati. Serve un modello nuovo e sarebbe ora che chi comunica, così come chi amministra, si apra al dialogo con i professionisti del nostro settore, che, ripeto, ha un potenziale enorme dal punto di vista industriale, commerciale, occupazionale, di sviluppo turistico, di riqualificazione. E non può essere lasciato in mano a chi nel 2020 mi parla di „movida“, „happy hour“ o chi, in generale, non ne capisce il valore e quindi preferisce vietare, chiudere, limitare.

 

Perché è sbagliato demonizzare un'attività per qualcosa che comunque avviene altrove?

I locali in Italia sono visti come luoghi di perdizione: è incredibile notare come la nostra società sia ancora permeata da un bigottismo che porta a perdere lucidità di analisi e come l’alcol sia utilizzato ancora oggi come scusa per giustificare un vero e proprio proibizionismo, che non è nient’altro se non un escamotage sbrigativo per non dover affrontare le normali criticità che ogni settore produttivo genera. La politica non ha il compito di giudicare la moralità delle persone, le persone hanno il diritto di divertirsi come meglio credono e hanno il diritto di ricevere da chi amministra le città gli strumenti per farlo in sicurezza. Il problema non dovrebbe essere quanto mi va di rimanere in giro con gli amici o se bevo due birre o tre cocktail, ma che io possa farlo in piena libertà e senza mettere in pericolo nessuno. Invece di fare cose assurde come obbligare tutti i locali a chiudere nello stesso momento, buttando in strada centinaia di migliaia di persone all’unisono, non sarebbe meglio copiare la metro aperta 24 ore di Londra o Barcellona, avere mezzi pubblici notturni capillari come Berlino, agevolare strumenti di mobilità moderni e accessibili come Uber e via dicendo? Perché in Italia quando si parla del nostro settore si preferisce vietare a oltranza e punire, mentre altrove si cerca il dialogo e il modo di evolversi in sicurezza? Come possiamo noi operatori essere responsabili di quello che succede nelle piazze antistanti i nostri locali? Come possiamo essere responsabili dei comportamenti delle persone che stazionano fuori dai nostri spazi? E sopratutto, che strumenti abbiamo per intervenire nel caso volessimo aiutare le amministrazioni? Nessuno. Ci impegniamo a fornire un servizio di qualità, offerto da persone preparate, in locali puliti e sicuri, ci prendiamo cura dei nostri clienti e fino a quando sono nelle nostre mani non possono mai nuocere, né a loro né ad altri; ma come possiamo essere incolpati di quello che succede fuori, delle piazze che si affollano, delle persone che acquistano bevande alcoliche nei supermercati o dagli abusivi? È assurdo pensarci colpevoli o complici di questo.

L'accoglienza viene narrata ancora come un passatempo marginale e accessorio, eppure i numeri dicono tutt'altro.

Oggi viviamo in un mondo nel quale, fortunatamente, l’economia crea sempre più connessioni: pensare che un bar o un ristorante creino valore solo per barman, camerieri e cuochi e qualche fornitore di bevande o prodotti della filiera agroalimentare è grossolano. Il nostro settore sviluppa un indotto vastissimo, fatto di tanti professionisti: specialisti della sicurezza, manutentori, tecnici, agenti di commercio. C’è la filiera del vino, ci sono gli agricoltori e i produttori di eccellenze, che spesso trovano in noi il miglior veicolo di comunicazione, poi ancora importatori di vario genere, logistica nazionale e internazionale, scuole di formazione professionale, micro birrifici artigianali, il mondo dei taxi, che vive dei nostri locali pieni, creatori di arredi e design, produttori e venditori di macchinari professionali e tante altre realtà industriali che danno da lavorare a migliaia di persone. Come si fa a non considerarci una risorsa ?

In una chiacchierata telefonica precedente a questa intervista mi raccontavi del caso emblematico di una via a Roma, dove il numero di persone dal futuro lavorativo incerto è impressionante.

Faccio questo parallelo. Qualche mese fa, purtroppo, una fabbrica di elettrodomestici in Italia era andata in crisi e la sua chiusura avrebbe causato circa 200 licenziamenti: 200 famiglie che avrebbero perso l’unico sostentamento. Una cosa drammatica. I giornali, giustamente, ne parlarono a spron battuto e la politica si mosse subito: parlamentari, ministri ed ex ministri, sindacalisti. Alla fine il Governo intervenne direttamente con misure economiche straordinarie. Tutto giusto e tutto dovuto. Ma se facciamo una passeggiata e due chiacchiere con i commercianti sulla via che va da Campo de‘ Fiori alla Chiesa Nuova, ci troveremo di fronte ad una catastrofe occupazionale che potrebbe generare non 200, ma almeno un migliaio di disoccupati. E parliamo di una sola una strada di una sola una città. Nessuno sta facendo nulla e, sopratutto, nessuno se ne sta occupando realmente. L’unica cosa di cui ha voluto preoccuparsi la politica nazionale e locale, nonché l’unica cosa di cui parlano i giornali, è la „movida“.

Come Italian Hospitality Network non state solo denunciando il modo in cui la vostra attività viene raccontata, ma volete dare anche delle proposte concrete. Ce ne puoi accennare qualcuna

Contro una politica distruttiva e un informazione becera non si può fare altro che essere costruttivi! Abbiamo molte proposte, sia generali, sia in relazione alla crisi generata dal Covid-19. A parte le misure di sostegno che crediamo debbano riguardare il nostro settore al pari di tutti gli altri, chiediamo l’eliminazione delle limitazioni d’orario che ci vengono imposte; chiediamo di poter aiutare i Comuni nello sviluppare progetti di dehor di qualità, come succede a Parigi ad esempio; chiediamo l’istituzione di una figura paragonabile a quella del sindaco della notte, ricalcando il ruolo di Amy Lamè a Londra; la riduzione dell’IVA per aiutare il rilancio dei consumi; la creazione di contratti ad hoc per il nostro settore che possano ricalcare meglio le figure professionali di cui abbiamo bisogno e che abbiamo noi stessi contribuito a definire in questi ultimi anni; la creazione di un tavolo permanente nelle amministrazioni dove si parli con dei delegati di problemi e soluzioni legate al nostro settore.

Ritornando alla stretta attualità di questa fase post lockdown, che altre misure secondo voi dovrebbero essere adottate affinché il mondo dell'accoglienza non rischi seriamente di scomparire?

Vorremmo che fosse avviata una vera e propria deregulation per rendere più facile il nostro lavoro: oggi siamo massacrati dalla burocrazia e da un iper regolamentazione asfissiante, che si aggiungono a una tassazione veramente difficile da sostenere, specialmente in questo momento. Bisogna snellire le procedure e ridurre il carico fiscale: se non si fa questo si rischia veramente di vedere un intero settore sgretolarsi. Inoltre, basta alle assurde limitazioni che esistono solo in Italia, basta a preferire le macchine in divieto ai dehor dei locali come avviene a Roma, basta al non poter utilizzare i basement dei locali che invece vengono commercialmente valorizzati in tutto il resto del mondo, basta all’impossibilità di una collaborazione tra pubblico e privato nella gestione dei molti spazi pubblici che potrebbero diventare un enorme risorsa per tutti. C’è da rilanciare il turismo oggi depotenziato in tutta Italia: serve collaborazione con le amministrazioni per farlo correttamente. Noi siamo pronti.

Se dovessero inasprirsi di nuovo le misure nei confronti dei locali cosa si rischia?

Che chiudano migliaia di attività e si tocchino quote di disoccupazione mai viste e, soprattutto, insostenibili.