Chi ha frequentato i club romani negli ultimi dieci anni lo conosce grazie al suo nome d’arte: Pearl River Sound. Accanto all’attività di dj, producer e parte vitale del collettivo AMEN, Roberto Semeraro è un docente di Music Technology alla Saint Louis College of Music e soprattutto da qualche tempo l’ideatore e gestore di L863, nuovo spazio ibrido nel cuore della Garbatella.
Un’appartenenza al quartiere che si manifesta già nel nome – la „L“ sta per l’iconica unità abitativa del quartiere popolare romano, il „lotto„. In questa prima stagione Roberto ha raccolto i frutti di più di un decennio di attività nella scena elettronica romana, radunando attorno a sé alcuni dei suoi attori più rappresentativi, tra veterani e nuove leve.
Negozio di dischi, rivenditore di brand selezionati sempre vicini al mondo della musica, ma anche spazio per eventi dal talk alla presentazione – sempre accompagnati da birrette o vinelli di qualità. Con la prima stagione alle spalle abbiamo fatto un punto del primo anno di esistenza di L863 direttamente con Roberto.
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Mi parli un po' di te? Da dove vieni quando e come inizia il tuo percorso nella musica?
Sono nato e cresciuto in una città pugliese che si chiama Martina Franca. È un ambiente piuttosto chiuso, ma comunque benestante. Gli inverni sono lunghi e spesso ti viene voglia di scappare, eppure ho ricordi molto felici e significativi legati a quel luogo. Il mio avvicinamento alla musica risale a quando ero bambino. Ricordo che mio fratello, che ha dieci anni più di me, faceva il DJ: comprava un sacco di vinili — soprattutto dance anni ’90 — e li suonava nella sua camera. Si chiudeva lì dentro e mia madre mi proibiva di entrare. La casa rimbombava di suoni, e io ero incredibilmente curioso di capire cosa stesse facendo. Andava poi a ballare in tanti posti, al Cocoricò e, in qualche modo, credo che tutto questo mi abbia influenzato. Anche mio padre ha avuto un ruolo importante. Mia madre racconta che ha sempre voluto suonare la batteria. Ricordo che, durante i viaggi in macchina, ascoltavamo tanta musica e lui teneva il tempo picchiettando sul volante con una precisione incredibile. Mia madre, invece, ha sempre suonato il pianoforte. Così, verso i quattordici anni, ero completamente ossessionato dalla musica: ascoltavo di tutto — rap, hip hop, grunge, rock. Da adolescente ho preso qualche lezione di chitarra, ma sono sempre stato molto impaziente: voglio tutto subito e in fretta (purtroppo). Ho capito che quello non era l’approccio giusto per me. Una sera, proprio in quel periodo, mi sono imbattuto per caso in Selected Ambient Works Vol. 1 di Aphex Twin. Quell’ascolto mi ha letteralmente scioccato: ho pensato “è esattamente quello che stavo cercando”. Ho provato una sensazione strana ma familiare, come se quelle melodie le conoscessi già. Ed è sempre così, ogni volta che ascolto Aphex.
Quando hai iniziato a mettere le mani nella pasta musicale?
Ho iniziato a fare il dj verso i diciotto anni, insieme al mio amico Alessandro. Abbiamo girato praticamente tutta la Puglia: anni bellissimi. È in quel periodo che ho capito davvero cos’è un party e cosa vuole la gente. Credo che ogni producer, davanti a un pubblico, comprenda fino in fondo cosa cerca davvero chi ascolta. Ed è una cosa che per me resta ancora oggi fondamentale. In quegli anni avevo appena iniziato a fare musica, prima con GarageBand e poi — un po’ per gioco — con Ableton Live, era l’epoca di MySpace. Ho conosciuto persone che per me sono diventate fondamentali, tra cui Herva e Marco D’Aquino. Quando ho incontrato Herva di persona, ho capito che aveva la mia stessa passione e ossessione. Ascoltavamo tantissima musica simile. Sono stati i primi ad ascoltare le mie produzioni e a dirmi che erano roba forte. Nel 2012 ho inviato la mia prima demo a Further Records, una label di Seattle che amavo, dove erano usciti artisti come Ekoplekz, Pye Corner Audio, Raica. Ricordo che mi risposero il giorno dopo con una delle risposte più belle che abbia mai ricevuto da una label: “abbiamo ascoltato la tua demo per tutta la notte”. Tutto è cominciato così. Sono arrivato a Roma nel 2014, e appena arrivato ho scoperto che c’era questo ragazzo, Mattia, che aveva appena intervistato uno dei miei idoli, Grant Wilson Claridge e che aveva un suo party a Roma. Gli ho scritto e gli ho mandato quello che facevo, e da lì il resto è storia, per me. Quelli erano i primi passi di AMEN. Per me è stato come trovare una famiglia qui a Roma: Enrico, Elisa e Mattia di AMEN sono le persone con cui, per molti anni, ho condiviso ciò che amavo fare di più, ovvero fare musica e suonarla.
Quando, come e perché nasce l'idea di L863?
L’idea di L863 è nata circa quattro anni fa. Mio padre è venuto a mancare nel 2019 a causa di un brutto incidente. Come spesso accade in questi casi, c’è stato un risarcimento che però non potrà mai colmare il vuoto e il dolore per l’assenza di una persona che amavo così tanto. Per me i soldi sono sempre serviti solo a vivere, non hanno mai rappresentato altro. Così ho deciso di usarli per qualcosa di cui anche mio padre potesse essere fiero, qualcosa che potesse restare nel tempo. Ho sempre pensato di avere una certa sensibilità nel capire ciò che le persone vogliono, perché so esattamente cosa piace a me. Scegliere i dischi o qualsiasi altro prodotto per lo store parte sempre da una domanda: è una cosa che io vorrei? Se la risposta è sì, allora si può cominciare. Quando sono stato all’estero — a Berlino, Londra, Barcellona, Copenaghen — provavo quella frenesia tipica dei record store, simile a quella che hai da bambino quando entri in un negozio di giocattoli. È come se avessi sempre cercato di ritrovare quella sensazione anche qui, a Roma. Ho sempre desiderato avere uno spazio capace di ricreare quell’emozione.
Come possiamo definire L863 a chi non c'è mai stato?
Potrei definire L863 come un negozio di dischi atipico. Uno spazio polivalente, la cui unica costante è la profonda connessione con la musica in tutto ciò che offre. Viviamo in un’epoca in cui una copertina non è meno importante della musica stessa e infatti non a caso brand come „The Trilogy Tapes“ o „Never Sleep“ hanno contribuito ad avvicinare sempre di più il mondo del club a quello della ricerca visiva, della moda e della street art. L863 è però anche uno spazio che fa cultura. Una volta un mio amico mi ha detto che un negozio di dischi è come una biblioteca — e per me è esattamente così. Un luogo dove avviene uno scambio di conoscenze, e quindi di cultura, tra persone ossessionate (in senso positivo) dalla stessa passione. Ecco perché ho sempre voluto creare uno spazio in cui fosse possibile ospitare live act, dj set, talk: per trasmettere questa voglia di condivisione. Il vinile, un libro o una maglia sono il prodotto tangibile di una cultura che ha bisogno di dire: “Io esisto. Io ci sono.” Quando acquisto una di queste tre cose, è esattamente questo quello che penso.
Qual è il tuo rapporto personale e lavorativo con la Garbatella?
Garbatella è il quartiere in cui vivo ormai da tre anni. Vivo a Roma da dodici, ma ho scoperto Garbatella solo quattro anni fa — una scoperta incredibile. È un luogo che somiglia molto alle mie origini: per me è come la Puglia di Roma. Molto verde, case antiche… più un villaggio che un quartiere vero e proprio. La gente ti accoglie subito, ti fa sentire a casa. È un luogo magico. Non avrei potuto aprire L863 in nessun altro posto. Ricordo che, quando parlavo con Jacopo Lega — che ha curato l’identità visiva dello store — del quartiere, ci siamo messi a indagare sulle sue origini. Scoprimmo che Garbatella era stata concepita inizialmente come un porto-canale, e questa idea ha ispirato l’identità visiva di L863: qualcosa di unico, fluido e articolato, proprio come un canale d’acqua. Solo un genio come Jacopo poteva concepirla così. Da quando ho aperto, tutte le realtà storiche del quartiere mi hanno supportato. Sono rimasto colpito dal loro legame con il territorio e da quanto sappiano riconoscere e valorizzare una realtà come la mia. Per questo non posso che ringraziarle di cuore.
Come mai hai individuato questo quartiere come quello adatto ad impegnarti su un progetto del genere?
Il tutto è stato un po’ casuale, dovuto soprattutto al fatto che dopo aver vissuto dieci anni a San Lorenzo mi sono trasferito con la mia ragazza a Garbatella, l’idea era quella di trovare uno spazio che fosse nel quartiere in cui vivevo, per una questione di comodità e anche perché volevo vivermi appieno il quartiere in cui avrei aperto questo spazio, per conoscerlo e esserne davvero parte. Quindi non ci sono state troppe strategie è tutto successo in modo molto naturale.
Che pro e contro ti immaginavi prima di aprire e si sono confermati in questa prima stagione?
Parto col dirti i “contro” che mi aspettavo, anche perché erano parecchi. Uno dei principali era senza dubbio la difficoltà di affrontare da solo un investimento così importante e le spese che comporta. C’era il timore di fare il passo più lungo della gamba, soprattutto in una città dove realtà come quella che immaginavo io non erano poi così diffuse. Un altro grande “contro” era il fatto di non aver mai fatto nulla di simile prima. Allo stesso tempo, continuavo a lavorare come docente per il Saint Louis, il che significava dovermi dividere tra due attività molto impegnative. Questo ha comportato anche dover sacrificare gran parte del tempo libero che prima dedicavo a fare musica. I “pro”, però, sono sempre stati più forti. Il primo, sicuramente, è stato quello di creare uno spazio di condivisione che potesse essere d’ispirazione per le nuove generazioni e anche per me stesso. Un luogo in grado di contribuire alla crescita della scena elettronica romana, che sentivo avesse bisogno di nuovi stimoli. Un altro grande “pro” è stata la possibilità di proporre dischi che a Roma non è sempre facile trovare: parlo di roba inglese Jungle, Grime, Bass, ma anche di sonorità più avant-garde, come tutto quello che distribuisce Boomkat. Poter accedere e offrire questo tipo di musica è stato, sin dall’inizio, uno dei fattori che mi ha motivato di più. A livello personale, tra gli aspetti positivi a cui tenevo maggiormente c’era la possibilità di costruire legami reali con chi fa parte della scena di questa città. Persone che mi hanno supportato fin da subito e che stimo molto dal punto di vista artistico. Penso ai ragazzi di Hyperacustica, Cosimo Damiano, Walter Quiroga, Ermanno Bizzoni, i ragazzi di Le Fleur Sonores, giusto per citarne alcuni. Tutti i pro si sono assolutamente confermati e, anche dopo tutti questi mesi, continuano a rappresentare la mia principale motivazione. Allo stesso modo, i contro si sono rivelati esattamente quelli che mi aspettavo — fatta eccezione per il primo, quello legato al timore di un possibile disinteresse. In realtà, la gente di Roma si è mostrata fin da subito interessata, curiosa e desiderosa di scoprire lo store. È stata, senza dubbio, la sorpresa più positiva di tutte.
La forma di luoghi come L863 si sta diffondendo sempre di più: ibridi e di ascolto. Cosa pensi raccontino del tipo di fruizione musicale verso cui ci stiamo spostando? Stanno sostituendo i club?
Credo che il club abbia perso il suo ruolo da protagonista. Sento, e avverto chiaramente, l’esigenza da parte delle persone di vivere esperienze “dancefloor” anche al di fuori del club tradizionale. È proprio questo, secondo me, il motivo per cui stanno nascendo così tante realtà che, in maniera totalmente autonoma, si costruiscono il proprio sound system per organizzare party in spazi all’aperto o in luoghi ibridi — a metà tra centri d’arte e club classici. Pensando alla realtà dei sound system, sembra quasi che stiamo tornando a ciò che accadeva in Inghilterra alla fine degli anni Ottanta: le comunità caraibiche organizzavano i primi party con il proprio impianto, come se fosse il sound system stesso a diventare il club. Trovo che ci sia qualcosa di estremamente affascinante in tutto questo. Se ci pensi, ci si spoglia di tutto il superfluo: resta l’essenza. Gli speaker, il suono. Ogni spazio, se vissuto con quell’energia, diventa quello giusto. In questo contesto, penso che radio indipendenti e store come L863 si collochino esattamente nel mezzo: sono un’estensione naturale di questo bisogno di nuove modalità di fruizione, più libere, più fluide.
Pensi che arrivare dal lato di chi la musica "la fa" ti abbia aiutato in questa esperienza??
Sì, credo mi abbia aiutato. Molti brand e distributori, conoscendomi artisticamente, mi hanno accordato una fiducia che ha favorito tutto il lavoro, oltre a velocizzare il processo con cui lo store è riuscito a diventare una sorta di „residenza“ per alcuni marchi. Penso a Herbs and Stones, The Trilogy Tapes, Unity, Never Sleep, o alla possibilità di avere dischi da distribuzioni come Boomkat. Diciamo che ho speso i miei pochi „crediti di status“ passami il termine ahah per permettere a L863 di offrire quello che, per me, rappresenta il meglio.
Che scene a Roma riconosci come "tue" e quali sono le prime che hai voluto rappresentare dentro L863?
Dal punto di vista artistico, ci sono poche scene che sento davvero mie. Ce ne sono tantissime che mi piacciono moltissimo: tutto ciò che fanno i ragazzi di Soffio e Fischio, Reveries, Hyperacustica, Ghost e Armonia27 sono, secondo me, realtà che stanno contribuendo in modo concreto alla crescita della scena romana. Siamo fortunati ad averle. Sono tutte realtà che ho voluto coinvolgere fin da subito all’interno di L863 — a partire dai ragazzi di Hyperacustica, che hanno avuto una loro residenza sin dall’inizio. Mi piace tantissimo anche quello che sta facendo Rawmance con il progetto Alimenti. Se però devo dirti quale sia la mia scena di riferimento, quella che più di tutte sento vicina, direi senza dubbio ciò che ha costruito AMEN qui a Roma in questi ultimi dieci anni. È la scena che mi rappresenta di più.
Quali invece i mondi che vorresti coinvolgere di più?
I mondi che vorrei coinvolgere di più sono sicuramente quelli che conosco meno, oppure quelli che si trovano all’estero o fuori Roma. Tra le varie idee che ho, c’è sicuramente quella di portare realtà e community da tutta Italia. Un esempio: abbiamo già in programma una collaborazione con i ragazzi di 100_ve, da Venezia, e con quelli di Radio Panini, da Copenaghen
Qualche momento che ti piace ricordare da questa prima stagione? Piani per il futuro?
Il momento che mi piace ricordare di più è sicuramente l’opening party con Massprod e Zippo, due amici che stimo tantissimo e che hanno reso l’apertura uno dei party più belli a cui potessi aspirare! Per quanto riguarda i progetti futuri, dall’autunno inizieremo a organizzare, oltre ai talk e agli instare anche workshop e corsi su diversi temi legati alla produzione e al deejaying. Abbiamo in ballo tre diverse collaborazioni: una di queste è un filtro per deejay L863 X HERBS and Stones, e un’altra è una nuova maglia in collaborazione con il brand egiziano di Omar Mobarek, Unty. Si tratta di un progetto a quattro mani tra lui e il nostro Jacopo Lega.