Venerdì 22 luglio, con un attesissimo Otello, inaugura il Macerata Opera Festival. Incontriamo il direttore artistico Francesco Micheli al Bar Basso e non è un caso: è un astemio progressista, non beve alcol ma al Pimm’s del Basso non resiste proprio. L’unico metodo al mondo per tenerlo seduto a un tavolino, per parlare della città, della sua vita, dell’opera e dei mille progetti che eruttano senza tregua da una personalità davvero vulcanica.
ZERO: Perché è proprio un Pimm’s?
FRANCESCO MICHELI: Perché è bello e frizzante, proprio come Milano. Ricco di gusti e di sorprese. Tutto l’opposto di quel che pensavo da piccolo: pensa che arrivai a Milano perché cercavo un posto non troppo lontano da Bergamo. Ero pieno di diffidenza e di sprezzo: Tut chi Milan?. Invece è nato un lungo amore, proprio come nella canzone della Vanoni.
Quali sono i tuoi primi ricordi di Milano?
Arrivai con la pandina per iscrivermi alla Bocconi. Entrai in centro alle nove e non sapevo più come uscire: girai attorno a piazza Diaz per due ore. Capii subito che ero entrato in una città labirintica e tentacolare.
Quale fu il tentacolo più inaspettato?
Era il 1991 e per Milano è stato un periodo strano: la Milano da bere era appena finita, Mani Pulite che stava facendo tabula rasa e poi c’era la Milano underground, quella del deposito Bulk, del Conchetta, del Company Club. Per me, che ero un contadino della Val Brembana, fu davvero una bella scossa. Eh si! Però, la sai una cosa?
Che cosa?
Avevo già qualche dubbio: a sei anni avevo visto Totò, Peppino e la… malafemmina e la mitica scena di quando arrivano in Piazza Duomo vestiti da pinguini e il ghisa dice: «Ma dove venite, voi! Dalla Val Brembana?». Insomma, già quella volta avevo il sospetto che la mia valle non fosse davvero l’ombelico del mondo…
Ma perché il Pimm’s qui lo fanno così buono? Gli ingredienti alla fine sono sempre gli stessi dappertutto…
Che cosa resta del tuo passato contadino?
Certamente la schiettezza, di là di ogni calcolo. Anzi, a volte vorrei essere meno leggibile: sono pessimo nei giochi di società! Negli anni però ho capito che questa naturale trasparenza è davvero una risorsa e in un mondo che falsifica ogni cosa, me la tengo ben stretta. Poi c’è una certa mia tendenza a stupirmi, sempre. I miei amici mi fanno notare che ripeto spessissimo: «Ma dai?».
Che cosa ti ha stupito maggiormente, negli ultimi anni?
L’elezione di Pisapia è stata abbastanza potente: avevo una lezione a Brera, aveva piovuto in modo violento e c’era un bell’arcobaleno che arrivava quasi fin sul culo di Napoleone. Andammo tutti in Piazza Duomo ed era davvero incredibile: non avevo mai visto nulla di simile.
Ci racconti invece una sorpresa che ti riguarda?
Mi ha stupito la cosa più naturale al mondo: tornare a Bergamo da Direttore Artistico della Fondazione Donizetti. Tornare sul luogo del delitto, dove mia madre da bambino mi portava a vedere Franco Parenti e Giorgio Strehler oppure Bertolt Brecht fatto da collettivi alla fine degli anni Settanta. Ero piccolissimo. Ecco, mi sono venute in mente molte di quelle immagini quando sono tornato a casa e ho capito che quello era il mio vero desiderio da moltissimo tempo. Forse la vera sorpresa è stata proprio il desiderio.
Che cosa ci racconti di tua madre?
Una vera forza della natura. Una meravigliosa pazza, irresistibile, chiassosa, generosa. Parlare della propria madre e come parlare del proprio pene: è molto difficile essere obiettivi. Oggi ha ottantuno anni ed è una donna ancora gigantesca, solare… Come il sole è bruciante e col passare del tempo, con mia sorpresa, si è fatta anche più duttile. Mia madre davvero è una deliziosa sfrontata, che si mette in ascolto e ancora in discussione. Una donna che vive di curiosità: mia madre è l’opposto della vecchiaia.
Perché ti sei messo a fare teatro?
Perché sono troppo aggressivo per fare la politica e sono troppo irrequieto per fare l’insegnante. Ho scelto il teatro per stare in compagnia e invece ho scoperto che è un lavoro davvero solitario, forse il lavoro più solitario del mondo.
Come è andata a finire alla Bocconi?
Sono scappato dopo tre settimane e mi sono iscritto a Lettere. Anche lì sono durato molto poco: mi mancava un sacco Cristina, la mia compagna di banco al liceo. Cristina faceva la scuola Paolo Grassi e così mi sono iscritto anch’io alla stessa scuola. In questo, gli anni Ottanta sono stati fantastici: c’era molta casualità e proprio nel caso, a volte, si trova la verità delle cose e della vita.
Come sono stati quegli anni a Milano?
Beh, per me sono stati pazzeschi: non avevo mai sentito parlare di Jerzy Grotowski, di Peter Brook, di VsevolodMejerchold che mi sembrarono fin da subito dei supereroi di un manga danese. Attraverso il teatro scoprii un mondo che prima, nella mia mente, non esisteva per nulla. Che dici, ci prendiamo un secondo Pimm’s?
Certo, stavo per chiedertelo! Ci parli della tua prima regia?
Fu una Maria Stuarda Regina di Scozia di Saverio Mercadante, all’Accademia. L’esempio più alto di melodramma senza musica: sta tutto nelle parole e nel conflitto continuo dei personaggi.
Che cosa accadde, poi?
Ho avuto una grandissima botta di fortuna: gli Amici della Scala stavano realizzando La Cantarina di Niccolò Piccinni al Teatro delle Erbe. Il regista si ammalò e così, un po’ per caso, un amico di un amico suggerì che quella regia avrei potuto farla io. Chiesi a Fausto Ursolesi di declamare dei pezzi dal „Teatro alla Moda“ di Benedetto Marcello. Venne fuori una bella cosa, mi videro quelli di AsLiCo e fu la mia fortuna. A ripensarci, era una regia molto ingenua ma già c’era questo mio fottuto afflato comunicativo che non mi molla mai.
Questa è la caratteristica che tutti ti riconoscono.
M’interessa che la gente capisca l’esperienza che sta vivendo, che entri a far parte del processo creativo, che si misuri sui due poli opposti: il passato e il presente ovvero il mondo nella sua voracità.
I tuoi primi vent’anni di carriera possono essere divisi in cinque quadrienni. Li passiamo in rassegna?
C’è sempre un elemento comune: mi piace lavorare ai progetti in modo approfondito. Ecco perché sono sempre rimasto abbastanza a lungo. Sarà forse che mi piace entrare nell’epica del personaggio che mette in relazione i cittadini con il passato e sviluppa relazioni con il presente. Sono una specie di rom operistico che arriva, pianta le tende e cerca di cambiare la comunità in cui lavora.
Parlami degli anni in AsLiCo.
Anni fantastici, le prime regie, i primi successi. Il debutto con Il Trovatore a Parma per il centenario verdiano.
Poi sei andato a Reggio Emilia.
Anni tosti! L’incontro con Daniele Abbado. Ho fatto molta ricerca e pochi regie in senso stretto. Dono gli anni in cui ho conosciuto Piero Maranghi e Maria Mauti e ho scoperto la possibilità di raccontare l’opera per la TV. Bellissimo. L’opera è immortale e non teme nessun media!
Palermo è stata una sintesi.
Al Teatro Massimo ho avuto la possibilità di cimentarmi con una grande macchina teatrale: ho fatto il trittico di Giacomo Puccini e ho vinto il mio primo Premio Abbiati con il Viva Verdi! Poi sono andato a Venezia.
L’Otello con Chung!
Fantastico, una grande soddisfazione e poi gira ancora. Myung-Whun Chung è davvero speciale. Anche la Bohème con Juraj Valchua e poi Il killer di parole di Claudio Ambrosini su soggetto di Daniel Pennac, spettacolo che ha vinto il premio Abbiati 2011. Feci Romeo e Giulietta all’Arena, fantastico ed è la ragione per cui ora sono a Macerata.
Finalmente ci siamo arrivati…
Qualcuno aveva parlato di me a Romano Carancini, sindaco di Macerata e presidente della fondazione Sferisterio. Erano stati incuriositi dai flashmob, dalla web tv, da altre idee. Insomma, hanno pensato che fossi la persona giusta per riportare un nuovo pubblico a Macerata.
Eri mai stato allo Sferisterio?
Avevo visto una Turandot di Hugo De Ana, una Norma e l’Elisir d’Amore, ma se mi avessero detto che nel giorno sarei stato direttore, li avrei presi per pazzi. Lo Sferisterio è un posto unico al mondo, come un gigante bubbone calato in una cittadina di campagna: ha una dimensione epica e i muri sudati di un lungo passato sportivo, è stato un mercato del bestiame e un luogo di partenza per le mongolfiere. Lo Sferisterio!
Che cosa hai portato a Macerata?
Per certi versi, a Macerata è uscito fino in fondo il mio lato più punkabbestia dell’opera. Qualità, eccellenza, grande lavoro ma sempre in salsa marchigiana ovvero con quel senso schietto, ruspante, festoso che a Macerata fa parte anche dell’accento.
Che cosa ti piace di più di questa esperienza?
Ti sembrerà strano, ma la cosa più bella è spendere lunghe giornate invernali a raccontare l’opera ai bambini nelle scuole. Entrare di continuo nella società, tra giovani e anziani. Certamente poi abbiamo avuto alcuni grandi successi: la Notte dell’Opera, con 60.000 persone in una notte, e poi il gran galà per Anita Cerquetti.
Una grande diva del teatro: eri emozionato?
Anita era malata ma ancora lucida e c’erano tutti i soprani, proprio tutti, che cantavano per omaggiare una grande diva. Al Ebben, ne andrò lontano si è alzata dalla carrozzella e si è protesa in avanti, come per salutarci. Allora, duemila persone si sono messe a piangere.
Quali sono le regie più belle portate a Macerata in questi anni?
Mi sono divertito moltissimo a portare gli amici: dalla Carmen di Serena Sinigaglia alla Bohème in salsa rivoluzionaria di Leo Muscato che ha vinto il Premio Abbiati.
Che cosa vorresti rivedere delle vecchie produzioni allo Sferisterio?
Certamente Monserrat Caballé ma anche Placido Domingo e Pavarotti, insomma… Sarei indeciso. In generale mi piacerebbe vedere la prima Bohème di Ken Russell in cui Mimì moriva facendosi una pera. Arrivò uno stuolo di cittadini fragorosi, tutti a protestare per uno spettacolo che invece era fantastico.
Qual è la tua idea di festival?
Venire a Macerata vuol dire partecipare a un festival buono come il ciauscolo e perdersi tra le bellezze di una città davvero stupenda. Macerata è un’esperienza concreta, variegata, dolce come l’accento dei suoi abitanti. Venire a Macerata, per un ragazzo, significa capire all’improvviso cos’è l’opera
Qual è la cosa che ti fa godere per davvero?
Il gelato al pistacchio, i cannoncini di Gattullo e poi Leontyne Price che canta D’amor sull’ali rosee del Trovatore.
Un film.
Sono molto indeciso tra Teorema e Flashdance… Che dici?
Flashdance: è proprio il film preferito di Domenico Gattullo… un disco?
Direi la terza di Brahms diretta da Wilhelm Furtwängler.
Un libro.
Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline.
Che cosa ti piace fare la sera?
Sono un isolano, vado sempre ai soliti bar preferiti, per esempio da Anche Bar da Matteo Stefani. Lui è un grande anfitrione
Ti capita di andare a cena fuori?
Sì, certo! Mi piace Milleluci, ristorantino super frocio in via Rosolino Pilo, dove fanno tutto molto bene e sembra di essere in quei film di Ferzan Özpetek degli anni Novanta… Mi piacerebbe sempre andare da Casa Ramen, ma devi andarci alle 12:30 oppure dopo le 15, altrimenti non trovi posto. La sera puoi anche scordartelo. A volte chiamo, ordino qualcosa e passo 20 minuti dopo a ritirarlo e me lo porto a casa.
Quali sono gli angoli di Milano che ti piacciono di più?
Il Cavalcavia Bussa, senza dubbio. Volevo prendermi una casa proprio lì, per aprire le finestre e vedere le macchine che passano. Poi via Circo che è tutto un altro posto: sembra Tolosa e basta camminare qualche metro per renderti conto che Milano è uno strapaese. Poi mi piace un sacco via Vaiano Valle: parti dalla periferia più incazzata e ti ritrovi in campagna e se prosegui arrivi fino all’Abbazia di Chiaravalle.
Che cosa sogni per il futuro di questa città?
Che Milano continui a essere quello che è diventata in questi anni: una città dove ha senso vivere non solo per lavorare.
Progetti per il futuro: che cosa farai al Teatro Ringhiera?
Per quattro anni abbiamo fatto Il Giardino delle Ciliegie da Cechov in versione Drag Queen. Abbiamo fatto una tournée nazionale. Ormai è diventato una sorta di classico di confine. Stiamo lavorando al nuovo lavoro che uscirà tra due anni: Queen Lear.
Dove vai a ballare?
Mi piace una cifra andare in quella disco di via Benadir… il Company Club! Mi dimeno un sacco quando mettono Jennifer Beals.
Chi sono i tuoi amici?
Il Paolo Besana perché condividiamo una vocazione dei tempi dell’oratorio e poi Andrea Aquilani, bravissimo artista e spalla infaticabile. Federica Parolini, mia compagna di scuola e scenografa. Pilar Maria Gioia, attrice solenne: la spagnola più milanese del mondo ma anche la milanese più spagnola che esista.
Qual è il sogno impossibile di Francesco Micheli?
Cazzo, bella domanda. Se avessi la macchina del tempo, forse vorrei vedere la prima del Flauto Magico di Mozart oppure la prima del Rocky Horror Show a New York… Che poi è un po‘ la stessa cosa.
Come t’immagini tra vent’anni?
Morto! Sono sicuro che non ci arrivo: faccio una vita oltre ogni possibilità e mi sembra di aver già vissuto ottant’anni. Che dici, ci prendiamo un terzo Pimm’s?