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Martin Bethenod

Aspettando Set Up incontriamo il direttore di Palazzo Grassi - Punta Dogana, per un bilancio decennale della sua presenza in laguna.

Geschrieben von L.R. il 15 Januar 2020

Foto di Matteo De Fina

Geburtsdatum

1 März 1966 (58 anni)

Geburtsort

Lione

Attività

Direttore

Dopo quasi 10 anni lascia a Venezia un’eredità notevole per dedicarsi alla nuova sfida della Pinault Collection: l’apertura del museo della Bourse de Commerce a Parigi, prevista a giugno di quest’anno. Prima del passaggio di testimone con il suo successore alla direzione di Palazzo Grassi Punta della Dogana, Bruno Racine, previsto per la fine di marzo, abbiamo incontrato Martin Bethenod per approfondire i tanti progetti che hanno caratterizzato la sua esperienza alla guida di una delle più importanti istituzioni veneziane. In particolare uno: Set Up! In continuo dialogo tra saperi, materiali e immateriali, spazi, luoghi ed eventi, alla vigilia della terza edizione scopriamo i retroscena di questo particolarissimo format e stiliamo un bilancio di questa decennale presenza in laguna. Ringraziando per l’accoglienza, stiamo per tornare volentieri a ballare “in casa sua”…

   Cosa le viene in mente quando pensa a Venezia?
«L’elemento da cui voglio partire, il più importante per me, non è la fantastica bellezza della città o la sua architettura: in questi dieci anni mi ha profondamente colpito la gente che la frequenta. Parlo degli amici che ho trovato qui in città, dei professionisti con cui lavoro, la squadra di Palazzo Grassi e questa sorta di comunità che a Venezia si occupa d’arte. Studenti professori, artisti, curatori: trovo che questa comunità abbia una forza e una presenza molto importante. Ovviamente potrei parlare dei palazzi, delle mostre, della dimensione straordinaria della storia, ma la cosa che mi viene in mente per prima pensando a Venezia sono gli amici e le persone con cui ho l’occasione di lavorare. Una città non sono solo pietre, sono soprattutto persone, sono gli amici che mi hanno reso reso speciali questi dieci anni a Venezia».

Prima ancora dell’apertura delle grandi mostre, siamo felicissimi di poter tornare a ballare in punta della dogana: com’è nato Set Up?
«È un progetto nato da diverse conversazioni e sperimentazioni, anche con alcuni membri della squadra di Palazzo Grassi. Avevamo già fatto alcuni concerti e performance all’interno di Punta della Dogana, sempre durante l’apertura delle mostre, i format erano quindi ridotti e molto cauti. Si pensava ad esperienze altre che ci sono state in passato: avevamo in mente sia l’esempio della National Gallery che ha dedicato i propri spazi a un’enorme performance di Sasha Waltz, oppure il Migros di Zurigo quando ospitò una performance dell’artista islandese Ragnar Kjartansson. Il fatto è che alcuni musei prima di avere le opere installate possono essere aperti anche ad altri format, trasformarsi in una piattaforma molto versatile e suggestiva. La prima edizione è frutto di un’idea suggerita da Mauro Baronchelli, direttore operativo di Palazzo Grassi, che ha lanciato questa sfida di sfruttare la breve finestra temporale tra quando si finisce di disallestire una mostra e l’arrivo di quella successiva. Ottimizzando tutte le fasi operative e organizzative è possibile isolare una settimana durante la quale il museo rimane completamente vuoto e può essere dunque reinventato per altre esperienze. Durante queste conversazioni si sono aggiunte altre idee, di altri membri dello staff, come Francesca Colasante, che lavora molto al coordinamento delle attività del Teatrino, e di altre personalità amiche come Enrico Bettinello, tutti insieme abbiamo concepito il primo Set Up, ormai 4 anni fa. Come sfruttare l’idea in cui il museo non è più un museo, perché è di fatto privo di opere? Abbiamo scelto di riempirlo di altre energie e di cambiarne la percezione. Nel 2020 questo intervallo tra due mostre avviene a febbraio prima di Carnevale in un periodo, che, lo sappiamo, a Venezia è sempre piuttosto freddo e poco frequentato, con scarsa offerta per il pubblico Veneto e del Nord Italia. La nostra scelta inoltre è stata di rendere Set Up un appuntamento regolare, ma con un una cadenza dilatata negli anni, sostanzialmente biennale, per sottolineare l’eccezionalità della proposta».

Sequoyah Tiger, Set Up 2018

Quale aspetto le è piaciuto maggiormente delle precedenti edizioni che riunivano grandi nomi come Alva Noto? (2016) o i Laibach (2018), così come giovani emergenti, Sequoyah Tiger (2018), oppure dj di tendenza come i Mount Kimbie (2016) o Laurel Halo (2018), musicisti jazz come la leggenda Evan Parker (2016) ed Ernst Reijseger (2018)?
«O anche i Mouse on Mars, oppure nel campo della danza, la performance di Alessandro Sciarroni. Al di là dei grandi nomi che potremmo citare, ogni serata si svolge come una sorta dei viaggio, comincia con proposte più sperimentali, acustiche, legate spesso ai linguaggi del jazz o della danza contemporanea, poi lungo un vero e proprio percorso, si trasforma in un concerto e poi ancora in un dj-set immersivo, durante il quale la gente può ballare. Dalle sette di sera alle due c’è una mutazione costante: l’atmosfera si trasforma e anche la percezione del luogo si trasforma. Questo è l’aspetto più caratterizzante di Set Up. Dal punto di vista della direzione artistica alcuni nomi aiutano a strutturare la proposta: non ci sono tematiche specifiche, ma si definiscono comunque delle relazioni e si leggono dei fil rouge tra i diversi artisti, senza dimenticare le tendenze culturali del momento. Nelle precedenti edizioni si evocava l’idea del clubbing post berlinese, in questa edizione invece c’è stata una significativa apertura nei confronti di artisti che arrivano da altre culture, anche con una dimensione queer. Entrambi sono aspetti legati alle caratteristiche di mostre che abbiamo ospitato recentemente. Ci sono dei parallelismi: nella mostra “Il luogo e i Segni” c’è stata una significativa rappresentanza di artisti dall’Oriente e dal mondo arabo, nella mostra precedente “Dancing with myself” c’era invece una dimensione legata al gender che era molto importante. Anche se non ci sono tematiche definite certi stimoli, anche sotto traccia, rimangono anche nella programmazione di Set Up».

   In questa terza edizione, confermando l’incrocio raffinato di danza contemporanea, ricerca performativa, elettronica d’avanguardia e intrattenimento di qualità, il cast artistico segna una nuova impennata. Come lavorate per la realizzazione di questo progetto?
«Non c’è un curatore o un direttore artistico, Set Up è frutto di una collaborazione, un processo programmatico collettivo. La line up nasce da discussioni, brainstorming, in particolare tra quattro persone: Mauro Baronchelli, Claudia De Zordo e Francesca Colasante, dello staff di Palazzo Grassi, e, come partner esterno, Enrico Bettinello, che ha un ruolo di consulenza. Questo piccolo gruppo, due uomini e due donne, ha concepito questa nuova edizione con un lavoro di squadra, e ci piace che questa orizzontalità si percepisca anche nella programmazione finale».

   Dobbiamo abituarci a immaginare anche per il futuro una cadenza biennale?
«Chi lo sa! Per ora ci troviamo bene con questo ritmo, che corrisponde anche al fatto che gli anni della Biennale d’Arte, mettono sempre una certa pressione per l’organizzazione di mostre importanti, sia le nostre forze che i nostri spazi sono meno disponibili. Forse con un piccolo sforzo ulteriore si potrebbe fare una volta all’anno. Ma nell’altro senso ci rimane caro questo ritmo, perché non facciamo solo Set Up, poche settimane fa abbiamo ospitato ad esempio per due giorni Tarek Atoui in Teatrino, tutelare la specificità di un format simile è un modo per sottolinearne il valore».

   Questa “discomuseo” che unisce club culture e linguaggi d’avanguardia, per ora rappresenta un unicum, almeno in Italia: pensa sia esportabile?
«Se venisse replicato in altri spazi sarebbe un bell’omaggio. Non è successo, ma se venisse un’altra istituzione, magari estera, sarebbe bello immaginare di farlo insieme, perché no. Punta della Dogana è un museo non standard, non so se ci sono altre realtà uguali, ma sicuramente sappiamo che tanti musei con spazi grandi, potrebbero essere ideali per un evento di questo tipo. Non siamo gelosi della nostre idee, parliamone».

Palazzo Grassi negli ultimi anni ha intensificato progressivamente l’offerta culturale extra espositiva di eventi, spesso gratuiti, ad ampio raggio: concerti, conferenze, cinema, iniziative collaterali, quasi sempre al Teatrino. Palazzo Grassi – Punta della Dogana si è connotato come una delle istituzioni culturali cittadine più attive, attrattive e generose nei confronti della popolazione locale: qual è la vostra strategia per il futuro e perché?
«Il teatrino è stato aperto nel 2013, è una delle prime cose importanti che sono orgoglioso di aver potuto realizzare. Sono arrivato nel 2010, è stato deciso il restauro nel 2011 e l’apertura è avvenuta nel 2013. All’epoca avevamo già sperimentato lo svolgimento di incontri ed eventi, in modo più casuale: si facevano in atrio e nel cubo di Punta della dogana. C’era quindi sin dall’inizio questa idea di lavorare a una sorta di contrappunto nei confronti dell’attività espositiva. Questa complementarità si basa su tre obiettivi: dare profondità all’arte e alle mostre che vengono proposte, quindi approfondirne i contenuti e le tematiche con la presenza di artisti, intellettuali e curatori; ma anche poter allargare i punti di vista e incrociare diverse discipline e linguaggi, l’arte contemporanea con musica, performance, danza e letteratura. Questi primi due elementi puntano ad espandere la dimensione della nostra offerta nello spazio incrociando diversi pubblici, lavorando in profondità e in ampiezza. Ai due aspetti, si aggiunge, terza, l’idea di sviluppare partnership, partendo proprio da queste attività. Una scelta fondante riguarda la possibilità di costruire progetti collaborando con soggetti terzi, istituzioni, realtà anche internazionali. Ovviamente alcune cose possiamo o potremmo farle da soli, ma è sempre più interessante, anche se spesso più complicato, farle con spirito di collaborazione, fatto che porta sempre altri sguardi, altre esperienze, altri pubblici. Possono essere istituzioni prestigiose come le università, Ca’ Foscari e Iuav, o realtà private, come la libreria Marco Polo, associazioni, come la Casa delle parole: penso che questo approccio stia caratterizzando fortemente il nostro contributo alla città».

Teatrino di Palazzo Grassi, inaugurato nel 2013

Come si coniuga l’autorevolezza di un’istituzione come Palazzo Grassi con le sfide che pone l’arte contemporanea, spesso in forme anticonformiste e controcorrente, facendosi interprete delle progressive mutazioni nei linguaggi espressivi e nella società?

«Non sono sicuro che l’arte contemporanea abbia questa prerogativa, e se ce l’ha certamente la condivide con altre forme, soprattutto la musica. Anche per questo mi sembra molto interessante provare a far incontrare le diverse pratiche. Il punto di partenza della nostra programmazione, al di là delle opere d’arte, punta ad esplorare attraverso l’incrocio con altre discipline, la letteratura, la musica, la danza, alcune tematiche e problematiche della società contemporanea».

Cosa ha pensato, dov’era, come ha appreso dell’acqua “granda” del 12 novembre scorso?
«Ero a Parigi, al ritorno dagli Stati Uniti, avevo ricevuto le allerte nel pomeriggio e non mi aspettavo niente di tragico, come poi si è invece rivelato. Tutta la serata e la notte ero al telefono con lo staff e ho preso il primo aereo l’indomani mattina. Per fortuna non siamo stati colpiti e feriti in modo grave. Palazzo grassi ha subito piccoli danni agli impianti, ma non ci sono state conseguenze per le persone, per le opere e sostanzialmente nulla di troppo grave agli edifici. Punta della Dogana, dopo i recenti lavori del 2008-2009 che erano basati sulla protezione fino a 200 metri slm, non ha subito conseguenze. È stato comunque uno shock molto forte. L’impatto dell’alluvione sulla vita quotidiana delle persone, le case distrutte, i negozi di amici tutti da ricostruire».

Domanda di rito per Zero Venezia riguarda i luoghi: cena, aperitivo, pranzo, dove e come frequenta il centro storico? Quali sono i suoi locali preferiti?
«Cominciamo dall’aperitivo, che è più il importante! Dopo aver vissuto in zona San Polo ora vivo tra San Samuele e Santo Stefano, quindi molto vicino a Palazzo Grassi. Per l’aperitivo d’estate la Terrazza Paolini, e d’inverno il bacaro da fiore, due luoghi imperdibili per l’aperitivo. Per la cena sono fedele i miei posti: sono amante delle Antiche Carampane, frequento questo ristorante da dieci anni in modo molto assiduo. Per la fase giornaliera, dipende molto dal mood, sono molto più estemporaneo, una volta può essere alle Zattere, alla trattoria da Gianni, o il bacaro di San Samuele. In questo caso sono più volage». Un tocco di francese, alla fine ci stava!

Martin Bethenod nel 2007 è stato insignito dell’onoreficenza di cavaliere dell’Ordre National du Mérite, dal 1996 al 1998 è stato braccio destro di Jean-Jacques Aillagon al Beaubourg, ha pubblicato testi critici per Connaissance des arts e Vogue, poi ancora ha svolto l’incarico di delegato del ministero della Cultura francese per le arti visive e commissario generale di Fiac (Fiera dell’arte contemporanea di Parigi). Dal giugno 2010 è direttore di Palazzo Grassi – Punta della Dogana.