«Faccio una premessa, dato che mi hai fatto venire in mente una cosa. Ci penso tanto: Roma non ha una scena. Quanto meno non viene mai presentata. Suoniamo e suoniamo, e basta, zero creazione di immaginario, di un archetipo che ti faccia capire che ci sono queste cose. Roba che fuori dall’Italia è normale amministrazione anche per le realtà più piccole. Sono contento di fare questa chiacchierata insomma, penso sia una cosa positiva che si stiano creando opportunità e spazi del genere».
Vagli a dare torto a Danilo Menna. Batterista turnista per tantissimi nomi italiani e non – da Gemitaiz a Venerus – e da poco titolare del progetto Archivio Futuro assieme al producer Lorenzo BITW. Un sodalizio tutto romano, nato in modo spontaneo – letteralmente sotto cassa – e dalla pura necessità di espressione personale. Il ventiquattro giugno è uscito il loro omonimo album d’esordio per La Tempesta: un viaggio tra beat garage e suoni quasi prog, allo stesso tempo acustico ed elettronico. Uno stile, quello di Danilo, che affondando in una formazione particolare e già poliedrica, ha saputo modellarsi in tanti contesti diversi. Attraversa i generi e le situazioni più disparate, rimanendo sempre credibile e riconoscibile. E con Archivio Futuro riesce a esprimere tutte le sfumature di cui è composto il suo mondo sonoro.
Mi parli dei tuoi primi passi da musicista?
Sono stati un po’ atipici: a otto anni ho iniziato con il violino alla scuola popolare di Testaccio. Un contesto “classico”, sia a livello generale che di tecnica. In realtà è una cosa che ha giocato a mio favore perché poi a undici anni, quando sono passato alla batteria, mi sono portato dietro una forma mentis di studio che su uno strumento come il mio vedo poco, spesso ci si siede dietro le pelli e basta. Per tirare fuori una nota dal violino invece ci vogliono sei mesi. Il mio primo insegnante poi è stato Giampiero Silvestri, un batterista jazz – anche questa una cosa fondamentale. Io sono nato a Casal Bruciato, una periferia. Frequentavo persone che chissà poi cosa hanno fatto nella vita, spesso niente di molto positivo. Per me la musica è stata quindi una salvezza dalla noia, dall’assenza di alternative. Al punto che, prima che mio padre mi comprasse un kit, mi esercitavo sui cuscini del divano.
Le prime esperienze dal vivo?
Da piccolo ero molto “rock oriented”. Già a quattordici anni giravo per i centri sociali. Ho vissuto molto questa roba delle scene romane, soprattutto metal: fino ai miei diciott’anni c’era una scena di genere incredibile, arrivavi in un posto come il Closer con la consapevolezza che erano tutti lì e qualcosa di fico ci sarebbe stato. Poi con il tempo ho iniziato a dividermi in tanti settori, dal metal al pop, già durante il liceo sono partito per i primi tour; formazioni come Hopes Die Last, Enemyside, The Electric Diorama. Insomma, ho iniziato a lavorare come turnista. Giudicando oggi a mente fredda è una cosa mi ha levato tanto tempo, ma che mi è sicuramente servita: ho suonato con Syria, Marco Armari, Tony Esposito, Briga, Gemitaiz, Emma Marrone, Venerus e tanti altri a ncora.
Cosa ti ha colpito durante questi tour?
Quella con Gemitaiz, in ottica romana quindi, è stata una bella esperienza: c’era una grande cura per i dettagli. Lui sempre presente durante le prove, sempre attento e con una visione chiara di quello che voleva. Ad oggi però il lavoro più bello della mia vita è stato suonare con Lydia Lunch, personaggio pazzesco, tra le altre cose compagna di Nick Cave e collaboratrice dei Sonic Youth. Una persona incredibile che a sessant’anni ancora si gestisce tutto da sola. Lei è stata fondamentale nel rinvigorire in me un certo tipo di visione, darmi la forza per fare un progetto completamente mio, che è sempre stata una necessità.
È difficile saltare così tanto tra un genere e l’altro?
Secondo me in Italia c’è troppa settorialità di genere. Per farti un esempio, Vinny Colaiuta ha suonato con tutti, ma di base è un batterista metal. Secondo me suonare è suonare. Devi essere bravo e poliedrico, è come se chiami un imbianchino: gli dirai, “questa parete la voglio gialla e quella rossa”. La vivo molto così, come fossi un artigiano. E Secondo me si sente che suono in modo molto diverso a seconda dei vari progetti.
E da un punto di vista più “tecnico”?
Stare nella scena metal da adolescente mi ha fatto capire che bisogna suonare anche se le cose non vanno. MI ha aiutato ad apprendere l’arte dell’arrangiarsi. In quei contesti devi saper fare un po’ tutto, perfino il fonico, lo scenografo e tante altre cose. Quando suono in progetti grossi come turnista abbraccio un’etica del lavoro maniacale. Mi piace far capire che conosco le mie parti alla perfezione, che su di me si può contare sempre. Anche negli atteggiamenti, arrivo prima agli appuntamenti e via dicendo. O per dire, sul fisico: se non mi curo e mi alleno, un tour da cento date è impossibile da reggere. Unire queste due anime per me è meraviglioso.
Restringendo il campo agli ultimi due-tre anni, mi parli delle esperienze dal vivo che più ti hanno esaltato?
Il primo concerto in assoluto di Archivio Futuro, alla Triennale di Milano, è stato molto fico. Lì ho visto concretizzarsi veramente le cose, è diventata una cosa seria in qualche modo. In più è successo nel modo in cui volevo che succedesse, senza che spingessi per farlo. Mi viene in mente poi il live con Gemitaiz sulla Terrazza Martini. È stato bellissimo, siamo stati nella mia saletta per due settimane per creare un vero e proprio suono nuovo, dare una veste inedita ai pezzi: è uscita una cosa di cui sono stato molto soddisfatto. Con Venerus ci sono state diverse date molto interessanti. Sceglierei quella di Ortigia dello scorso anno. Eravamo in formazione ridotta (batteria, basso e sax) e in pratica abbiamo riarrangiato i brani lì davanti a tutti, in diretta. Altri pezzi li abbiamo inseriti in scaletta al volo, solo guardandoci, comunicando con lo sguardo e poi facendo un salto nel vuoto. Quasi una jam davanti al pubblico. Per finire, recentemente ho suonato al Cieloterra con Fivequestionmarks e Produkkt. È stata la prima volta che ho fatto dell’elettronica pura, live in un club con la gente balla. È una mia fissa da un po’ e mi ha esaltato.
Parlando proprio di Archivio Futuro invece: quali sono gli ascolti che hanno ispirato di più il progetto?
Io vado sempre alla ricerca di persone che mi ispirano nella loro visione. Mi vengono in mente Trixie Whitley e i Black Dub: suonano enfatizzando solo le emozioni, come potrebbe fare un grande pittore o scrittore. Penso sia quello che distingue l’artisticità dalla musica e basta. Cerco persone e ascolti di quel tipo, che alla base abbiano qualcosa da dire. Il mio è un gusto che non prende in considerazione i generi: posso citarti Steven Wilson, gli Opeth, i Nine Inch Nails, Brian Eno. Nel mio piccolo ho cercato di fare qualcosa che potesse comunicare sinceramente con chi ascolta, trasmettere un messaggio.
Osservando la genesi del progetto mi sembra che ci abbia voluto mettere molto del tuo, musicalmente ma anche proprio “teoricamente”.
Sì è vero, a livello di concetti c’è un vero e proprio racconto dietro, lo si capisce bene nel video di “Deserto Giallo”. La distruzione della struttura che si vede alla fine del video per me rappresenta la distruzione delle certezze delle persone, di come ci hanno abituato a vivere. Distruggerle significa iniziare a vivere meglio. Qualcosa che ho finito per associare alle teorie sui sogni di Yung, tutte cose che sono entrate a far parte di me. In ogni caso, e questo è fondamentale, alla fine mi basta che la musica sia sincera, anche al di là dell’impianto teorico. Le ispirazioni sono importanti ma alla fine ciò che conta è quello. Leggo molto perché mi piace trovare risposte, cose che mi mandano in fissa e mi fanno venire voglia di scrivere musica. Al di là di tutto poi, credo molto comunque nella coesione con le persone, da solo non ce la farei.
Mi sembra giusto quindi parlare dei tuoi sodali nel progetto, in primis Lorenzo BITW ma anche Vittorio Gervasi che è un po’ il “primo collaboratore” di Archivio Futuro e con il quale già condividi l’esperienza al fianco di Venerus.
Punto saliente del rapporto con Lorenzo è che ci siamo incontrati a una serata techno sulla Salaria, sotto cassa. Ci siamo visti da lontano, ci siamo riconosciuti e confessati a vicenda che ci piace la roba che facciamo. Poi abbiamo iniziato a vederci praticamente tutti i giorni. Di lui invidio un po’ questa cosa: ha la capacità di prendere la musica come una modalità di espressione giocosa. Poi in realtà è anche un cultore della musica elettronica, super competente su tante cose. Sono due parti che si completano. E anche noi siamo affini e complementari come persone. Io magari sono più “musicista”, lui più produttore, ma funziona. Con Vittorio il discorso è lo stesso. Ci collaboro in primis perché lo stimo e ci sto bene come persona. È uno preciso, studia, si informa. Io sono quello epilettico, non dormo, sto sempre facendo mille cose, ma non pretendo questo dagli altri. Con lui veniamo dall’esperienza con Venerus, in cui abbiamo condiviso tanto, banalmente i chilometri in furgone e le stanze d’albergo; mi è venuto naturale condividere con lui anche questo progetto. La cosa bella di Vittorio è che ti ascolta. Ad esempio, come ispirazione per un assolo di cui avevo bisogno gli ho fatto vedere un pezzo di „Lost Highways“ di Lynch. Mi piace che gli dai un’idea, anche pazza, e la tramuta in suono. È una cosa bella e denota la sua apertura mentale.
Quindi ora quali saranno le prossime mosse per Archivio Futuro?
Ci arrivano i vinili a inizio agosto. Questa estate la prendiamo con calma, ma stiamo iniziando un sodalizio con un booking grosso che partirà da ottobre. Non vorrei fare le cose tanto per farle, ma prenderci il tempo per farle bene. Di sicuro non voglio stare fermo, questo è certo, per cui a breve potrebbe già uscire nuova musica.