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Oltre la cronaca, dentro le battaglie: intervista a Michele Lapini

Dalla Bologna che cambia ai tragici effetti del cambiamento climatico, una chiacchierata col reporter in occasione di Resilienze Festival.

Geschrieben von Salvatore Papa il 11 September 2019
Aggiornato il 12 September 2019

Foto di Valerio Muscella

Geburtsdatum

18 September 1983 (41 anni)

Geburtsort

Montevarchi (AR)

Wohnort

Bologna

Attività

Fotografo

Dallo sgombero dell’ex Telecom a quello dell’XM24, alcuni scatti di Michele Lapini ci hanno raccontato meglio di tante parole le trasformazioni bolognesi degli ultimi anni. Da sempre interessato ai cambiamenti della società e alle battaglie per i diritti, le sue fotografie vanno alla ricerca di ciò che si nasconde dietro ai semplici fatti di cronaca con quella sensibilità verso le vicende umane che contraddistingue i migliori fotoreporter. Tra i suoi numerosi progetti e reportage in giro per l’Italia e il mondo (potete scoprirli tutti sul suo sito), c’è Antropocene un long-term project fotografico sulle cause e sugli effetti del cambiamento climatico in Italia che Michele presenterà sabato 14 settembre alle 20:30 alle Serre dei Giardini Margherita in occasione di Resilienze festival.
Ne abbiamo approfittato per fargli qualche domanda.

 

Quando sei arrivato a Bologna e perché hai deciso di restarci?

Ci sono arrivato per fare la magistrale nel 2008. Dopo un periodo dove ogni anno cambiavo città, sentivo l’esigenza di fermarmi per poter portare avanti progetti e relazioni. Arrivato a Bologna quasi casualmente – perché dovevo andare a studiare a Torino -, sono rimasto subito agganciato alla sua dimensione umana e all’assenza di turismo (che è stato il motivo per cui ho lasciato Firenze) che mi ha trasmesso calore e socialità.

Com’è iniziato il tuo rapporto con la fotografia?

Con i miei vecchi coinquilini di via Bandinelli a Firenze. Partito tutto con l’analogico, un’Olympus Om10 e tanti tanti tanti rulli. Da lì poi l’avvento al digitale approfittando delle lauree per prendermi nuovi corpi macchina o obiettivi.

Hai studiato cooperazione internazionale e hai un master in diritti umani. Prima di fare il fotografo a tempo pieno, quali erano i tuoi progetti?

Ho sempre avuto una particolare attrazione verso l’economia, incuriosito dalle cause dei problemi che vedevo nella società. Poi il mio interesse si è spostato verso il ruolo che l’economia poteva avere nel migliorare situazioni critiche e combattere le disuguaglianze. Grazie ad un esame di antropologia, ho capito che prima dei numeri ci sono le persone. Ho fatto alcune esperienze nella cooperazione, sia istituzionale che dal basso e credo che quest’ultima sia ancora oggi una realtà da supportare. Il percorso però era pieno di compromessi e a un certo punto ho scelto di abbandonarlo, non per sempre, ma di dedicarmi anima e corpo alla fotografia.

Quand’è che la tua carriera ha avuto una svolta?

Forse Bologna è stata la svolta. Forse semplicemente per una questione temporale, con gli anni si migliora, si capisce meglio che tipo di fotografia ci appartiene. Forse il periodo delle mobilitazioni universitarie dove un giorno su tre c’era un corteo da migliaia di persone. E qui un mondo intero da fotografare, dalle aule universitarie occupate alla strada. L’interesse verso le questioni sociali e politiche è stato forse il momento in cui la mia carriera di studi e la fotografia hanno fatto pace: ok, fai fotografia, ma fotografi tutto ciò che hai studiato sui libri. E alla fine sta andando proprio così.

Le tue immagini hanno raccontato meglio di tutti i conflitti cittadini degli ultimi anni. Dallo sgombero dell’Ex Telecom all’ultimo dell’XM24 tu c’eri.

Non so se “meglio di tutti”, ma ti ringrazio per pensarlo. Come dicevo prima mi è sempre venuto naturale raccontare questioni sociali che molto spesso vengono considerate come meri fatti di cronaca. Dietro uno sgombero c’è sempre una comunità, per esempio, che difficilmente trova spazio nelle narrazioni. Il fatto di cronaca è il granello di sabbia di un mondo che mi affascina, mi appassiona e che in molti casi stimo. Raccontarlo è solamente un mio piccolissimo contributo, una testimonianza, un modo di dire “ecco, questa è la realtà dietro i numeri e gli slogan”. E non finirò mai di ringraziare chi, ieri e oggi, mi permette di fare ciò da un punto di vista privilegiato.

Oltre al lavoro in città, sono molte le lotte che hai seguito negli ultimi anni in tutt’Italia e non solo. Quali sono quelle che ti hanno coinvolto maggiormente?

Sicuramente la Val di Susa e la lotta NoTav è una lotta che probabilmente studieranno nei libri di storia come una delle battaglie popolari più importanti e durature dell’ultimo secolo almeno. Ma anche la lotta per la casa che ho seguito molto e continuo a seguire è una delle rivendicazioni che più condivido, per la sua semplicità e, allo stesso tempo, radicalità.

Ti conosciamo bene anche per il tuo rapporto con Cheap. Cosa ti lega a loro?

Con Cheap negli ultimi anni è nata una bellissima collaborazione. Inizialmente a piccoli passi e poi, conoscendoci reciprocamente, si è strutturata in modo più continuativa. Oltre che a fotografare le bacheche sempre in fermento, mi hanno dato anche la possibilità di fare degli interventi, quello in via Serra con Cemen-Ti-Amo e l’ultimo più recente di Global Warning su via Irnerio. Cheap è una realtà incredibile e unica.

Tra i tuoi ultimi progetti, c’è Antropocene (comparso, appunto, sulle bacheche di Cheap) che indaga sulle cause e sugli effetti del cambiamento climatico in Italia. Da dove sei partito e quale consapevolezza hai raggiunto o rafforzato nel frattempo?

Sono partito da progetti che in realtà portavo avanti da anni e a un certo punto ho visto che c’era qualcosa che li teneva assieme: il cambiamento climatico. Alcuni progetti indagavano sugli effetti, altri sulle cause. Poi l’esigenza di far sentire che questo tema ci riguarda da molto vicino. Ogni volta l’immaginario vola dagli orsi bianchi al Polo Nord, ai deserti africani o ai tornado in America. Invece dovremmo capire che certe immagini ce le ritroviamo a pochi chilometri da casa. L’ultima tempesta nel nord-est ne è l’esempio: milioni di alberi abbattuti in pochissime ore, a 3 ore da Bologna.
Adesso sto studiando e documentandomi sugli sviluppi del progetto, cercando anche di includere le buone pratiche, storie positive che riguardano l’ambiente. Questo per scrollare l’apatia e l’inerzia, per agire subito ed in maniera radicale.

Il “global warning” - come lo definisci tu - riconfigurerà molto probabilmente le vite di tutti, ma quali sono le altre sfide del nostro tempo che hai seguito e che ti interessano?

Credo che la questione populista e il riemergere di intolleranza e razzismo sia una sfida per tutti noi. Le recenti vicende politiche italiane hanno dimostrato come, anche nel nostro paese, sopravvive un substrato pericoloso che non va sottovalutato. Ho seguito mobilitazioni antifasciste negli ultimi 15 anni. Ecco, ricordo che le prime che documentavo erano tacciate dalla maggior parte della gente come inutili perchè “il fascismo non esiste più”. Dopo 15 anni direi che se quelle mobilitazioni fossero state prese in considerazione, magari ci saremmo evitati tutto questo oggi.

Presenterai Antropocene al prossimo Resilienze festival, che quest’anno gira attorno ai concetti di “radicale” e “radicato”. Qual è la parte più radicale del tuo lavoro e quale quella più radicata?

Molto difficile rispondere “da dentro”. Forse la più radicale è quella che fotografo da anni, ma che ancora non ha preso una struttura vera e propria. Molte fotografie non le ho mai pubblicate e chissà quando lo farò. Quella più radicata, per il soggetto, è quella sui movimenti territoriali, dalla ValSusa al confine italo-francese.

Credi che Bologna possa considerarsi ancora una città resiliente? E perché?

Bologna è a un bivio. Quella che ho conosciuto io quando sono arrivato lo era sicuramente. Ed è anche il motivo per cui ho deciso di metterci le radici. Non è il solito discorso del “si stava meglio prima”, ma sulla scomparsa di fatto di moltissime realtà che rendevano questa città resiliente. Non è la città di per sè, come istituzione o agglomerato ad esserlo o meno. Ma tutte quelle realtà che compongono la città, la animano, la differenziano da tante altre, la rendono unica. Ecco, continuare a uccidere e omologare significa far diventare Bologna una città come tante altre. Sono fuggito da Firenze perché è una città che ha perso la sua anima, una cartolina vivente ad uso e consumo del turismo. Ecco, non fatemi fuggire anche da Bologna.

Qual è la fotografia di cui sei più orgoglioso?

Quella che farà cambiare qualcosa, in meglio.