Nel momento in cui il dibattito politico – quello serio, sui massimi sistemi, che sono tutt’altro dall’essere ideologie eteree ma macigni che regolarmente ci piombano in testa – nei media di massa è un cadavere moribondo e nei social si trasforma in pillole da influencer, forse può essere il teatro la giusta arena dove trovare spunti, riflessioni e anche scintile. Sicuramente lo è se parliamo di Niccolò Fettarapa, autore e attore tra i più interessanti del panorama contemporaneo italiano, iperprolifico e capace di una scrittura dialettica e dissacrante, affilata e trascinante. Dalla parte del vinti, ma di quelli pronti a vendere cara la pelle e a far morire insieme a Sansone e tutti i filistei se necessario. Lo abbiamo raggiunto via mail in vista del suo ritorno a Roma fine aprile con „La Sparanoia“ (dal 23 al 27 al TeatroBasilica) a fine maggio con il „Concertino per gli Sconfitti dalla Vita“ (sabato 31 al Monk). Non pago delle lunghe risposte, Niccolò si è anche premurato di buttare giù un’introduzione all’intervista, a conferma di un grande amore per la parola, la scrittura, l’assurdo e qualsiasi cosa ci sia di sovversivo, fossero anche dei pannoloni!
„Rispondo a queste domande mentre mi trovo a L*****, in provincia di B*****. Come chiunque si trovi a transitare in quest’area, non mi sento bene. L’aria è fredda, ma anche pesante. Sa di lavoro, di fabbrica, di ripresa economica. Tutto è già grigio e tutto sembra piovuto. Sono in una foresteria, termine tecnico con cui si indica la casa di qualcuno messa a disposizione da un teatro per ospitare gli attori in tournée. Nella cucina in cui mi trovo ora, tutto è ordinato secondo una precisa volontà di disperazione. L’arredo è un’istigazione al suicidio. Sul tavolo su cui scrivo ci sono: uno scottex usato da non so chi, una tazzina di caffè senza caffè – l’ho bevuto poco fa- un panettone Bauli, uno champagne, una scatola di biscotti canestrini aperti – non da me – il Panettone Bauli aperto e un po’ mangiato – non da me – e un pacco di Pannoloni Mutandina taglia XL unisex – non portati da me. I pochi oggetti che mi fanno compagnia suggeriscono la presenza di un Altro, un mangiatore di pandoro con problemi di continenza, che però – ripeto – non sono io, deve essere un ospite – spero – non più ospitato, transitato anche lui per la provincia di B**** per lavoro o, chi sa, solo per mangiarsi il pandoro e defecarsi addosso. Ritengo opportuna la descrizione degli oggetti che mi faranno compagnia nel processo di scrittura, perché sicuramente influenzeranno la tenuta emotiva delle risposte alle domande postemi da Zero. C’è chi per ispirarsi guarda il cielo e l’Orsa Maggiore e c’è chi invece si circonda di altre, pur sempre positive, costellazioni di pannoloni. A ognuno le sue stelle“.
Parto dal titolo del lavoro che ti riporterà a esibirti a Roma a maggio, "Concertino per gli Sconfitti dalla Vita". Insomma, abbiamo perso?
Abbiamo perso, sì. La storia, la vita, le gare d’appalto, i bandi, l’autostima. Abbiamo perso tutto. In generale. Ma è una grande fortuna. È un trionfo di santità perdere, quando vincono tutti. Gli ultimi saranno ultimi e quindi saranno beati. A me il paradiso dei primi mi urta, il mondo di mezzo dei secondi mi nausea e le case di riposo dei terzi, anche. I secondi sono i segretari dei primi, hanno l’invidia di podio per i primi, che sono sulla copertina dei giornali che leggono i terzi, arresi a non contare. Ma chi conta davvero, neanche partecipa. Per questo è beato. Evviva i quarti, i non classificati, le pippe. È liberatorio perdere, quando non hai deciso tu di gareggiare. Serve talento a decidere di non contare niente. Serve coraggio per dire io mi tiro fuori. Tutto cospira a farci gareggiare in qualcosa, a partecipare a qualche bando, a inviare l’application. I quarti non hanno idee. Coltivano l’utopia dei vuoti di mente. Questo Concertino nasce in opposizione a gran parte della musica, che solitamente celebra i vincenti e il mito della ricchezza. Questo Concertino invece canta, si fa per dire, le prodezze e l’eroismo degli ultimi in classifica. Dico per dire, perché non so cantare. Mi sembra di essere coerente con la premessa dello sconfitto: faccio quello che non so fare e riesco comunque a farlo male. E ci vuole coraggio.
Ci sono rimasti solo il sarcasmo e l'indifferenza come armi? Siamo in un epoca di comedian superstar e di influencer simpaticoni: a furia di ridere abbiamo disimparato a piangere e quindi a reagire e ad arrabbiarci?
Ma è un miracolo che si riesca a ridere. Capiamoci: a ridere in modo sguaiato, sbagliato, inappropriato. A ridere che ti torna il sangue alla testa. A me le risate in commercio mi sembrano tutte funzionali a ristabilire lo status quo, mi sembrano risate di buon senso, risate fidanzate con l’ordine. Alcuni dicono che viviamo nell’epoca della post-ironia, e figurati se non c’era un post di qualcosa. Nessuna sorpresa. Ma è vero: l’ironia è un’arma spuntata. Il sistema – chissà poi cos’è – ha imparato a ridere di se stesso. A me i comici da barzelletta non mi piacciono, mi mettono tristezza. Ridono perché sono contenti della realtà, non perché sono capaci di deformarla, come dice Eco in „Fenomenologia di Mike Bongiorno“. Mi sembrano morti, prima di ridere hanno chiesto il permesso. Ridono per procura, perché glielo hanno concesso gli amministratori delegati. Le loro risate nascono dal solletico del consenso. Invece, alcuni paleoantropologici sostengono che la risata originariamente fosse un ringhio, che sia nata come avviso di pericolo lanciato alla preda. Come a dire non ti divoro, per ora. Ma ti mostro i denti. Ecco, quando il pubblico ride con noi, un po’ mi piace pensare che stiamo lanciando questo messaggio ai nostri nemici: fra poco vi sbraneremo.
L'indifferenza è anche uno dei temi alla base di uno dei tuoi primi lavori, "Apocalisse Tascabile". E in quello spettacolo è addirittura la fine del mondo a non suscitare più emozioni e pentimenti. L'adagio che sia più facile immaginare (e tollerare) la fine del mondo che quella del Capitalismo è più che mai vero quindi...
A me sembra che siamo tutti molto indifferenti al mondo e molto attenti a noi stessi. Andiamo in palestra, sauna, psicoterapia. Facciamo jogging, tisane e incantevoli passeggiate. Siamo tutti molto presi a ricentrarci. Questa spregevole cultura della cura del self ci fa perdere di vista il mondo, gli altri, la Storia e il disastroso panorama di miserie e macerie che ci si prospetta. Ecco, credo che i treni siano dei laboratori di indifferenza perfetti. Nei treni ci sono tre televisioni a vagone. Che poi il vagone si chiama classe business, il che è già distopico. E le televisioni in classe business trasmettono senza sosta le notizie dal mondo, tutte, anche le più atroci. Ma chi è sul diretto per Milano sta andando a Milano e non ha tempo di ragionare sulla guerra o la crisi della democrazia. Legge la notizia e se la dimentica. Dici, c’è la guerra. E io sto scrivendo un’email, quindi fai la cortesia: la guerra la fai a bassa voce. Dici, le temperature si alzano. E io vado di fretta, scusa. Credo che l’indifferenza sia la figlia cafona dell’impotenza. Almeno nell’impotenza c’è una coscienza tragica, l’indifferenza è fatalista. L’indifferente è arrogante, perché neanche perde tempo a disperarsi. L’indifferente pensa solo ad arrivare in tempo a Milano. Ecco, quindi il male peggiore è l’individualismo da classe business, di chi vede il mondo in fiamme, però in realtà si cruccia di più perché non gli funziona il caricatore del computer. L’individualismo di chi pensa: sì, ok, tutto brucia, ma io c’ho da fare a Milano. In „Apocalisse Tascabile“ e in „Sparanoia“, parliamo alla fine della stessa patologia. Una forma di indifferenza che si trasforma in accettazione fiacca del presente. Quello che cerchiamo di fare in scena è risvegliare il desiderio di azione nei tramortiti.
A proposito di "Sparanoia", le "istruzioni su come cazzo fare un colpo di Stato" le hai trovate?
No, purtroppo no. Almeno, non le mie. Ho esplorato le soluzioni delle generazioni passate. Non ho trovato ancora la mia risposta. Oggi si parla molto di diserzione. Una sorta di invito ad abbandonare il campo di battaglia e ritirarci in campagna, perché è tutto compromesso. Non sono d’accordo. Mi sembra una soluzione di comodo. Non voglio scambiare il mio desiderio di rivoluzione con un agriturismo.
Hai mai pensato a come potrà avvenire, se mai avverrà, una nuova sollevazione? Anche scherzandoci su (ma non troppo). Dal mio punto di vista non solo facciamo fatica a immaginare un futuro diverso, ma anche a provare a mettere un punto, a dire un no che abbia una sua forza. Probabilmente le due cose sono collegate: senza un'idea forte non ci si mette in moto (e contro).
Non saprei. L’attuale governo „fasciofriendly“ che impone norme repressive e vara tagli alla spesa pubblica mi inorridisce. Quelli prima erano pesantemente brutti e privi di immaginazione politica. Se penso che c’è tanta gente pagata per avvilirci, mi sale il vomito. Il mondo sembra piombato in una trama da western post-atomico con macchine che si guidano da sole e consegne di sushi a domicilio. Tutto ambientato nella bassa bergamasca e senza indiani che ci fanno la cortesia di scotennarci. Una merda. Se dovessi immaginarmi un domani per la democrazia, me lo immaginerei con a capo mio fratello Filippo. Ha quattordici anni, adora gli animali, ha un poster di Che Guevara in camera e legge fumetti. È la persona più saggia che conosco. A me sembra che abbia tutte le carte in regola. Al momento non vedo altre soluzioni.
Se il futuro non c'è, ci rimane il passato, rimpianto con nostalgia anche quando non è necessario, e il presente. Il presente diventa lavoro a un certo punto. E arriviamo qui a un tuo altro lavoro, "Solo quando lavoro sono felice", con Lorenzo Marangoni.
„Solo quando lavoro sono felice“ è nato dall’intenzione di analizzare le trasformazioni del lavoro nell’era post-fordista. Una volta saltato il patto sociale per cui un lavoro sarebbe stato garantito a tutti secondo politiche di piena occupazione, adesso siamo noi a doverci rendere appetibili per il mercato, lavorando sui noi stessi. E se riusciamo a farci assumere, è un premio per cui dobbiamo ringraziare. Licenziarsi è da ingrati, anche quando siamo sfruttati o sottopagati, perché il lavoro è una cortesia extra che ci viene fatta. In più, c’è un obbligo psichico, una sorta di dogma comportamentale, per cui il lavoro ti deve piacere, anzi nel lavoro devi realizzarti. In questo modo, il lavoro diventa un veicolo espressivo del soggetto, non più un semplice erogatore di stipendi. Da una parte è bello che gli individui si applichino per rendere una parte non indifferente della loro vita bella, decente e appagante. Dall’altra, c’è il ricatto per cui se stai lavorando, e quindi esprimendo te stesso, devi accettare qualsiasi condizione ti sia imposta, fino a non essere pagato. E poi chi cazzo l’ha detto che devo esprimermi nel lavoro? Gordon Gekko in „Wall Street“ dice al suo stagista che non gli basta che lavori, lui vuole essere stupito dal suo lavoro. E per farlo, lo stagista deve impegnarsi molto di più. Deve metterci del suo. Ma io perché nel lavoro devo metterci del mio, perché devo fare della mia schiavitù salariata una passione? Chi è l’infame che ha deciso che le assunzioni dovessero avvenire in base a delle lettere di motivazione? L’unica motivazione valida per me è vedere i vostri uffici crollare. Mi assumete? La mia risposta nello spettacolo è il luddismo, un recupero gioioso della distruzione dei mezzi di produzione. Marx non sarebbe stato d’accordo, ma sono fatti suoi. Io la mia missione l’ho capita, non mi fermerò finché non avrò distrutto tutti i tablet nel mondo. Il lavoro con Lorenzo Maragoni è stato bellissimo, è un artista che stimo e un amico del cuore, con cui continuo a collaborare. A breve uscirà un libro, con la casa editrice TLON. Parla di talento e del perché sia una sindrome lavorativa, da cui dobbiamo al più presto guarire.
Tu che rapporto hai con il tuo lavoro?
Le trasformazioni di cui ti parlo, sono ancora più palpabili nel mondo del lavoro culturale. In questo campo, gli artisti sono portati a credere che il datore di lavoro sia un benefattore, che ha senso lavorare anche senza essere ripagati dello sforzo, perché in fondo non è lavoro se ti do una sala prove per esprimerti: è un regalo. Questo ci porta ad abbassare le tutele lavorative, a supplicare per una paga decente, ma senza mai incazzarci. Perché potremmo perdere la condizione di privilegio che ci viene generosamente elargita. Io questo l’ho subito moltissimo, fino ad arrivare a un vero burn-out nel 2022. È stata un’esperienza con un suo valore epistemologico, ho capito molto di me e della storia che stiamo vivendo. Quasi mi azzarderei a dire che capisci poco del Duemila senza avere un esaurimento nervoso.
A proposito, non ti ho ancora mai chiesto come sei finito a fare teatro e scrivere spettacoli.
Alle elementari ero un bambino piuttosto iperattivo. Non capivo la divisione tra ricreazione e orari di lezione, salivo sui banchi e declamavo. A un certo punto, le maestre hanno pensato che fosse bene che venissi seguito da un insegnante di sostegno. Credo che a quel punto il teatro sia stato valutato come un’alternativa espressiva per un bambino problematico. I miei genitori hanno cominciato a farmi frequentare un corso di teatro e qualche ora in classe allora sono riuscito a trascorrerla seduto. Ho imparato le tabelline e gli affluenti del Po. Ecco, non è cambiato nulla. Il teatro resta questo per me, un’alternativa espressiva al mio io-bambino problematico. So che starei male se smettessi. Non so, a 28 anni, quale sarebbe l’alternativa repressiva all’insegnante di sostegno che sarebbe messa in campo dal Governo per contenermi e farmi stare seduto? Credo il carcere. Quindi farmi fare teatro è un buon compromesso per l’ordine pubblico. Se mi tolgono il teatro, io faccio il matto.
Tu sei di Roma ma hai studiato a Bologna, quando di queste due città c'è nel tuo lavoro?
Bologna e Roma sono i miei due poli gravitazionali, sono due città a cui sono legato a doppio filo e che amo e odio allo stesso modo. Roma è stancante, disperante, piena di bellezza antiquaria accumulata nei secoli e senza ordine, è ingenerosa, trafigge il battito del cuore dei meglio intenzionati. Bologna è inospitale, ha affitti da rapina e portici da labirintite, se oggi ci passeggi hai l’impressione che sia una città sempre in fiera, ha un cuore politico usurpato dagli imprenditori del tortellino e dagli studentati di lusso, però è una creatura selvaggia perché gli studenti ancora ci abitano e a tratti squarciano il velo di Confindustria con proteste e cortei, con feste improvvisate. Sono entrambe città del delirio, città del vortice e città per chi vuole perdersi. Io ci torno spesso, perché mi mancano. E sono presenti entrambe nei miei lavori. „Apocalisse Tascabile“ si ispira alla stazione di Roma Termini, che è l’immagine plastica dello spasmo di secolo che viviamo, la sintesi esatta di infarto e consumo militarizzato. Invece „La Sparanoia“ si ispira cromaticamente alla stazione di Bologna Centrale, giallo e grigio, che sono colori di regime che comandano la depressione. Non sono colori neutrali, ma hanno in sé un obbligo di disciplina, di severità, di autorepressione. La stazione di Bologna Centrale è un luogo in cui non si potrebbe mai avere un rapporto sessuale, è un luogo blindato dall’eros, prescrive la castrazione psichica. Chi entra nella stazione di Bologna Centrale non pensa, può solo percorrere i percorsi segnalati. Al centro di un corridoio c’è un grande occhio, una telecamera di sorveglianza che è il totem freudiano del controllo dell’orda. E aspetta solo di essere divelto. Da questo sistema panoptico, è nato lo spunto per il testo. Perché credo che la paranoia organizzata in quella stazione, sia la stessa paranoia che abita nell’individuo, una paranoia contro cui bisogna armarsi e sparare: „Sparanoia“. Radio Alice diceva: darsi carezze e costruire piccole macchine da guerra.
La città ci porta alla politica e un altro Lavoro ancora, "Uno spettacolo italiano", stavolta in coppia con Nicola Borghesi.
Volevo fare uno spettacolo sulla destra da tempo. Questo la destra lo sapeva, per questo si è sbrigata a vincere le elezioni, per rubarmi l’idea. Adesso lo spettacolo se lo fa da sé, tutti i giorni. Si mette in scena e in televisione, si racconta e ha tutti i microfoni puntati addosso. La sbronza egemonica che sta vivendo è senza precedenti. Vogliono una classe intellettuale, hanno fame di miti e di nuove autonarrazioni. Devono costruirsi da capo, partendo però dalle origini, le loro, le peggiori. Quindi abbiamo scoperto che è difficile fare uno spettacolo sulla destra, per questo con Nicola Borghesi abbiamo optato per fare uno spettacolo sulla destra dentro di noi. Il primo provvedimento preso dalla destra al potere è stata la chiusura dei rave. È interessante che tra tante cose che non vedevano l’ora di vietare, i rave siano stati i primi. Io penso che dietro ci sia un’offesa storica. Cioè che ai rave la destra non è mai stata invitata. E questo la fa sentire oltraggiata. Quanto si staranno divertendo questi giovani di sinistra, sta a pensare. Quanto si drogheranno, senza di me! E allora prepara piani di attacco e di chiusura. Dietro la chiusura dei rave c’è sicuramente la più pura paranoia di destra nei confronti del corpo. Il corpo che vuole la destra è un corpo disciplinato, reso docile, che lavora e si riposa. Non sopporta i corpi in piazza, le moltitudini ballanti, la massa lei la accetta solo quando uniformata da un principio di ordine. Ai rave partecipa una massa festiva, secondo la definizione di Canetti in „Massa e potere“, cioè una massa che supera i divieti e attraverso la concentrazione dei corpi, moltiplica la vita. Nella massa festiva, l’individuo si scopre molti, si libera della paura di essere toccato. La destra è terrorizzata dall’Altro, sia „zecca“ o immigrato, e per prima cosa difende i confini nazionali e della proprietà privata. L’esperienza disidentificante dei rave la mette in discussione. Io ai rave non ci sono mai stato e i medici mi hanno interdetto l’uso di qualsiasi sostanza, altrimenti slatentizzerei le mie psicosi. Però mi dispiace che siano resi illegali. Allo stesso tempo, quello che cerco di indagare nello spettacolo è la mia parte complice, l’alleato nascosto, il collaborazionista dentro di me, quel mio io questurino che un po’ a vedere i rave chiusi, ci gode. Fa male scoprire che esiste, una specie di horcrux di Fratelli d’Italia incastonato in ciascuno di noi, però esiste. Ed è per questo che questa destra è al potere, perché noi non siamo abbastanza di sinistra.
È molto interessante quello che hai detto qualche tempo fa in un'intervista: tra destra e sinistra c'è una battaglia molto forte sul linguaggio, un tentativo di risemantizzare alcune parole e riformulare il discorso pubblico. Possibile che a destra abbiano imparato i segreti del linguaggio e sappiano muoversi meglio in un presente social, che è al 90% fatto di comunicazione?
La destra guadagna terreno perché su questo è più preparata. E sta vincendo. La guerra delle parole, prima di tutto. Per questo cerco a teatro di combatterla su quel campo. Eco parlava di guerriglia semiologica, riferendosi all’esperienze di metalinguaggio poetico e surrealista di Radio Alice o di Nanni Balestrini, ma è una corrente vorticosa che attraversa la letteratura e la musica fino all’esperienza di Luther Blissett. La capacità di saper „détournare“, rovesciare, rimandare al mittente, schiantare le parole d’ordine del potere, mostrarle come involucri vuoti abitati solo da libido dominanti. Prendiamo, per esempio, la loro amata „patria“. Ecco, patria non significa un cazzo se non: preparatevi a morire per i nostri interessi, ancora. La guerra sta tornando una prospettiva realistica, per questo per loro ha senso adoperare questa parola. La sinistra come risponde? Quando sarà capace non solo di confrontarsi con la destra, ma di confutarla? Se ci pensi, è assurdo pensare che viviamo in un mondo in cui esiste una cosa tipo il “Ministro della Famiglia”. Della famiglia di chi? Ma di cosa si occupa durante la giornata? Che preoccupazioni ha? Ma fatti una vita! Eppure, un ministro della famiglia c’è. E c’è perché hanno vinto la battaglia delle parole.
Che idea hai tu dell'Italia, che Paese è?
Mi dà un enorme fastidio parlare di cose come l’ITALIA, mi viene la dermatite, se poi insieme con Italia, diciamo anche ITALIANI, allora mi dovete proprio ricoverare subito. Non mi piace il concetto di nazione, quasi non ci credo, mi sembra una categoria ottocentesca: inservibile, come anche quella di popolo, un concetto cafone fondato sul diritto di sangue e sulle armi, su una cultura raccogliticcia da sussidiario delle elementari, e pure NAZIONE mi puzza di truffa e di volemose bene, ma anche di virilismo bellicista, di culto dei martiri, di brigata Sassari e Mondiali del 2006, cavalleggeri e finocchiona. Io per difendermi, tutta questa paccottiglia neonazionalista la rifiuto in toto, per non infettarmi. Ho letto un libro pessimo di Della Loggia in cui dice che l’identità italiana esiste (come no, certo) ed è fondata su campanili e carabinieri. Ecco, io dico a chi la difende: teneteveli stretti i vostri campanili e carabinieri. Io sto benissimo senza patria.
Chiudiamo con due domande sul futuro. A cosa stai lavorando ora e cosa porterai di nuovo in scena prossimamente?
Sto provando a prendere la patente, ma è difficilissimo. Intanto, sto scrivendo un nuovo testo per il Teatro di Bolzano, si chiama „Il perdente“. Commedia con disprezzo e a maggio lo presenterò per la rassegna Wordbox, con me ci sarà anche Jacopo Pallagrosi, che è un filosofo, amico e collaboratore. Poi partirà la nuova produzione, che sarà „Orgasmo“. Prosa dispiaciuta sulla fine del sesso, con cui debutteremo a gennaio del 2026. E poi c’è il „Concerto“. E il libro con TLON. Nel tempo libero, mi sto costruendo un razzo termobarico. Voglio diventare una potenza nucleare.
A rivoluzione vinta, quando sarai a capo del mondo intero, cosa farai?
Darei appuntamento a tutti a Gatteo a Mare, per ballare il liscio.