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Paola Pivi

Dopo le vetrine de la Rinascente a miart, inaugura da Massimo de Carlo a Londra il 21 aprile

Geschrieben von Rossella Farinotti il 16 April 2017

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Attività

Artista

L’intervista con Paola Pivi – in occasione della sua presenza a Milano per il progetto I’m tired of eating fish all’interno delle 8 vetrine di la Rinascente, a cura di Cloe Piccoli – si è trasformata in una conversazione a 3, grazie alla presenza di Karma Lama, suo marito e compagno di avventure. L’artista ci ha raccontato gli ultimi progetti, quello a Milano, che segna un grande ritorno italiano, e quello a Londra da Massimo De Carlo – che inaugurerà venerdì 21 aprile – dove è protagonista un’installazione immersiva dedicata all’ultima esperienza vissuta in India. Dopo areoplani rovesciati su un lato – il primo progetto di quando ancora era studentessa all’Accademia di Brera -, cavalli sulla Tour Eiffel, o che “navigano” in mezzo al mare, la mostra al Dallas Contemporary dello scorso anno, dove gli orsi, presentati precedentemente da Perrotin a Parigi e poi alla Sandretto, erano i reali protagonisti, la Pivi ci racconta perché ha deciso di portarli a Milano, perché non lavorerà più con animali addestrati e racconta il suo approccio, naturale e necessario, nel produrre arte. Perché le opere della Pivi hanno il duplice compito di colpire un pubblico ampio – per l’estetica d’impatto e ironica -, ma di essere profondamente complessi nella loro storia e ideazione.

Paola Pivi, Yee-Haw (horse), 2015
Paola Pivi, Yee-Haw (horse), 2015

Inizierei parlando del tuo ritorno qui, a Milano. Un rientro in grande stile, quasi fragoroso, vista la monumentalità delle opere che hai presentato per le 8 vetrine de La Rinascente in piazza del Duomo. Con Zero abbiamo notato una tangibile presenza, negli ultimi 3 mesi, di artisti italiani della tua generazione nelle gallerie private e all’interno di luoghi istituzionali, soprattutto in vista di miart. Penso alla mostra di Diego Perrone da Massimo De Carlo, la tua galleria, a Rä di Martino che espone da Monica De Cardenas, e poi ancora Claudia Losi, Bruna Esposito, Flavio Favelli, Adrian Paci e così via… e poi, finalmente – e qui parlo da fan – Paola Pivi per un progetto d’arte pubblica. E Milano, recentemente, è tornata una città attiva e prolifica per quanto riguarda il contemporaneo. La tua ultima mostra da De Carlo risale al 2008, l’intervento con Fondazione Trussardi al 2006.
Sì, la relazione con la galleria non è mai cessata. Con De Carlo collaboriamo sempre. Un esempio importante è l’opera Untitled (pearls)(beautiful day) del 2012 che Massimo mi ha aiutata a produrre. Un lavoro molto grande fatto di perle vere. Un’opera utopica grandissima di 1 metro e mezzo per 1 metro e mezzo, costituita da centinaia di migliaia di perle coltivate di 28 colori diversi a creare una graduazione cromatica dal bianco al nero, dal rosa all’arancione. La espose per Art Basel Miami. Anche se si trattava di una fiera, una produzione di questo genere mi ha fatto sentire ancora più forte questa collaborazione con Massimo. Insomma, era un’operazione fatta con grande trasporto.

È come essere in una famiglia.
Penso a Massimo più come un complice.

È la sua forza, anche mettere i suoi artisti in relazione con musei e istituzioni. Come ad esempio a Firenze l’anno scorso, quando ha presentato la scala di 20 metri di altezza a Palazzo Strozzi.
È vero. Quel lavoro a Palazzo Strozzi è chiamato Untitled (Project for Echigo-Tsumari).
Era stato creato per la Triennale di Echigo-tsumari, che inserisce le opere degli artisti all’interno di una grande valle. Gli artisti possono fare arte dove vogliono: in un fiume, in una casa, in un museo, su di una montagna, in una strada. Ho fatto questa scala gonfiabile per essere appoggiata ad una scuola in un piccolissimo villaggio rurale, all’esterno. Qualche mese dopo la galleria fu coinvolta totalmente nel progetto di Palazzo Strozzi, per portare la scala direttamente dal Giappone a Firenze ed esporla all’interno del cortile costruito nel 1538. La scala gonfiabile, colorata, come uscita da un cartone animato, inserita nel contesto degli archi preziosi, antichi ed anch’essi sovrapposti come pioli del cortile, con le due dimensioni della scala e del Palazzo in dialogo diretto perché la scala raggiungeva l’ultimo piano con precisione che sembrava studiata, era presentata in una delle situazioni più felici che io abbia mai creato.
In Giappone l’avrebbero comunque smantellata in inverno per via della neve che nella valle raggiunge i 4-5 metri di altezza. Una volta che aveva iniziato a viaggiare da Firenze l’ho portata anche a Dallas dove costituiva uno dei poli della mia mostra al Dallas Contemporary, questa volta esposta all’ interno in una grande sala.

Paola Pivi, Palazzo Strozzi
Paola Pivi, Palazzo Strozzi

Torniamo alla tua relazione con Milano. Come dicevo all’inizio è importante questo tuo ritorno. Nel 2008 c’è stata la tua “colorata” personale It’s a Cocktail Party da Massimo in via Ventura. E poi hai realizzato un progetto che ha delle similitudini con questo di Rinascente, banalmente perché era in una vetrina, quella del Museo del Novecento, dove avevi installato l’ironica opera Nice Ball. È divertente questa relazione tra il pezzo sofisticato, quasi un tributo al design, per il Novecento e poi queste gigantesche installazioni per le 8 vetrine della Rinascente a cura di Cloe Piccoli. Ti chiedo come è nato I’m tired of eating fish con Cloe e la Rinascente e se pensi che ci sia una relazione con la piccola vetrina che avevi realizzato con Marina Pugliese al Museo?
La relazione è che sono stata invitata per entrambi e ne ero felice. È una peculiarità che sia accaduto. Sono due luoghi geografici e architettonici molto simili ma usati in modi completamente diversi dai rispettivi enti. Nel caso della vetrina del Novecento penso che quell’area del museo non sia utilizzata al massimo, mi pare che non venga sfruttata la potenzialità di comunicazione con il pubblico che passa di lì. Al contrario, l’opera del neon di Fontana all’ultimo piano nello stesso museo è sfruttata al massimo della sua potenzialità per la visibilità da parte del pubblico di piazza Duomo, una delle installazioni di arte pubblica più belle al mondo. Invece la vetrina del museo dove ero stata invitata a interagire, anche se è un luogo di passaggio, dove la gente cammina, avrebbe un grande potenziale per essere in costante relazione con i passanti, mi pare poco illuminata e non sfruttata al massimo. All’inizio avevo pensato di portare il mio lavoro Grrr Jamming Squeak, che è uno studio di registrazione musicale aperto a tutti gratuitamente per fare musica ma con l’aggiunta dei suoni degli animali. Ogni vetrina avrebbe mostrato l’interno dello studio, la gente avrebbe suonato all’interno e i passanti sarebbero stati spettatori, e ci sarebbero state le immagini degli animali e magari il suono con i ruggiti si sarebbe sentito anche fuori. Sarebbe stato un modo per attivare quell’area come un’estensione del museo nella strada. Ma ciò non fu possibile nel disegno finale di quell’area del museo, perché mi destinarono un’unica vetrina. Così ho optato per il lavoro che mi era stato precedentemente commissionato dal Museum of Modern Art di Varsavia proprio per le vetrine: una lampada sferica fatta di tante sedie in miniatura di Vitra, chiamata Nice Ball, di cui sono ancora molto felice. Quindi fu un intervento diverso, come una cosa raffinata e discreta da scoprire in un luogo un po’ nascosto. La Rinascente invece sfrutta le proprie vetrine al massimo dell’interazione con il pubblico, e quindi ho deciso di esporre i miei orsi polari, ed è stato un grande successo: moltissima gente non riusciva a contenere le risate e si metteva in posa con gli orsi, come se la gente fosse parte delle vetrine o come se le vetrine si estendessero alla gente.

Paola Pivi, Senza titolo (aereo), 1999. Photo- Armin Linke
Paola Pivi, Senza titolo (aereo), 1999. Photo- Armin Linke

Condivido il fatto che verso piazza Diaz il Museo non si nota. Quel lato avrebbe delle potenzialità non sfruttate. Mentre ovviamente la Rinascente, che ha un altro scopo perché è un grande magazzino, è invitante e più grandiosa. Per questo quando Cloe Piccoli mi ha raccontato del progetto per cui ti ha invitata ho pensato fosse naturale un tuo lavoro con gli orsi all’interno delle vetrine per il semplice fatto che i tuoi lavori, a livello estetico, sono molto pop. “Pop” nel senso stretto del termine: sono facili da comprendere per la gente che non è preparata sul tuo lavoro. Sono colorati, divertenti ed immediati. Che è poi quasi l’opposto del processo e dell’idea di partenza di quando inizia il tuo processo lavorativo, che è sempre un po’ criptico, complesso e fortemente concettuale. Quando sono venuta all’opening le vetrine erano appena state scoperte e già la gente si stava facendo mille selfie. Diverse tipologie di persona. Questa è una qualità del tuo lavoro.
Si può dire che la mia arte non dipende dalla definizione di arte. Alcune persone amano i miei lavori senza sapere che si tratta di arte contemporanea, o semplicemente di arte.

Paola Pivi, View of the exhibition _Ma'am_ by Paola Pivi at Dallas Contemporary
Paola Pivi, View of the exhibition _Ma’am_ by Paola Pivi at Dallas Contemporary

E ti piace questa cosa? È voluta?
Mi piace moltissimo. Perché credo fermamente che tutti gli esseri umani siano uguali, e odio la separazione delle culture. Il fatto che alcune conoscenze diventino incomprensibili per qualcuno non mi piace. Il fatto che la mia arte sia comprensibile da chiunque, come dici tu, non è pianificato. Penso sia semplice: faccio la mia arte e le persone sono libere di guardarla o non guardarla; di capire o non capire; di apprezzarla o di non farsela piacere; di pensare che sia arte o che non lo sia. Non è qualcosa che pianifico. Viene fuori così, ma questo è un valore aggiunto.
Karma, pensi che la mia arte sia difficile o semplice?
K.L. Difficile per chi?

Per le persone che la guardano.
K.L. Rossella, cosa intendi? È difficile per te?

Paola Pivi, Senza titolo (asino), 2003 Photo Hugo Glendinning Courtesy Massimo De Carlo
Paola Pivi, Senza titolo (asino), 2003 Photo Hugo Glendinning Courtesy Massimo De Carlo

Non è difficile per me il lavoro di Paola, ma probabilmente perché sono preparata e fa parte della mia formazione e lavoro. Quindi non posso essere neutrale. Però penso che ci siano degli aspetti complessi, quasi criptici della sua opera. Come abbiamo detto: da un lato l’estetica di alcuni lavori è accattivante, divertente, tenera e coloratissima, come nel caso degli orsi. Ma se ti soffermi vedi cosa c’è dietro: l’essere umano, per esempio, le pose, gli atteggiamenti sono i nostri. E questo è intenso. Dipende da chi fruisce: Nina, mia nipote, davanti alle vetrine ballava e imitava gli orsi, le piacevano, senza sapere nulla. Ecco questa è la cosa: la Pivi può essere apprezzata da chi non ha preparazione nel settore.
K.L. E cosa pensi quando vedi la sua arte? Vedi l’arte, o gli oggetti? È arte, e basta. Poi ti puoi fare delle domande: perché quell’oggetto è posato a terra? Perché quell’altro è rovesciato? Cosa ha portato Paola a fare questo gesto? L’ha fatto e basta. Non credi possa bastare?

La domanda “cosa l’ha portata a realizzare quel gesto” però la poni a te stesso. Quindi, almeno nel mio caso, devo appunto sapere il perché. Come ci è arrivata a quella cosa lì? Perché ha riempito ossessivamente i Vecchi Magazzini della Stazione di porta Genova con migliaia di oggetti a coppia. Ecco, nel caso di quella mostra con Fondazione Trussardi, My religion is kindness. Thank you, see you in the future, entravi in quelle stanze e non avevi bisogno di spiegazioni. Era così, strano e bellissimo. E talmente forte, che ti piaceva senza saperne il perché. Ma poi, tornando a casa, ti chiedi “cosa c’è dietro”?
K.L. Noi esseri umani vogliamo sempre sapere il perché delle cose. È arte. È stata realizzata perché è li, perché non avrebbe dovuto farlo? È come un gioco, pensa ai bambini: perché scelgono un gioco e non un altro. Perché decidono di intraprendere un’azione? Perché si sentono di farla in quel momento. Alla fine della giornata ti rendi conto che era solo un gioco.

Paola Pivi, Untitled, 2005
Paola Pivi, Untitled, 2005

Quindi possiamo dire che a Paola piace giocare con l’arte e con tutte le cose che le piacciono? E che non smette mai di giocare.
K.L. Dipende con cosa giochi. Pensa a quanti giocattoli diversi esistono: orsi, areoplani… che chiamiamo genericamente “giochi”.
Il termine “giocare” è buono per le mie opere. Ma non è abbastanza. Il concetto reale è la libertà di toccare, di appropriarsi di qualcosa. Questa libertà la possiede ogni essere umano. Posso entrare in un negozio e comprare un maglione, questo è lo standard. Ma espando un po’ questa interazione col mondo. In particolare, ho sentito questo concetto molto forte quando ho messo i cavalli sulla Tour Eiffel – Yee-haw, 2015 -. In quel progetto ho proprio sentito che stavo giocando con la città che, insieme ai cavalli, era uno degli ingredienti del lavoro. L’arte era fatta con la città, la Torre era la rappresentazione di Parigi e della sua storia, oltre che ad essere, da sola, un grande giocattolo. Quindi non c’è nulla di sbagliato nell’utilizzare la parola “gioco”, ma nella sua concezione più elevata. Non è soltanto giocare.

Nel senso di ludico? Di giocare non per divertirsi, ma perché risponde a una necessità.
È un gioco sofisticato. Pensate ai bambini: quando giocano sono seri. Non sono più una bambina, ma gioco in maniera forte, e continuamente. “Gioco” dalla mia posizione all’interno della società.
K.L. Anche i bambini, quando fanno qualcosa, in quel preciso momento, lo fanno in maniera molto seria. Hanno uno scopo preciso.
Esatto, e non provo a imitare quel tipo di gioco dei bambini, è una cosa diversa. Gioco molto duramente dalla mia posizione nella vita.

In questo caso subentrano anche delle responsabilità specifiche, perché sei anche una figura pubblica.
Sì, questo è anche il motivo per cui, per esempio, non voglio più fare arte con gli animali. La mia figura è cambiata, e dunque deve cambiare anche quello che faccio. Quando ero studente ho messo un camion da rimorchio sdraiato su un lato: se lo facessi oggi, sarebbe completamente diverso. Assume un altro significato. Quando ho realizzato l’opera nel 1997 ero completamente sola, con il mondo contro di me, ma, chiedendo in prestito 3 milioni di lire (circa 1500 Euro), e con il supporto di Ettore Spalletti – che sentì della mia idea a cena e disse agli altri di lasciarmela fare – l’ho fatta. L’occasione era la mostra Fuori Uso a Pescara che, per quell’anno, aveva anche la sezione dedicata ai giovani, dove ho portato il camion, appunto. E poi c’erano artisti famosi come Spalletti, o Carla Accardi.

Successivamente hai fatto una bi-personale con l’Accardi?
Nel 2013, sempre da De Carlo. Once Upon a Time (A Dream By Paola Pivi) era il titolo. Per me è stata un’esperienza molto importante e, anche se entrambe non siamo potute andare alla mostra – lei soffriva di schiena e io ero bloccata in India -, scrissi una lettera che divenne il comunicato stampa, che iniziava con “Carla Accardi è il mio guru…”. Di nuovo fu Massimo De Carlo che curò con passione la mostra.

Parlami degli orsi: quando sei stata chiamata da Cloe Piccoli e da la Rinascente avevi già in mente di mostrare questo corpo di lavoro per quest’azione pubblica in dialogo con piazza Duomo? Quando è successo?
Questo è importante: la Rinascente non mi ha chiamata direttamente, ma volevano un curatore che facesse da tramite. Questo fa una grande differenza quando aziende di questo tipo vogliono sviluppare un lavoro con l’arte contemporanea. Cloe e la Rinascente non mi hanno chiesto di utilizzare brand specifici. Mi hanno offerto uno spazio in cui fare una mostra. E questo era molto stimolante. Avevo anche visto la mostra di John Armleder lo scorso anno, a Natale, ed era bellissima. Questi punti di partenza mi hanno fatto subito sentire a mio agio. Così ho iniziato a pensare a cosa fare: stavo attivamente lavorando ancora con gli orsi che sono stati la scelta immediata. So che hanno una grande relazione con il pubblico. In più lo spazio delle vetrine era piccolo per opere come l’aereo, per esempio. E quindi mi sembrava la scelta più naturale. Quando stavamo realizzando il progetto, ho anche scoperto che gli orsi piacevano molto anche alle persone di Rinascente.
Con Cloe abbiamo iniziato a lavorare la scorsa estate. Sono anche accadute diverse coincidenze, una tra tutte è stata davvero particolare, grandiosa: Cloe e Tiziana Cardini, l’art advisor di la Rinascente, stavano prendendo un caffè da Marchesi in Monte Napoleone pensando “come possiamo chiedere a Paola Pivi se vuole realizzare un progetto con noi? Non sappiamo dove trovarla.” In effetti negli ultimi 4 anni sono stata bloccata in India ma, in quell’esatto momento, sono entrata con Karma e Maurizio Pecoraro nello stesso caffè.

Paola Pivi, TRITTICO at Fondazione Prada
Paola Pivi, TRITTICO at Fondazione Prada

Sembra un segno del destino.
K.L. In quel momento eravamo davvero presi per altre cose in India. Sapevamo del progetto, ma ancora non ne avevamo parlato. Eravamo a Milano per poco, volevamo prendere un caffè e così ci è sembrato davvero un destino quello ascoltare il progetto. Anche loro hanno pensato fosse una coincidenza troppo forte, e che si doveva per forza fare il progetto.
E come potevo dire di no se mi offrivano le 8 vetrine senza dover usare i brand? Era troppo bello. Mi offrivano la parte storica de la Rinascente, che è poi una realtà da sempre attenta all’arte.

Esatto, pensa solo al nome che fu ideato da Gabriele D’Annunzio, loro consulente. O a collaboratori come Munari, Gio’ Ponti – con cui fondarono il Compasso d’Oro -. Insomma, come dici tu, un luogo storico e simbolico per Milano.
Pensa anche alla relazione con la famiglia Bocconi, che sono stati fondatori, e hanno aperto poi la Bocconi. E poi, a livello umano, la Rinascente ti accoglie bene. A noi piace andare lì: l’atmosfera è buona, ti senti al centro del luogo.

Lo sai che anche il tuo gallerista francese, Perrotin, ha postato l’orso che ha casa sua su instagram qualche giorno fa?
Non lo sapevo. Beh è divertente. Perrotin ha inaugurato la sua sede newyorkese nel 2013 con una grande mia mostra di orsi colorati, dal titolo Ok, you are better than me, so what?

Prima hai detto che non utilizzerai più gli animali per i tuoi progetti.
Si, basta animali vivi in cattività e addestrati. A meno che non possa usare animali selvaggi in contesti selvaggi.

Paola Pivi, Grrr Jamming Squeak_ at Coolsingel Sculpture International Rotterdam
Paola Pivi, Grrr Jamming Squeak_ at Coolsingel Sculpture International Rotterdam

Parlami di Londra. Non ci saranno animali, ma un’importante installazione sulle bugie che avete dovuto subire tu e Karma negli ultimi anni.
Si tratta delle bugie che sono state dette come arma contro di noi nel 2013, quando siamo andati in Tribunale in India per difendere i diritti di nostro figlio adottivo, che in quel periodo aveva 5 anni. Abbiamo iniziato un procedimento legale contro il Tibetan Children’s Village (TCV) di Dharamsala, in India, e la reazione del presidente della istituzione è stata quella di rispondere in tribunale attraverso moltissime menzogne.

Che tipo di menzogne?
Ci hanno accusato di aver rapito il bambino, di non averlo mai incontrato prima di allora, quando invece ce lo avevano dato loro in affidamento e la cosa era completamente legale come riconfermato dalle Corti Indiane; che non eravamo sposati; che Karma era un monaco tibetano, e non un musicista; che eravamo in collegamento con la Cina; che avremmo abusato del bambino per altri scopi… insomma una montagna di bugie. Era scioccante. Il mio cervello stava scoppiando: come italiana all’estero, con il rischio di perdere mio figlio, in una situazione dunque fragile, questo tsunami di bugie mi rendeva ancora più confusa.

Cercavano di farvi un lavaggio del cervello?
Esatto. Grazie a dio Karma non è come me, lui ha uno spirito libero e lottatore, e queste cose non lo affliggevano.
K.L. La verità è una sola. Non ce ne sono altre. Ci eravamo trasferiti in India nel 2012 per vivere lì con nostro figlio per il quale avevamo avviato il processo di adozione.
Ho realizzato cosa fosse il potere delle bugie. E, per fortuna, avevamo diverse prove per difenderci: come artisti custodiamo tutto. Fotografie, video, email – anche vecchissime – che tengo sempre. Avevamo le prove della verità. Il potere delle menzogne era utilizzato come arma contro di noi e così, nel 2013, ho iniziato a pensare a una installazione su queste bugie. Ma non potevo realizzarla perché, mentre si è presso le Corti, bisogna limitare le comunicazioni pubbliche sui temi che sono presso le Corti. Abbiamo aspettato di vincere ogni singolo caso, che di fatto abbiamo vinto. Quindi ora posso realizzare questa installazione nel 2017.

Come mai vi hanno denunciato ancora nel 2015 dopo che l’adozione era già finalizzata nel 2015?
Non lo so. Chiedilo a loro perché l’hanno fatto.
K.L. Questa storia prenderebbe più di una settimana per spiegarla. Ti riassumo tutto dicendo che secondo me il fatto che qualcuno volesse aiutare quei bambini nella loro istituzione – dove erano maltrattati, e dove arrivano milioni di dollari annualmente dai privati – per loro forse significava rischiare di perdere delle donazioni, dei soldi. Meno bambini, meno denaro. E quindi loro non vogliono aiutare i bambini senza famiglia, come dovrebbe essere naturale per ogni essere umano. A loro interessa solo il denaro. Perdere nostro figlio per loro probabilmente significava uno scandalo e una possibile perdita di donazioni. Quindi abbiamo deciso di lottare contro questo, sapevamo che non sarebbe stato semplice, ma volevamo proteggere nostro figlio dal trauma di esserci tolto.

E ora vivete tutti e 3 in Alaska, e quanti anni ha vostro figlio?
K.L. Ha 10 anni. E sì, viviamo insieme in Alaska.
Ti abbiamo raccontato tutto questo per spiegarti come è nato questo lavoro che presento a Londra. E molte cose sono cambiate dal 2013 al 2017: le bugie sono aumentate nella trama sociale. Ci sono bugie ovunque: nei governi, nei referendum, dai politici, la bugia eclatante delle armi di distruzione di massa in Iraq… ora le bugie fanno parte del “social drama”. Stanno ovunque.

Può essere anche visto come uno sfogo?
Più che uno sfogo – forse se l’avessi fatto nel 2013 – è più che altro un super sofisticato atto di libertà. Posso mostrare questa opera, finalmente! Non ho più restrizioni.

In cosa consiste l’opera?
È un’installazione immersiva costituita da migliaia di fotografie e di bugie.
K.L. E tutte queste bugie che ci sono state rivolte, e tutta questa storia che ti abbiamo accennato, sono reali e possiamo provarle.

Collaborate insieme Karma e tu?
Collaboriamo, lavoriamo insieme, ma le sue canzoni sono create e realizzate da lui, come la mia arte è fatta solo da me. Karma è un musicista, mentre io un’artista. Due cose separate, ma ci piace condividere tutto, costantemente. I titoli però li pensa tutti lui, poi li scelgo. Ci supportiamo molto. Per la Rinascente è stato così.

Da quando?
Da quando ci siamo conosciuti nel 2006.
K.L. Se qualcuno, come te, ci chiede questa cosa rispondo: faccio musica, e quando la faccio chiedo a Paola più volte cosa ne pensa. Alla terza volta mi dà dei consigli. E io li ascolto. Se credi a una persona ti fidi sempre di lei. Ecco cosa vuol dire “lavorare insieme”.

È uno scambio. E Karma, piace anche a te giocare, dato che i titoli delle opere della Pivi sono sempre molto narrativi e ironici?
Immagino di sì. Mi piace raccontare, sono un cantautore.

Pensavo a questi ostacoli che avete affrontato negli ultimi anni e al fatto che non vi siate mai fermati a livello creativo.
Non ci siamo mai fermati nel creare arte e musica. È stato quasi un miracolo. In India è accaduto tutto grazie a un grandioso team che ci supporta. Ho una forte relazione con le persone con cui collaboro. Quando ero bloccata in India tutti i collaboratori sono stati meravigliosi: installavano le mostre al posto mio; mi aiutavano; facevamo tutto via skype.

È ancora “in progress” quel progetto che hai fatto in Asia: Tulkus 1880 to 2018?
Il progetto esiste ed è stato esposto 3 volte: al Castello di Rivoli (2012), presso il Witte de With, Center for Contemporary Art in Rotterdam (2013) e al FRAC in Borgogna (2014). La mia idea era di arrivare a 10 mostre entro il 2018, per questo diedi il titolo con quella data, e di continuare la ricerca sui tulkus ma sono stata interrotta nel 2013 quando sono iniziate le cause contro il Tibetan Children’s Village.

A quanti ritratti sei arrivata?
1100 ritratti, la maggior parte di grande formato, ed ho comunque accumulato una quantità straordinaria di foto e informazioni storiche.

Sono felice che vi piaccia Milano, che è poi la tua città. Così posso chiedervi se ci sono dei posti che frequentate quando siete qui, a parte lo storico Marchesi.
Quando veniamo qui spesso prendiamo un airbnb vicino al Duomo, ed è fantastico. Facciamo colazione in piazza del Duomo! Stupendo. Mi piace molto camminare in via Dante, dove c’è il mercato medievale. Quella piazza, quel mercato sono speciali. Mi piace anche il Castello Sforzesco, e il Parco, e il Duomo.

Finalmente qualcuno che mi dice luoghi storici della città, che sono i più evidenti, ma i milanesi magari non ci passano più.
Penso che sia dei milanesi il fatto di non lodare Milano. E mi piace che in questi luoghi puoi sviluppare un rapporto personale con certi monumenti della città. A differenza di altre città, dove questa relazione è più anticipata perché le meraviglie sono molto pubblicizzate.

E mostre ne avete viste in questi giorni?
Siamo riusciti a vedere solo la fiera. Ma torneremo.

Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2017-05-16