Ad could not be loaded.

Paolo Cerruto

Metti Allen Ginsberg al Casoret

quartiere Casoretto

Geschrieben von Giada Biaggi il 14 September 2020

Foto di Carmen Colombo

Se pensate che a Milano gli unici creativi in circolazione siano stylist, creative producer, registi di videoclip musicali, copy editor e così via; ecco Paolo Cerruto è una bella smentita a questa tassonomia professionale (e sinteticamente legittimativa) dell’hype very meneghina della quale siamo così assuefatte e assuefatti e ammettiamolo, infondo, anche un po‘ sature e saturi. Ho conosciuto Paolo allo Spazio Martin durante uno showcase del disco del suo nuovo progetto musicale, gli Addict Ameba. Paolo è un ragazzo che profuma un po‘ del fascino rivoluzionario che si respirava nelle pellicole del primo Bertolucci; quando ci parli respiri gli anni Settanta, ma ti immagini anche il 2030.

Se pensate che a Milano gli unici creativi in circolazione siano stylist, creative producer, registi di videoclip musicali, copy editor e così via; ecco Paolo è una bella smentita a questa tassonomia professionale dell’hype

Dopo una bella mezzora di una conversazione intensa di cui mi ricordo – dati i fiumi di birra in corpo – davvero poche cose tra le quali il fatto che mi ero sorpresa che sapesse chi fosse Giorgio Agamben, Paolo mi ha regalato un libro. Sorpresa da questo gesto aulico e antistorico ho messo il libro in borsa e me ne sono andata a una festa di compleanno a Parco Forlanini – la società contemporanea del resto ti educa emotivamente a reagire al ghosting; mica al ricevere un assembramento di cellulosa rilegata. La mattina seguente nei meandri del mio mal di testa ho scoperto che si trattava di un suo libro di poesie, e che Paolo era un poeta. Quel giorno mi ricordo di essermi reinnamorata un po‘ di Milano. Del fatto che nelle città è sempre e solo questione di storytelling – di come ce la vogliamo raccontare insomma e da chi siamo disposti e aperti a farcela raccontare.

Paolo all’opera – foto di Carmen Colombo
Paolo allo Spazio Martin – foto di Carmen Colombo

Ai tempi della trap, cosa vuol dire fare poesia a Milano? Possiamo considerarlo un atto di resilienza politica a suo modo?

Direi di sì, con il collettivo Tempi diVersi dal 2013 promuoviamo un’idea di poesia pubblica; possiamo vantarci di aver “svecchiato” la fruizione e la condivisione di versi con iniziative di strada, nei circoli o nei centri sociali, così come ha fatto a suo modo il poetry slam nell’ultimo decennio. Di sicuro partecipare a una serata di poesia è diverso dal ballare in un locale dove non ci si sente quasi; insieme a tanti giovani o meno giovani abbiamo sentito la necessità di abbassare il volume e provare a parlarci, nonché di attraversare la città come ci pare, salutando le cabine in via d’estinzione o regalando una voce ai monumenti. Sono orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto perché tanti collettivi, sorti in tutta Italia, si sono ispirati alla nostra esperienza, ingenua ma sincera. La trap è un fenomeno molto complesso e per molti versi curioso e positivo, ma di sicuro sta contribuendo a impoverire il linguaggio e, cosa inquietante, ha una dimensione principalmente “online”, disconnessa dalla strada.

Come crescere in questo quartiere ha influenzato la tua scrittura?

Il Casoretto è un quartiere di confine. Inizia da piazzale Loreto, che vista dall’alto sembra un polipo. Da lì si sviluppa, poco prima che la città si affretti a finire, o per meglio dire a dissolversi nella “grande piana ipermercata”, come la chiama Capossela. Il Casoretto è quindi un porto, si affaccia verso il centro, verso le vetrine di Buenos Aires, ma è come se fosse staccato dalla città e proteso verso la periferia di Lambrate e Crescenzago. Di sicuro mi ha influenzato l’esperienza delle scuole medie, dove in classe avevo compagni con origini da tutto il mondo. Inoltre la scoperta della politica, grazie ai graffiti di Fausto e Iaio e al libro sulla banda Bellini, ha plasmato la mia persona e quindi la mia scrittura.

Se Milano fosse un verso che verso sarebbe?

Sono indeciso tra uno di Giovanni Testori (Milano città/metà culla/metà bara) e quello di un giovane poeta, Tommaso Russi (Milano, tu mi hai mai amato?). O ancora, pensando alle schiere di impiegati al nulla e di lavoratori indefessi, citando Pagliarani nei versi che sigillano La ragazza Carla: Quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste.

So che lavori a un Premio di poesia con musica, puoi parlarcene?

Il Premio Alberto Dubito di poesia con musica è stato istituito nel 2013 dalla famiglia e dagli amici di Dubito, un poeta e rapper di straordinario talento che si è suicidato a ventun anni. La sua voce continua a risuonare in migliaia di teste, anche grazie al premio di poesia con musica, il primo Italia, che valorizza le esperienze più significative tra rap, cantautorato e spoken word. La partecipazione è gratuita, e il premio è di 2000 euro, oltre a una pubblicazione con Agenzia X e la possibilità di partecipare a Slam X, il festival di musica e letteratura che si tiene ogni anno al Cox18.

Ti stai attivando in prima linea per la riapertura del cinema di Casoretto, come mai hai sentito questa urgenza di avere una sala buia nel tuo quartiere?

Il mio timore più grande è un futuro prossimo e distopico in cui la socialità sia ridotta alla dimensione del lavoro, e non ci siano più luoghi e occasioni dove incontrarsi. Il quartiere avrebbe molto bisogno di una sala polivalente, dove poter fruire di cinema, musica, teatro. Il pensiero che uno spazio così imponente fosse adibito a magazzino non mi andava giù. La risposta della parrocchia e del quartiere è stata caldissima, sono sicuro che nel giro di qualche anno riusciremo ad aprire e restituire il Nuovo Cinema Casoretto alla città. “Il cinema alla gente e la gente al cinema”, come dicono quei visionari de La Guarimba festival.

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti; qual è la tua parola preferita che in qualche modo si lega a Milano?

Più che una parola c’è una frase che mi rimbalza in testa da un po’: “bei gamber del Lamber”, il motivetto che solo un secolo fa gridavano i venditori di gamberi pescati dal Lambro. Fino al secondo dopo guerra i ragazzi facevano ancora il bagno nel fiume. Sarò un ingenuo e inguaribile ottimista, ma bramo un mondo in cui il Lambro non diventi verde fluo ma torni a essere balneabile. Un mio sogno ricorrente è quello di prendere la 55 per andare in spiaggia, subito dopo la collinetta del Lambro, che a strapiombo sul mare sembra quasi Copacabana.

Hai da poco iniziato un progetto musicale (Addict Ameba ndr) che in una maniera alquanto esotica si lega alla geolocalizzazione perimetrata di questo quartiere - da dove salta fuori questa glocalità musicale?

Devo dire che è stato tutto molto casuale. Insieme ai miei coinquilini, Edoardo Leveratto, talentuoso trombettista genovese, e Alex Cayuela Castilla, percussionista e artista visivo da Barcellona, abbiamo deciso di formare un gruppo. Per sommatoria si sono aggiunti gli altri sette elementi, provenienti da esperienze musicali diversissime; l’innesto di due musicisti salvadoregni, oltre a un batterista sanmarinese esperto di musica latina, ha proiettato le sonorità oltre l’oceano. Da lì abbiamo fatto diversi chilometri per tornare da queste parti, al Casoretto, pescando dalla musica africana e tuareg. Il risultato è una pangea che è lo specchio del quartiere e della città che viviamo.