Non abbiamo ancora capito se il Covid fa parte di un presente attualissimo o di un passato remoto: sappiamo che, secondo le nostre misurazioni tradizionali, sono all’incirca passati cinque anni e che quei mesi di sospensione di tutte le nostre routine hanno creato un glitch temporale che ci fa percepire quel periodo contemporaneamente vicinissimo e lontanissimo. In questa nebulosa (spazio)temporale, proprio nel 2020, ha preso vita la direzione artistica del MACRO di Luca Lo Pinto: un Museo per l’Immaginazione Preventiva concepito come un magazine, arrivato negli ultimi numeri a raccontarci della città: la Roma del passato e quella nuova nata dopo la pandemia, sintetizzata nel mini festival Sonata in programma fino a domenica 22 settembre. L’ultimo atto del mandato però sarà un altro ancora: „Post Scriptum“, un mostra che dal 4 ottobre andrà ad occupare tutti gli spazi del Museo, specularmente a quanto si era fatto con la prima, „Editoriale“. Cosa è successo in questi anni fuori e dentro il MACRO lo abbiamo chiesto direttamente a Luca Lo Pinto.
Prima di partire con il racconto di questi anni di direzione, farei un'inquadratura larga sulla città. Com'era nel 2020 e come sarà quella che arriverà nel 2025, da un punto di vista creativo e di produzione culturale?
Devo premettere che la mia cognizione del tempo in questi cinque anni è stata totalmente stravolta da quanto accaduto nel mondo e da quanto questo lavoro è stato totalizzante a livello personale. Penso che Roma, a dispetto delle patologie note che la affliggono, oggi sia un corpo culturale vivo, vivace, spinto soprattutto da un ricambio generazionale che, rispetto al passato, è più visibile. A livello istituzionale invece la situazione è diversa e sono molto pessimista. Per un attimo Roma sembrava avesse delle potenzialità, anche grazie alla presenza di figure culturalmente rilevanti in alcune posizioni strategiche, ma è stato un fuoco fatuo. Oggi, non esistendo nessun bacino critico, la cultura da un punto di vista politico è ridotta a un semplice strumento di piccole dinamiche di potere con una visione legata a ottenere un consenso immediato e circoscritto piuttosto che a una prospettiva più ampia.
Questi cinque anni sono stati segnati da una pandemia, pensi che sia stato un fattore determinante nei cambiamenti che hai appena tratteggiato?
È stato un fattore determinante a livello globale. Da un punto di vista locale ha creato un’accelerazione spazzando via un sistema che stava invecchiando ma che rimaneva ancora in piedi, lasciando spazio a un sistema culturale insieme precario, bipolare, effimero, confuso, emotivo, desideroso e ostinato.
Sonata sembra proprio raccontare questo aspetto: una città che crea e "consuma" i suoi prodotti come in un circolo. Se vizioso o virtuoso lo chiedo a te.
Roma consuma e ti consuma. È una creatura che ti costringe a rimanere con gli occhi aperti perché se abbassi il tiro ti uccide. Un’attitudine che se interpretata in modo positivo è un’esortazione a un’auto interrogazione costante; se la leggiamo con meno ottimismo, questo comporta che costruire qui qualcosa di duraturo e lineare è arduo.
Anche gli ultimi cicli espositivi del MACRO hanno messo molto al centro la città, spaziando nel tempo e nei linguaggi. C'è stato un filo conduttore tra le varie proposte, oltre al denominatore comune rappresentato da Roma?
L’ultimo slot di mostre è stato pensato come un numero tematico con Roma come protagonista, per rimanere nella metafora del magazine che ho voluto associare al museo. Abbiamo cercato di farlo a modo nostro, quindi presentando figure storiche ma che parlano al presente, associando linguaggi distanti sulla carta, ma tangenti una volta esperiti insieme. Quando crei un puzzle del genere ti stupisci sempre di come appaiano delle trame di senso e degli echi di lettura che non sembravano esistere.
Tornando alle considerazioni di prima, la pandemia ha influenzato questo movimento di rilettura della città? Se sì, in che termini?
Durante la pandemia secondo me Roma ha vissuto il vantaggio di saper sopravvivere in una situazione di emergenza perché è la sua condizione esistenziale. Oggi sta vivendo un momento di passaggio e nella corsa a voler allinearsi a una „globalitè“ rischia di perdere la stamina che l’ha fatta resistere.
Oltre che con il festival Sonata, ll tuo ciclo curatoriale al MACRO si chiuderà con un "Post Scriptum", un momento espositivo speculare all'Editoriale con cui il ciclo era partito. Ci puoi raccontare cosa vedremo?
Ci tenevo a concludere il progetto in modo coerente, chiudendo un cerchio senza sbavature, a sottolineare che il programma di questi cinque anni è stato portato avanti avendo sempre in mente l’idea del museo come mostra. Editoriale era una collettiva che si espandeva in tutti gli spazi del MACRO per la prima volta dalla sua fondazione. Era una dichiarazione di intenti, il desiderio di condividere con la città e il resto delle persone il viaggio che volevamo intraprendere. Post Scriptum è una nota nelle pagine finali che non deve frenare il ritmo del racconto. Il sottotitolo, preso in prestito da Vincenzo Agnetti, è “un museo dimenticato a memoria”. Smantelleremo la griglia del magazine con le varie sezioni che gli hanno dato forma per riportare l’architettura a nudo per poi attivarla con un palinsesto di opere, suoni, immagini, racconti, parole, che lo invaderanno tutto una seconda volta. Mi piace immaginare questa mostra come un jam session la cui musica possa riecheggiare a lungo nella memoria di chi la vedrà o ascolterà.
Ci sarà anche un installazione data 1961 che chiuderà il trittico finale di proposte del Museo.
„Yard“ di Allan Kaprow è come una canzone che, nonostante sia stata scritta sessant’anni fa, non è invecchiata. È un’opera assolutamente attuale sia da un punto visivo che concettuale. Per i molti che la conosco sarà un’opportunità di vederla vivo e di animare un’immagine che abbiamo studiato nei libri di storia. Per tutti gli altri sarà un’epifania insieme allegra e nefasta. „Yard“ è come un caleidoscopio che, a seconda di come lo ruoti, acquisisce dei sensi diversi. È una della qualità più importanti per un’opera d’arte.
Il recupero del passato è stata una tua costante del tuo percorso al MACRO. Come interagiscono dal tuo punto di vista (e in chiave curatoriale) contemporaneità e memoria?
Sono i lati di uno stesso disco. Ho sempre avuto una resistenza all’idea di nostalgia, mentre la curiosità di poter rovistare nel passato come fosse un grande armadio pieno di oggetti dimenticati e riattualizzarli è stata una costante fin da quando studiavo. Il motivo per cui ancora oggi – in un sistema artistico dove tutto sembra aver perso sostanza – mi stimola fare mostre è la possibilità che ti regala di creare degli incontri sorprendenti tra opere, linguaggi, storie e persone. La mostra è per eccellenza un qualcosa di effimero, è una storia d’amore fulminante dove ci si può permettere di osare ciò che fuori da lì non si potrebbe fare.
Restando nell'ambito archiviazione, penso sia stato molto interessante il dispositivo Retrofuturo, attraverso il quale hanno dialogato deposito del Museo e nuove opere. Potrebbe diventare un'istanza permanente attraverso la quale far conoscere le acquisizioni future?
Tra i vari progetti portati avanti in questi anni, „Retrofuturo“ è quello a cui tengo di più in quanto nasceva dal desiderio di dare una identità forte al museo offrendo al MACRO la possibilità di costruire finalmente una collezione che guarda al presente. In Italia questo non avviene. Ad eccezione dell’Italian Council, i musei hanno difficoltà a implementare le loro collezioni. Ho scelto
di puntare solo su giovani artisti italiani perché volevo da un lato dimostrare la vivacità di una generazione e dall’altro farli conoscere anche ai tanti stranieri che visitano il MACRO. Il grande rammarico è che la Sovrintendenza – che gestisce sia l’immobile che la collezione – ha scelto di non voler tenere le opere dei quasi quaranta artisti (la maggioranza realizzate ad hoc) di „Retrofuturo“, rifiutando la possibilità di riceverli in comodato. È un segnale che non fa ben sperare.
Dopo averlo vissuto in ogni suo angolo, cosa ti auguri per il MACRO nei prossimi anni?
Mi auguro che a lavorarci ci saranno persone con la stessa passione, dedizione e cura come quelle che lo hanno portato avanti in questi cinque anni. Ho avuto la fortuna e il privilegio di poter creare un gruppo di lavoro da zero e ho puntato su persone molto giovani, quasi tutte alla prima esperienza istituzionale. Fare quello che è stato fatto – 70 mostre in 5 anni! – in sole quindici persone è stato un atto d’amore. Vorrei che questa immaginazione non andasse dispersa, così come che non lo vada la comunità creatisi attorno al Museo.
Cosa invece per la città?
Nonostante il pessimismo, mi auguro che si capisca quanto le istituzioni siano fragili e abbiano bisogno di visioni, professionalità ed energie. La sfida più grande per me era dimostrare come una scelta non politica come la mia potesse funzionare, che si può tentare di ripensare qualcosa senza stravolgerlo, che c’è desiderio di vedere qualcosa di diverso.
A posteriori, c'è qualcosa che avresti fatto diversamente e qualcosa che invece avresti voluto fare ma non si sono create le condizioni?
Avrei voluto immaginare una serie di progetti fuori dalle mura del museo in partnership con altre istituzioni (non per forza nel campo dell’arte visiva) per esplicitare il concetto che il museo è un software piuttosto che un hardware. In tal senso può operare ovunque.
C'è una mostra tra tutte quelle realizzate alla quale sei più legato?
Forse la mostra di Lawrence Weiner nell’agosto del 2020 nel cielo del mare vicino Roma. Era un sogno che avevo da tempo ed è forse il miglior manifesto del mio approccio curatoriale.
Se dovessi riassumere il bilancio di questa esperienza in una sola parola, quale sarebbe?
Fitzcarraldiana.