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Quartetto d’Archi della Scala

Massimo Polidori, primo violoncello dell'ensemble, ci racconta come alchimia e confronto siano le fondamenta, e dell'emozionarsi

Geschrieben von Alberto Bottalico il 31 März 2023
Aggiornato il 12 April 2023

È più facile suonare in 4 o in 120?  Come si conciliano personalità differenti, impegno in orchestra e in formazione da camera, emozione e ragione? Qual è il significato del fare musica insieme? Ce lo racconta Massimo Polidori, primo violoncello del Teatro alla Scala e membro del Quartetto della Scala insieme a Francesco Manara, Daniele Pascoletti, Simonide Braconi.

Il quartetto d’archi è l’espressione più alta della musica da camera.

Il Quartetto d’Archi della Scala nasce come formazione storica nel 1953, quando le prime parti sentirono l’esigenza di sviluppare un importante discorso musicale cameristico seguendo l’esempio delle più grandi orchestre del mondo. Dopo anni di pausa, nel 2001, quattro giovani musicisti, già vincitori di concorsi solistici internazionali e prime parti dell’Orchestra del Teatro, decidono di ridar vita alla formazione. Dopo oltre vent’anni di attività, sono un importante attore del panorama concertistico internazionale.

Alberto Bottalico: Iniziamo parlando di voi. Come nascete, chi siete, cosa fate, oltre al fatto, naturalmente, di essere parte della grande macchina della Scala.

Massimo Polidori: Nell’anno 2000, dopo due anni che sono entrato nell’orchestra del Teatro alla Scala, sentivo il bisogno di creare un quartetto d’archi, l’espressione più alta della musica da cameraÈ nato un po’ per caso ma non per gioco, con il desiderio da subito di intraprendere consapevolmente un cammino che è ostico, perché il quartetto è una delle formazioni più difficili. È venuto in mente a me e Francesco Manara, il primo violino. Anche lui torinese, ci conoscevamo da una vita e avevamo già un trio insieme, il Trio Johannes. Ci siamo scelti naturalmente all’interno dell’orchestra. Siamo tutte prime parti. Originariamente, la prima formazione era con Pierangelo Negri, poi lui ha lasciato qualche anno fa ed è subentrato Daniele Pascoletti. Da subito ci siamo accorti che questa cosa ci piaceva tantissimo, il quartetto d’archi è un perfetto equilibrio di suono. Abbiamo fatto tantissime esperienze: abbiamo viaggiato molto e attraversato uniti le nostra età, perché nella vita del musicista c’è sempre un percorso di maturazione e farlo insieme a una persona, la stessa persona o le stesse persone, ti aiuta moltissimo sia a crescere che a capire meglio quello che stai facendo. Il confronto è alla base di tutto nella vita, soprattutto nella musica. I primi anni sono stati in continua accelerazione, una continua scoperta. Ora stiamo affrontando tutti i quartetti di Beethoven in Scala. Abbiamo deciso che era ora di affrontarli. Un traguardo. Credo che se li avessimo affrontati qualche anno fa, soprattutto gli ultimi, saremmo rimasti bloccati.

AB: Qual è la formazione storica a cui in qualche modo vi sentite più vicini?

MP: Noi siamo cresciuti con le registrazioni del Quartetto Amadeus e del Quartetto Italiano, che sono sicuramente i due complessi che hanno fatto la storia. Hanno fatto vita da quartettisti, giornate intere a studiare e ci sono ancora dei quartetti che impostano la loro vita così, per noi questo non è possibile. Dipende molto dall’affinità tra le persone mentre suonano insieme. Ci sono certezze, automatismi, comprensioni, intese. Si crea un’alchimia.

AB: Quando voi vi mettete davanti a uno spartito come procedete all'interpretazione? Che cosa succede? Come nasce l’idea di quello che suonate?

MP: Il grande repertorio lo conosciamo tutto e i grandi classici li abbiamo già metabolizzati. Se capita un quartetto proprio sconosciuto, magari di compositori contemporanei, cerchiamo due o tre versioni su YouTube per farcene un’idea. Poi suonandolo cerchiamo di capire innanzitutto il tempo. Una volta, al concorso di Osaka, c’era il secondo violino del Quartetto Amadeus. Avevo 21 o 22 anni. Mi disse una cosa fondamentale per affrontare un pezzo moderno: bisogna capire il tempo, poi tutto il resto va di conseguenza. Se tu imposti un quartetto con un tempo totalmente fuori logica è impossibile che si ottenga il risultato. Quindi, per prima cosa bisogna capire l’andamento, a cascata viene tutto il resto: fraseggio, colori, arcate

Ormai abbiamo acquistato un certo mestiere perché, non affrontando soltanto il repertorio cameristico e avendo confidenza con tutte le sinfonie e le opere, impariamo con una certa velocità.

L’attività che facciamo con l’orchestra è di grande aiuto anche nella comprensione dei brani. Sono vasi comunicanti incredibili. Ad esempio, affrontando tutti e tre i quartetti di Brahms ci sono delle citazioni o dei rimandi alle sinfonie.  Nel quartetto di Verdi, l’unico quartetto che ha scritto, nello scherzo ci sono delle cellule riconducibili a Rigoletto e a Traviata. Verdi era anche un grandissimo conoscitore degli ultimi quartetti di Beethoven, un grande studioso. A Sant’Agata sul suo comodino ci sono le partiture. Era ammirato, infatti, dall’ultimo tempo del quartetto 13 di Beethoven, la Grande Fuga. Se ne riconosce l’influenza dal fatto che Verdi aveva profonda conoscenza del materiale della tecnica compositiva della fuga che ha adottato in varie occasioni e soprattutto nel finale del Falstaff. L’aver esplorato un repertorio vastissimo ci aiuta nella comprensione.

AB: Abbado quando dirigeva le orchestre iniziava dicendo “Zusammen musizieren” (Facciamo musica insieme) come a iniziare un rito della comunità. Quali sono le dinamiche che si sviluppano all’interno di queste comunità, quella vasta dell’orchestra e quella più intima del quartetto?

MP: Suonare libera endorfine. I conflitti sono però inevitabili. In orchestra sono amplificati ed è compito dell’intelligenza di ciascuno condurli a più mite confronto. È compito di ognuno non alimentarli. È un micromondo con personalità forti; se c’è un direttore forte, un grande capo, tiene tutto sotto controllo. A differenza, all’interno di un quartetto si costruisce nel corso degli anni un rapporto più personale. Con Francesco è venuto prima il rapporto umano e poi quello professionale. Dico alla mia compagna che ho passato forse più tempo con lui che con lei, per tutte le prove, i viaggi, i concerti. È un rapporto abbastanza esclusivo, c’è un’intimità proprio emotiva, perché, quando si suonano certe pagine e si riesce a realizzare quello che si ha in mente, è proprio una sublimazione e ha un effetto catartico anche nella vita di tutti i giorni. Dopo un bellissimo concerto che mi ha dato tante emozioni, il giorno dopo, non sono abile al lavoro, non sono completamente su questa terra [Ride, NdR]. Anche se poi, con l’abitudine e il mestiere impari a spegnere e a ritornare sulla terra. All’inizio facevo molta più fatica con queste emozioni forti. Ti lasciano qualcosa anche nei giorni successivi.

AB: Come si tiene l’equilibrio tra emozione e ragione? Cosa succede nel vostro cervello, cosa vi trattiene a un passo dall'estasi, dalla perdita del controllo e vi mantiene nella sfera della lucidità indispensabile per la tecnica? Perché suonare è anche tecnica.

MP: Negli anni si acquisisce questa capacità di emozionarsi “col ghiaccio in tasca” come diceva Sinopoli [Giuseppe Sinopoli, grande direttore d’orchestra mancato vent’anni fa,NdR]. Sono le due anime della vita di ciascuno, quello che sei si riflette sempre nella musica.

Io, per esempio, sono una persona abbastanza razionale, di conseguenza in concerto non mi emoziono spesso e solo se ci sono le condizioni. Questo però non vuol dire che al pubblico non arrivi. Mi ricordo un aneddoto di Claudio Arrau [Uno dei più grandi pianisti del secolo passato, NdR]: alla fine di un concerto, una signora in estasi nel suo camerino gli disse: “Come mi sono emozionata, mi ha emozionato tantissimo!”. Lui freddamente le rispose: “Si sarà emozionata lei, io per nulla”. Un musicista è un demiurgo che riesce tessere le fila delle emozioniCol tempo ho imparato a dosare le due anime che devono convivere senza sopraffarsi. La forma e la struttura di un pezzo devono essere sempre intellegibili. Negli anni, inoltre, cambia l’interpretazione, si eliminano sempre di più i fronzoli, si va all’essenza. La semplicità, alla fine, è la cosa che noti di più in questi grandi interpreti.

 

AB: Passiamo a parlare dei direttori, considerando gli ultimi quattro direttori principali della Scala.

MP: Ho avuto la fortuna di suonare con tutti e quattro. Muti era un uomo che respirava la polvere del teatro. L’opera e la comprensione del testo che si trasforma in accento musicale. Il lavoro che faceva con i cantanti era qualcosa di veramente impressionante. Lui aveva la capacità di trasformare il dramma in qualcosa di profondamente umano che ti arrivava, era molto diretto anche come persona, come carattere. Era una persona quasi senza filtri. Però, anche lui, aveva nella costruzione e nel montaggio dell’opera un approccio molto razionale. Con Abbado ho suonato poco, però era uno che lavorava di fioretto. Aveva questa capacità di creare magia con un semplice gesto, di ispirare. Era come se lui riuscisse a tirare fuori la parte migliore di me. Barenboim è il Maradona della musica. come si fa a dire due parole di un artista così eclettico. Chailly è un direttore più della tradizione abbadiana. Un esteta, un uomo di cultura vastissima, dalla letteratura all’arte e alla storia. Il suo approccio è sempre a 360 °. È un grande studioso anche delle tradizioni del passato, quindi le sue interpretazioni sono il frutto stratificato di una conoscenza profonda di quello che sta facendo. Ha una vastità di repertorio immensa.

AB: C'è un modo italiano di intendere la musica?

MP: Secondo me no, di essere direttore sì. La tradizione quasi storica che arriva da Toscanini. Quando il direttore italiano va all’estero parte già da una credibilità di fondo che arriva anche dal modo in cui si approccia alle partiture in relazione all’orchestra. Bisogna avere anche capacità a livello di carattere. Più che un modo di intendere la musica, c’è un modo di interpretare il ruolo del direttore che ha delle tradizioni italiane profondissime.

AB: Voi, in quanto quartetto, non pensate che ci sia un qualcosa di italiano nel vostro modo di suonare o di interpretare?

MP: Noi sicuramente siamo benevolmente influenzati dalla confidenza con il mondo dell’opera, nel senso che sappiamo lavorare con i cantanti. Dai grandi interpreti di canto, innanzitutto impari la bellezza del suono, la cantabilità, la capacità di fraseggiare in un certo modo. Forse, una delle cose che ci può distinguere è la qualità del suono. Lavorare non solo in quartetto ti amplia l’interesse verso quello che stai cercando a livello sonoro. È una questione di morbidezza del suono, di approccio. Parlo soprattutto degli archi: abbiamo una tendenza a produrre un suono il più possibile avvolgente, morbido, caldo; queste sono le tre principali caratteristiche del suono italiano. 

Basti pensare, per esempio, che i migliori strumenti al mondo sono italiani, la ricerca è già a livello di liuteria. Anche nei Conservatori si stimola sempre l’allievo alla ricerca di quel tipo di suono, ricco di armonici e morbido.

AB: Ritornando al discorso sull’equilibrio tra emozione e ragione, avete un repertorio vastissimo che va dal barocco fino alla musica contemporanea. Non pensa che la musica, dopo l’ubriacatura d'emozione dell'Ottocento sia andata, soprattutto nel contemporaneo, più verso la ragione allontanandosi invece dall'aspetto emotivo?

MP: Probabilmente è che la musica rispecchia sempre la società; i compositori sono anche un po’ lo specchio dei tempi. Il repertorio ottocentesco è fortemente influenzato dallo Sturm und Drang del romanticismo tedesco. Nel ‘900, forse, si è un po’ spenta questa fiamma, questa passione, come è accaduto anche nella stessa società; Il ‘900 ha visto due guerre mondiali, quindi c’era poco da sognare.

Nella musica moderna ci sono espressioni, invece, che sono ritornate al sentimento, magari con linguaggi poco accessibili al grande pubblico. Nella bella musica però rimarrà sempre il sentimento alla radice.

 

AB: Cosa vorreste che rimanesse agli ascoltatori in occasione dell’evento?

MP: Abbiamo scelto il Quartetto Americano di Dvorak e delle fantasie del Rigoletto perché volevamo dei pezzi facili e di forte impatto. La musica può vivere anche in spazi non convenzionali o non dedicati a un ascolto attento. È l’emozione, allora, che deve prevalere e quell’emozione sarà uno stimolo che si porteranno a casa magari per un ascolto più approfondito.