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Rbsn riparte da „QUI“

Una conversazione con Alessandro Rebesani su “HERE”, il suo secondo album e primo per ODD Clique

Geschrieben von Aureliano Petrucci il 25 November 2025
Aggiornato il 26 November 2025

Foto di Federico Zanghì

Con il suo ultimo album “Here”, Rbsn non cambia soltanto etichetta ma definisce un nuovo punto di partenza nel suo percorso, segnando un allontanamento dalle radici jazz del suo background e del precedente “Stranger Days”, per abbracciare una dimensione ibrida di folk, rock, soul ed elettronica. Il tutto filtrato da suggestioni letterarie che rivelano un autore sempre più esposto, man mano che ci si addentra nelle profondità del disco.

“Here” è così un album attraversato da dicotomie
, da incontri che diventano simboli (come quello con l’orso), e da una ricerca incessante di un suono autentico. Racconta un percorso fatto di tempo dedicato a scavare creativamente nei brani, dell’importanza di D’Angelo come punto di riferimento e della rete di musicisti e tecnici con cui l’artista romano condivide respiro, improvvisazione e fiducia.

Cominciamo da qui, o meglio da “Here” e “This Life”, i primi singoli del tuo secondo album. Cosa rappresenta questo “qui” nel tuo percorso?

Quello è un “qui” del mio continuum spazio-temporale, era “qui” quando l’ho scritto e continua a riaffermarsi, perché lo sento molto iconografico rispetto a me, per ciò che mi piace ascoltare e, banalmente, per il tipo di suono che viene fuori. In un certo senso rappresenta le coordinate di questo nuovo disco. Per quanto poi si vari molto a livello di suoni, arrangiamenti e influenze, quel “qui” racconta bene da dove tutto è partito. “Here” e “This Life” sono due facce della stessa medaglia, una base, un punto di partenza per il disco. Nel lato A è tutto confezionato, diciamo così, come “Here“, una forma-canzone chiara, semplice da ricordare, ben definita. È sia un modo per farmi trovare, una specie di razzo di segnalazione, (come si vede anche nelle visual) sia una piattaforma da cui lanciarsi per addentrarsi nelle sfumature, nel “bosco” del resto del disco. “This Life”, invece, ha una storia un po’ diversa perché è una di quelle rare canzoni che oggi, in un momento in cui c’è sempre meno tempo per lavorare sui brani e scavare creativamente, mostra in modo molto trasparente il processo che c’è stato dietro. Si sentono chiaramente le influenze, l’incontro tra il mondo cantautorale, quindi io che suono e canto con la chitarra, con un mondo di vibe, loop, strumenti vari, con quel basso molto ‘70s. Bello perché è stato quasi un preludio anche a livello di lavoro. L’abbiamo infatti registrata molto tempo prima “This Life”, e poi, in un’unica tranche, tutti gli altri brani.

Perché dici che c’è sempre meno tempo per lavorare sui brani e scavare creativamente?

Per mettere in mezzo D’Angelo a ogni costo! Scherzo, ma è un riferimento giusto. Se pensi a “Voodoo”, a quanto tempo loro hanno passato dentro la vibe di ogni brano, capisci quanto si senta poi nei risultati. Oggi, invece, musicisti, autori, sound engineer insomma chiunque si occupi della fabbricazione della musica tende a lavorare molto con tempi brevi: “di qui a sei mesi devo uscire”, quindi in sei mesi fai dieci pezzi, foto, video… Nella storia della musica ci sono stati dischi tenuti in cantiere per mesi, anni. Non dico che sia un metodo migliore, ma più un brano è importante, più tempo gli dedichi, più emergono cose, dettagli, profondità. A volte quel lavoro in più lo rende anche leggendario. E invece ora siamo quasi disabituati a pensare che qualcuno possa stare due settimane a mixare un solo pezzo, sembra un lusso.

Conferma un po’ la voce di corridoio, "hai tutta la vita per scrivere il primo album, e dodici mesi per scrivere il secondo."

Ed è vero. Poi certo, non si applica a D’Angelo, ma è anche lì che si vede l’unicità di certe storie. C’è un brano di JuJu Rogers, artista afro-tedesco incredibile, che dice una cosa che condivido molto: con il disco numero uno ti ambienti, mandi un segnale fuori e vedi cosa torna; con il secondo ti stabilisci artisticamente. Se fai un solo disco può essere frutto di un’urgenza, qualcosa che devi dire ora e basta. È come uno che da bambino era un super corridore e poi cresce e… Adesso ha la panza. Se invece arrivi al secondo disco, nonostante tutte le difficoltà e le sfide del mestiere, significa che A) lo devi fare e B) hai qualcosa da dire che non nasce solo dall’urgenza, ma da un percorso. Io non corrispondo molto alla voce di corridoio del music business, per il mio secondo disco ci ho messo tanto tempo. Nel mezzo c’è stato il Covid, tutto lo zeitgeist del periodo… ma sono contento di averci messo un paio d’anni. Ho cambiato completamente l’entourage tranne alcune figure e ho sperimentato moltissimo. In questo anno intenso, che è poi culminato nell’uscita del disco, ho incontrato molte persone, ho collaborato con Lauryyn, che è una super cantante, con Emanuele Triglia, con cui è nata una collaborazione in studio, quando prima c’era solo amicizia e simpatia. Nutrirsi e prendersi cura delle persone intorno a te è fondamentale. Io, purtroppo, dopo aver finito di registrare sono un po’ sparito perché mi sono successe cose brutte, però la cosa più bella della musica è proprio questo: lavorare con altri. Anche se arrivi con le tue demo, anche se hai fatto un viaggio tuo, va benissimo. Il bello è che quando condividi la musica, quella cura ti ritorna, soprattutto se intorno hai musicisti e tecnici di un certo calibro.

L’album sembra muoversi continuamente tra tante dicotomie: personale e universale, alti e bassi, luce e ombra, vita e morte. Qual è stato il punto di partenza e dove ti ha portato questo viaggio?

In realtà sono partito da un brano, “Spiritualized”. In quel periodo ero fissato con un disco bellissimo di Nick Hakim, “Cometa”, e lì c’è molta della sua poetica rielaborata da me. Sono partito da un sample acustico molto stretchato, a cui ho dato una forma con il basso. Da lì è nata la bassline che si sente nel pezzo, che poi ha risuonato Emanuele. Quell’organicità mi sembrava molto accattivante e ho cercato di riportarla un po’ in tutto il disco. Il lato B è più sperimentale in questo senso, mentre il lato A è più inquadrato, più fatto di singoli, cosa che in un disco ci sta, ed è bello perché è venuta naturale, senza forzature. Con “Spiritualized” ho definito le mie coordinate soniche, come le frequenze, il tipo di spinta che usciva dagli speaker, qualcosa di molto martellante. E quel tratto, dove aveva senso, l’ho portato in brani come “Here” o “Small Town Love”. Uso un voicing di chitarra molto più scuro, e quell’esperimento ha iniziato a dare i suoi frutti. Da lì a poco sono arrivati „Here“ e “This Life”, nello stesso periodo. Poi sono passato a “The Bear” e “Things She Likes”, che ho scritto back to back, a un paio d’ore di distanza. Tutto è poi culminato nel lavoro in studio, dove tutta questa “masturbazione” sulle demo che mandavo a tutti si è trasformata in vera sperimentazione collettiva. Si è suonato tanto: si partiva da un groove incalzante e poi abbiamo tramato tutto il brano, come nel caso di “Down and Out”. L’ultimo pezzo, invece, sono io che provo a fare MkGee con una jazzmaster… Impossibile, però quella è la chiave giusta per farsi modificare il DNA da un artista nuovo: provare a fare quella cosa lì, e siccome io sono molto diverso da Mike Gordon, ne è uscito un suono diverso, mio. L’ultima traccia, “Beautiful Unknown”, con gli slide, è figlia del mondo che sto ascoltando molto ora, Dylan Day, Sam Wilkes… Mi piace stare in questo non-luogo tra jazz e world anche se non si usa più chiamarla così, ma super radicato in una forma folk alla Bob Dylan. Mi piace mettere delle morali nelle canzoni. Poi, se il brano te lo permette, bene, se invece deve restare più strumentale, va benissimo lo stesso.

A proposito di folk, questo disco si allontana dalle radici jazzistiche, rispetto a “Stranger Days”, per sostituirlo gradualmente proprio con il folk. Come è avvenuta questa transizione, per uno che il jazz ce l’ha nel background, è stata una scelta consapevole o più istintiva?

Diciamo che, per me, istinto e consapevolezza si mescolano un po’ quando si tratta di scrivere con una certa forma. E credo che questo valga per tutta la mia generazione. Parlo anche per Emanuele e per Federico, magari meno per Pasquale che è un po’ più grande… è vecchio! Però ecco la nostra generazione ha vissuto molto il passaggio dalla muscolarità del jazz, del soul, del neo-soul, a un linguaggio diverso. “Voodoo” di D’Angelo è stato il primo disco che ho scaricato su Soulseek a diciassette anni, e l’ho ascoltato duemila volte. Però credo che la wave collettiva sia stata proprio quella di muoversi verso spazi dove c’è più margine per una storia, per un personaggio, per una morale. Crescendo è naturale, all’inizio sei affascinato dalla virtuosità, dall’energia degli strumenti, ma poi inizi a spostarti sul significato, sulla forma, su come scegli di registrare una cosa. Magari invece di una sezione intera metti tre chitarre registrate vicinissime, e fai un lavoro completamente diverso. Quindi sì, c’erano dei suggerimenti, reali e inconsci, ma io stavo già gravitando da solo verso quel tipo di linguaggio.

Si può dire che del jazz resti soprattutto la libertà che il genere ti ha insegnato

Assolutamente sì e in studio è venuto fuori parecchio. Soprattutto su „Things She Likes”. Lì, verso la fine, c’è quella percussione sorda e molto forte che crea un incrocio interessante: il folk tende a essere tutto swingato, mentre il jazz ti porta a stare più sul beat, più da alchimista, a scomporre meglio un arrangiamento. “Things She Likes” unisce proprio queste cose: l’acustica con un beat super seduto alla Madlib, che è molto strano però credo sia giusto quando il primo ascolto di una cosa risulta anche un po’ più strano all’orecchio.

Di Things She Likes mi ha colpito una frase: “It started with a different guitar riff. There’s no guitar in the song now”. È un esempio perfetto di quanto un brano possa trasformarsi lungo il percorso. Quanto spazio lasci all’imprevisto?

Le registrazioni, per me, servono proprio a metterti alla prova. Quando vado in studio con un gruppo di lavoro diventa un continuo risolvere problemi. Il principale è sempre lo stesso: registrare una versione che sia più bella della demo. Quel giorno avevamo anche una certa “risorsa psichedelica”, in quantità terapeutiche, e ha sicuramente contribuito alla morbidezza del pezzo. La parte di chitarra che poi è sparita era un ostinato in tre quarti, quasi un drone, che avevo registrato con una rubber bridge di un amico, e l’avevo usata per scrivere sia „The Bear” che “Things She Likes”. In studio, durante la take live, ci siamo accorti che mutando la chitarra tutto funzionava meglio: c’era più aria, più spazio. A quel punto sono entrati i cori, che hanno riempito la mancanza della chitarra in modo più gentile e meno ritmico. L’intenzione era proprio lasciare spazio agli altri strumenti. È sicuramente il brano più morbido del disco.

“The Bear” invece non ha nulla a che fare con la serie TV e con Jeremy Allen White. È un tributo all’amicizia, ispirato anche da D’Angelo. Mi raccontavi dell’incontro reale con un orso, poi diventato un totem.

L’incontro con l’orso c’è stato davvero, e quando certe cose ti succedono da bambino o da adolescente finiscono per segnarti, anche senza che te ne accorga. Per me l’orso è diventato un simbolo di un certo tipo di persona, uno che sta sulle sue, che borbotta, che mangia tanto… E allo stesso tempo è diventato il simbolo di un rapporto d’amicizia, perché quell’incontro l’ho vissuto con un amico con cui sono cresciuto. Un’amicizia molto “anni ’80”, da Twin Peaks, con quell’immaginario un po’ archetipico di due bambini che fanno cose assurde nel bosco. Su quel contenitore, su quell’immagine, ci ho appoggiato un groove che avevo in testa, perché in quel periodo ascoltavo tantissimo D’Angelo, come sempre, e Dijon. Ho provato a creare un ibrido tra un cantautorato molto verboso, tante parole, un discorso che va dal generale a un’immagine. “The Bear” è caotica, ma volutamente tutti gli elementi si intrecciano dentro questo suono che abbiamo cercato di mantenere nostro, anche in studio. Non volevamo spingerlo verso qualcosa che imitasse l’hip hop… Alla fine io non sono di Richmond in Virginia, Federico non è Questlove, e sarebbe stato inappropriato. Credo sia giusto anche suonare qualcosa che ti rispecchi a livello culturale, quindi l’abbiamo tenuto un po’ più dritto, pur cercando di lasciare dentro quello spirito. Le take di piano, per dire, mi fanno ridere ogni volta: sembra un honky tonk anni ’60 in un fienile. Però era bello vedere come tutti questi elementi, messi insieme, creavano qualcosa che funzionava. L’ho scritta in un pomeriggio, poi abbiamo lavorato un po’ sulla forma. È uno di quei brani che ti spinge tecnicamente e artisticamente. È stata una sfida, ma alla fine ha funzionato. E lì è stato bravo anche l’ingegnere del suono, Andrea Guarinoni, a gestire tempi, suoni, tutto il resto.

Tanti generi per un disco bello vario con rock, soul, folk, psichedelia… Insomma suggestioni molto nordamericane. Anche per questo secondo lavoro c’è un immaginario letterario che invece guarda più spesso al Sud America?

In quel periodo, quando lavoravo a “Stranger Days”, mi sembrava bellissimo trovare una poetica che fosse personale ma anche super evocativa. Perdermi nei libri di Borges, Cortázar… Quella roba lì mi nutriva tantissimo. Per questo disco, invece, la suggestione letteraria più forte è venuta da Burroughs. Non lo avevo mai letto davvero e ci sono entrato grazie a MkGee, perché la sua musica mi ha fatto pensare a quella ruggine, a quella materia grezza. Non direi che ci sia un passaggio preciso che mi ha influenzato, è più una sensazione; un’oscurità che non è necessariamente oscura, ma ruvida. E credo che un po’ di quell’ombra si senta anche nel disco. Più che guardare fuori per cercare ispirazione, però, mi sono accorto che avevo già molto materiale dentro con cui lavorare. Mi sono lasciato travolgere dalle cose che sentivo il bisogno di far uscire.

Oltre a Burroughs, c’è anche l’ombra di un altro grande anglofono, penso alla distopia orwelliana di “Down and Out”.

Sì, lì c’è proprio una suggestione distopica, se non di Orwell roba alla “Fahreneit 451”. I suoni erano molto grigi, sembravano vetro, metallo… Ora che mi ci fai pensare io funziono molto in modo sensoriale. C’era questo basso super incalzante, e così la voce e il testo sono andati naturalmente verso un ambiente cittadino, meccanico, distopico. Mi faceva pensare ai Radiohead o ai The Smile, Thom Yorke è un po’ così, che critica il potere con un linguaggio alla V per Vendetta. Non è un riferimento diretto, non è che parlo della General Motors come Harrison, però è quel mood, l’immaginario in cui il collare bianco è il cattivo e come qualcuno in un contesto del genere possa perdere il controllo, senza distingue più tra stimoli umani e meccanici. Ecco, l’immaginario è quello. C’è anche un po’ di Beat Generation perché in quel periodo ho letto molto loro. E sono andato a San Francisco, da City Lights, la libreria di Ferlinghetti, mentre „This Life“ era già nella mia testa. Poi c’è sempre Dylan. Io ho un amore enorme per Bob Dylan, e lui era un pendolo che andava ovunque. È stato lui a farmi entrare in quel linguaggio dove testo, storia, ambientazione e morale sono fondamentali. E il folk, alla fine, viene dal blues, dall’America nera. È un mondo che sento molto vicino. Sto letteralmente davanti ai miei dischi mentre parlo, e mi ricordano il delta del Mississippi, la Louisiana… io, tra l’altro, pare sia stato concepito proprio in Louisiana! Forse anche per questo tutto risuona così forte in me.

Questo disco è anche il frutto di una maturità collettiva, una rete di musicisti che hai costruito nel tempo, molti dei quali legati alla community di ODD Clique, una realtà con una visione anche internazionale, non solo italiana o romana. Che valore ha per te questa rete, in che modo Roma entra nella tua musica?

Roma è stata casa mia per quasi tutta la vita. Ho studiato fuori, ho viaggiato molto, e mi trovo bene come viaggiatore, però Roma è sempre stata casa. Creare musica nuova richiede spazi condivisi e quando quegli spazi non ci sono, te li devi inventare. Io lavoro con Luca Gaudenzi da quasi dieci anni, e anche con ODD Clique abbiamo provato a costruire una proposta concreta negli anni: non è semplice smuovere le fondamenta culturali di una città, forse nemmeno di un paese intero, dove la musica spesso viene mercificata. D’Angelo ha lavorato quattro anni a un disco, ed era sotto di due milioni di dollari, noi non abbiamo quel tipo di possibilità. Quindi ti devi creare dei luoghi in cui puoi sperimentare, costruire un collettivo, che abbia più significato di un prodotto fatto per necessità. ODD è nata così, come una casa, un’istituzione a cui sentirsi parte, un suono. La mia musica è cresciuta lì perché io per primo ho bussato alle porte dei musicisti che volevo, e poi ci siamo messi a lavorare.

E così certe direzioni si prendono quasi da sole

Poi certo, magari fai un disco con un gruppo di persone e quello dopo con un altro, ma il legame nasce quando riesci a spiegare bene la tua visione, anche se a volte non ce l’hai chiarissima nemmeno tu. Mi ricordo al “Festival of the Sun”, quello che ha fatto Rick Rubin, io ci sono andato a caso, non invitato e ho incontrato Dario Mangiaracina de La Rappresentante di Lista, che conosco. È stato gentilissimo, mi ha dato il pass. Gli dico: “sto facendo un disco nuovo”, e lui: “di che parla?” E io: “Che ne so!”. E davvero non lo sapevo. Stavo vivendo esperienze, incontrando persone, accumulando cose che poi, solo dopo, mi sono accorto sarebbero finite nel disco. Ora che è finito, impacchettato, stampato, mi è chiaro che tutto sta sotto lo stesso cappello, che è quello della mia gente. Le persone con cui ho lavorato per renderlo vero.

Le stesse persone che nei credits ricorrono da un po’ di tempo ormai, da Luca Gaudenzi e Federico Romeo, a Emanuele Triglia, Pasquale Strizzi e Andrea Guarinoni

Ognuno di loro, per me, è stato un figlio, un fratello, un padre. Poi quando lavori con amici e ci lavori tanto i rapporti diventano complessi nel senso, quando tu hai bisogno, quando l’altro ha bisogno… E così via. E per me quel sentimento è il modo migliore per fare materiale artistico che abbia un peso, perché la musica vissuta così è viscerale, intima. Per condividerla, devi avere quel tipo di rapporto. Io poi ci tengo che tutti stiano a loro agio, so quali angherie può subire un musicista in certi contesti, quindi quando facciamo il mio disco voglio che tutti siano retribuiti, che stiamo in uno studio bello, che mangiamo bene, e in virtù di questa sorta di tribalismo che ci riuniamo. Poi certo, tutto si complica quando devi vendere la musica, ma se per un attimo togli tutta la retorica del mercato e resta solo la sostanza primordiale, quello è il momento più bello.

Cose che ormai sembrano fregare sempre meno nel music business

Mi sento un Abraham Lincoln quando lo dico però per me contano. A volte mi arrivano dischi fatti benissimo ma che non mi comunicano nulla. Questa sorta di religiosità nel lavoro non la trovi spesso, se non in certi momenti molto specifici. Me lo ricordo chiaramente anche quando abbiamo lavorato al disco di Manu [Triglia] o alle cose di Federico, per noi musicisti c’è un sentimento fortissimo, quasi scioccante, quando stai lavorando a qualcosa che ti tocca davvero. Diventa una questione di vita o di morte, nel senso buono perché ti fa sentire vivo. Non sempre è utile perché ti toglie serenità e un po’ di professionalità ma a piccole dosi funziona. È proprio una cosa da die hard: finché il disco non è finito sei nella giungla con il coltello tra i denti e una forchetta nella tibia. Io in fase di registrazione divento ipersensibile, tesissimo, totalmente immerso, però è anche divertente. Con tutti loro ho un rapporto importante, umano e professionale. E considera che io sono il più giovane del gruppo. Loro già lavoravano e spaccavano quando io mi stavo ancora formando. Quindi ho corso per raggiungerli, ed è bello avere accanto qualcuno che ti mette alla prova, che ti fa dire “ok, devo studiare, devo essere più tight”.

Tra l’altro, durante la presentazione del progetto Cinevox Reframed in occasione del Festival del Cinema a Roma, quando ti hanno chiesto il processo creativo dietro “Marble Hands”, li hai indicati tra il pubblico

Sì, ci tengo tantissimo. Spesso chi canta o chi firma un brano non parla mai dei backliner. Io sicuramente non sono Geolier, ma ci tengo a dare credito alle persone che hanno lavorato con me. È ovvio che ci metto del mio: scrivo le parole, e spesso sono pesanti, intime. E lo stesso vale per “Marble Hands”. Il testo è una sintesi molto forte del tema dell’essere figlio, dell’essere padre, del confronto con l’idea che a un certo punto uno dei due non ci sarà più. E allo stesso tempo c’era il sample di Umiliani, una scelta bellissima. Sapere che dopo la malattia lui si era ritirato a Giannutri per imparare il piano… L’unica cosa a cui pensavo era quel tempo fragile che aveva trascorso lì, con il sole come unico testimone. E quel sole poi sarebbe stato lo stesso a scaldare la montagna in cui lui sarebbe stato sepolto. Quello era il punto da far emergere. Io faccio le mie fatiche come autore dei testi, certo, ma in questo caso il suono non veniva da me. Qui avevo molto meno controllo del solito, avevo solo il sample. Nessuna idea precisa di arrangiamento, di struttura, niente. Di solito arrivo con una demo già formata qui invece avevamo solo due o tre materie prime ed è stato un lavoro molto più collettivo.

Hai un background molto anglofono (Boston, Londra, Leeds) tra accademia e piena esplosione della nu jazz londinese. Eppure, quando ti hanno chiesto quale posto ti abbia dato di più musicalmente, hai detto “Ricci Weekender”, il festival siciliano di Gilles Peterson. Hai parlato di Marco Castello, di Erlend Øye, di una squadra di musicisti incredibile, gente che assimila influenze esterne in modo autentico, fino a farle diventare proprie, fino a diventare lo standard

Sì, forse l’intervista era di un annetto fa, però il concetto resta. A Siracusa c’era un gruppo di musicisti che stava sempre con lo strumento in mano, anche a costo di essere fastidiosi. Però era tutto bello, naturale, spontaneo. Quello che mi aveva colpito giù era proprio la selflessness, il fatto che si suonasse tutti per il pezzo. Lì a Siracusa sono stato con musicisti incredibili. Marco [Castello] è l’esempio perfetto. Nella sua musica si sente molto questa roba, questa sorta di dogma nuovo che ha scoperto per sé dal suo secondo disco. Il suono è fichissimo, c’è Enzo Carella, c’è una parte di Brasile alla Joao Bosco, testi super sagaci, armonie divertenti e arrangiamenti complessi. È una roba che nasce solo se vivi insieme, se condividi tutto. È proprio vita da esercito, cioè devi stare sempre insieme, ci devi lavorare tanto, ogni giorno. Lì ho imparato molto da Marco, anche negli atteggiamenti: lui è uno spigoloso, deciso, divertente da morire. E io, essendo più giovane, vedevo tutti loro come parte della mia formazione.

È quello che volete o cercate di ricreare oggi a Roma?

È difficile, nelle grandi città questa cosa non è facile da trovare. Qui ci sono musicisti fortissimi, e ora ci stiamo mescolando un po’ di più, che è bello, però non è lo stesso. Il gesto semplice di aprire la porta di casa e dire “vieni, suoniamo qualsiasi cosa”. Qui lo fai meno. Lì invece era il livello più profondo possibile. Del tipo, sono a casa tua, prendiamo gli strumenti e vediamo cosa succede. Io cerco di ballarmela tra questi due universi, da una parte quello più patinato e l’altro più reale, fatto di gente che lavora e studia ogni santo giorno. È un equilibrio strano, ma per ora è il mio.

Hai vissuto da vicino la scena nu jazz londinese nel momento in cui stava nascendo, nomi come Ezra Collective, Kokoroko, e compagnia bella. Chi ti colpiva di più allora?

Il primo che ho incontrato davvero, fisicamente, è stato Yussef Dayes. L’ho visto suonare e ho pensato: “che cazzo sta succedendo?”. Era qualcosa di inaudito. Poi è esploso tutto: Ezra Collective ancora agli inizi, Kamaal Williams, Jordan Rakei, Jorja Smith, Joe Armon-Jones… Io li ho visti in un contesto minuscolo. Gli ho fatto persino l’apertura in una warehouse a Leeds, circa trecento persone, e a metà solo Joe si accende una canna enorme e ci fa esplodere il cervello. Lì capivi che c’era qualcosa nell’aria, tutti erano sintonizzati su quella wave, ognuno a un livello diverso. Io suonavo con un collettivo che si chiamava Tight Lines, gente super in gamba, mentre dall’altra parte vedevo nascere queste superstar del nuovo jazz londinese: Nubya Garcia, Steam Down, Benji Appiah… Questo è il nuovo Questlove, te lo dico! Forse oggi sono un po’ troppo imbrigliati dentro un canale preciso, perché ora c’è molta più attenzione, ma in quegli anni veniva fuori una quantità di musica bestiale. L’Inghilterra non era più solo, tanto per dirne uno, i Joy Division, ma anche tanto altro. La cosa più impressionante dal vivo era vedere come cambiava il modo di suonare dei musicisti: jazz, dub, reggae, hip hop, afrobeat. Tutto mischiato come se fosse sempre esistito. E capivi che eri dentro una piccola rivoluzione culturale. Io però stavo a Leeds, nel nulla rispetto a Londra, e nonostante questo arrivava un’eco potentissima.

Uno di loro, ma non necessariamente, con cui ti piacerebbe collaborare? Notavo che non ci sono ospiti nel tuo album

Mi piacerebbe un sacco fare un disco con Dan Auerbach dei Black Keys, soprattutto per assecondare il mio lato più folk. Lui, secondo me, è uno degli ultimi baluardi dell’American Music Legacy, assieme forse a Blue Note e pochi altri. Poi c’è Nick Hakim, con cui vorrei lavorare tantissimo. Lui mi ha insegnato senza saperlo come far uscire una vibe da una camera da letto. Nei suoi dischi lo senti subito. È un pittore, soprattutto negli album vicini all’ultimo. Mi affascina perché miscela benissimo due mondi che amo, ossia il lato più verboso, folk, e quello più soul, con layer di voci, mani che battono, atmosfere dense. Poi ci sono due nomi che non c’entrano niente con quello che faccio io, o meglio, fanno cose che io non saprei fare: Kali Malone, organista completamente fuori di testa, più “classica” tra molte virgolette, ma anche elettronica. Ha un pezzo, “The Spectacle of Ritual”, che mi ha cambiato la vita. Lavorare con lei sarebbe un approccio totalmente diverso, terapeutico. E poi Kassa Overall, lui ha un approccio bellissimo, metà hip hop, metà breakbeat, super batteristico perché lui è batterista, però allo stesso tempo molto crudo. Riesce a stare in quell’area grigia dove il suono è una demo ma è anche chiarissimo. È proprio quella roba che mi intriga.

A proposito di connessioni, com’è andata a Natale con Mark Speer, il chitarrista dei Khruangbin?

Praticamente mio padre conosceva la madre della sua ragazza. Lui è un dio. Cioè, quello che fa con la chitarra è impressionante. Io in quei momenti cerco sempre di non farmi sgamare, dentro penso “ti amo, sei il mio idolo”, fuori cerco di essere tranquillo, un po’ figo. Quando l’ho incontrato aveva 42 anni, ora ne avrà 45-46. Quell’anno mi è andata bene. L’anno dopo invece mi sono fatto prendere la mano e gli ho chiesto di firmarmi il disco. Ce l’ho ancora qui. Eravamo nella Bay Area, lui abitava a Oakland, e io sono capitato lì proprio nell’anno in cui stavano registrando il disco con Vieux Farka Touré. Mi raccontava: “Ale, quando siamo andati a registrare io non sapevo che fare… perché ai musicisti del Mali ne basta una di chitarra e fanno tutto loro”. Infatti il pezzo suo preferito del disco è il primo quello dove non suona nemmeno la chitarra, ma l’organo. Questo ti fa capire quanto lui sia rispettoso dei contesti, ok, sei un fenomeno che ha suonato in chiesa tutta la vita, ma se sei davanti al figlio di una figura centrale del Mali blues, ti metti al servizio. Lui ha sicuramente influenzato un pezzo del mio suono, è un maestro del mondo sonico della chitarra, organo, produzione. Eravamo in fissa con i Khruangbin, io e Triglia ci mandavamo messaggi ogni volta che usciva un loro pezzo nuovo. E infatti “This Life” nasce anche da questo. La domanda era come mischiare il mio mondo con quell’approccio lì. Mark forse non lo sa non so neanche se ha visto le storie, anche se ci seguiamo su Instagram ma qualche tempo fa abbiamo fatto una jam a Roma con un repertorio tutto Khruangbin. E c’era pure il nome: Mario Tambien. Al basso doveva esserci Manu, quindi sarebbe stato Manu También. Poi non è potuto venire, è arrivato Dario Giac, e allora è diventato Mario También. Mi è piaciuto che me lo ricordassi

Chiudiamo il cerchio tornando all’album. Dopo l’uscita di “HERE”, cosa ti aspetta?

Da fine gennaio andiamo in un po’ di città in Italia. Sappiamo già di Firenze, Bologna, Milano e sicuramente qualcosina anche a Roma, però vorrei fare qualcosa un po’ più intimo, sempre ben montato, magari seduto, pubblico seduto, poi se ci si vuole alzare ci si alza, però ecco qualcosa più da ascolto, suonare solo il disco e le cose che ne sono venute fuori. Sicuramente non una venue tradizionale, magari un teatro. All’interno delle venue ci sono sempre molte distrazioni quindi vorrei un momento in cui ci raccogliamo tutti.