Presso il Museo Casa Masaccio Centro per l’Arte Contemporanea (San Giovanni Valdarno) è in corso la prima mostra personale di Lee Kit (1978, Hong Kong) in un’istituzione pubblica italiana. Linger on, your lit-up shade (23 luglio / 9 settembre) include dipinti, testi, suoni immersivi, proiezioni e video che, pensati nella maggior parte per le stanze di questa casa e frutto di un lungo soggiorno a San Giovanni Valdarno, articolano il percorso espositivo in un unico ampio racconto, come se si trattasse di una sola grande tela.
Marco Tagliafierro: Casa Masaccio è la casa natale di Masaccio. È uno spazio domestico secolare i cui interni nel corso del tempo hanno subito interventi e restauri che, accavallandosi in una serie di stratificazioni, hanno segnato lo spazio con tracce evidenti; come hai interpretato il tuo ruolo curatoriale in questa occasione?
Rita Selvaggio: L’unico modo per avere dei risultati soddisfacenti in questo spazio è il semplice assecondarlo. Ogni artista che ci interviene deve in qualche misura adattarvi la propria pratica ed è proprio in virtù di questo che ogni mostra assume in qualche modo il “carattere del luogo” e, in questo senso, diventa molto speciale. Quella di Lee Kit è una mostra sul “desiderio” , sulle dinamiche e i giochi che il desiderio implica. È una mostra che vive di sottrazione, di ellissi e di mistero quotidiano. È tanto vuota, ma altrettanto piena, come ama sostenere l’artista stesso. Poetica, dolcemente malinconica, a tratti struggente ma senza alcun dramma, con una modalità molto contenuta e misurata. Un qualcosa che definirei molto “asiatico” e che ricorda in qualche modo la prima cinematografia di Wong Kar Way, film come Chungking Express o meglio ancora In the Mood for Love. Il percorso espositivo segue infatti la stessa morbidezza di passaggi, costruisce inquadrature all’interno di inquadrature e le racchiude nella dissolvenza dei colori. L’installazione dei singoli lavori taglia linee architettoniche imprevedibili e attiva l’incanto di un tempo ignoto. Lee Kit ci racconta di momenti “impotenti”, congelati in un’intenzione amorosa che non si compie e cerca di cogliere l’invisibile, impalpabile e atemporale, delle emozioni, il ciò che è stato e il ciò che non è stato. Volti e gesti, sono segnati da parole non dette e da intenzioni rimaste incompiute.
La mostra rivela un’incredibile capacità di confronto con lo spazio, sintomo di una specifica sensibilità che Lee Kit ha dimostrato nel corso degli anni; tuttavia, qui a Casa Masaccio, sei tu la veterana: cosa hai trasmesso all’artista a proposito della tua personale conoscenza di quegli ambienti?
Si è vero, conosco questo spazio da sempre, e in virtù di questo, sono perfettamente consapevole di quelle che, ad ogni intervento, possono essere le sue “reazioni”. È infatti a Casa Masaccio che ho co-curato la mia prima mostra in assoluto molto, ma molto, tempo fa. Si trattava di una rassegna di artisti toscani che si intitolava Vedute Forme, da un verso di Guido Cavalcanti, poeta toscano nato a Firenze intorno alla metà del XIII secolo e una delle figure più forti e affascinanti della vita letteraria del nostro Duecento. A quella ne sono seguite tantissime altre. In molti casi si è trattato di mostre “seminali”, è qui infatti che Alberto Garutti ha messo a punto per la prima volta il suo lavoro con le luci che, in quella circostanza, dialogava con le case dei sette vicini di Casa Masaccio, o che, in un’occasione successiva, ha raccolto buona parte dei suoi “orizzonti”. Ed è sempre per questo spazio che Massimo Bartolini, nella sua personale del 1998, ha sperimentato una serie di modalità divenute fondanti nel suo lavoro, gli “odori” ad esempio, le “porte di luce”, l’idea di “giardino”. In questo Museo si sono avvicendati artisti internazionali alla loro prima personale in un’istituzione pubblica italiana, da Cornelia Parker a Isabelle Cornaro, Jessica Warboys, Rosa Aiello, in collaborazione con prestigiosi musei all’estero, dal Chapter di Cardiff, alla South London Gallery, alla Tate St.Ives, alla Kunsthall Stavanger e al Boijmans Van Beuningen di Rotterdam per la personale di Bruce Nauman. E poi con molti altri, dal MAN di Nuoro alla GNAM di Roma ad esempio, per delle mostre curate dai colleghi. Attualmente stiamo lavorando con il Kunstmuseum di Lucerna per la personale di Giulia Piscitelli in programma per il 2019.
Nel caso di Linger on, your lit-up shade, Lee Kit aveva visto la “casa” da immagini, piante e documentazione varia. Non avendo avuto modo di fare un vero e proprio sopralluogo, inizialmente aveva proposto, come di sua consuetudine, di costruire dei muri su cui proiettare le immagini. Sono stata invece costretta a suggerirgli un percorso alternativo, a fargli accettare lo spazio esattamente per quello che è, con tutte le sue distorsioni, i suoi limiti, e le sovrapposizioni subite nel tempo. Si è fermato a San Giovanni Valdarno per più di due settimane e ha finalizzato in situ circa l’80% dei lavori come la stesura dei testi che li accompagnano, lavorando di notte e camminando di giorno. Abituato infatti a grandi metropoli, per lui era alquanto insolito poter raggiungere i paesi limitrofi “a piedi”, seguendo semplicemente il corso dell’Arno e senza bisogno di dover prendere nemmeno un bus. Ed è con tale modalità che ha esperito il territorio nella sua complessità storica e urbanistica.
Attraverso una serie di proiezioni incrociate o fotografando prima un muro e poi proiettando la sua immagine su un muro dalla simile texture, vedi ad esempio A perfect emotion, Lee Kit suggerisce che forse il futuro dell’arte potrebbe essere un ritorno ai vecchi media? È questa forse una possibile direzione nella lettura del suo lavoro?
Credo, in verità, che per Lee Kit si tratti soprattutto di un discorso molto complesso e a “tutto tondo”, di una “sintassi” che include, e non poco, le emozioni su cui si incentra la mostra, come ogni sua mostra, e non di differenti singoli media. Tutto entra a far parte della rappresentazione, gli oggetti, la pittura, il disegno, la componente sonora, le circostanze e le coincidenze offerte dal caso, la proiezione video, per non parlare poi della musica e dei testi che integrano le opere. Siamo arrivati a focalizzare una “tematica” per passaggi, concentrandoci soprattutto su un “sentire”, su dei feelings e delle emozioni che Kit ha trovato per gradi. Da grande divoratore di musica, ascoltandone tanta, tantissima, ha inizialmente messo a punto un soundtrack, composto da tante canzoni. Soundtrack che abbiamo quindi condiviso come “intenzione” e di cui, nel percorso espositivo non c’è alcuna traccia tangibile ma che ha sintonizzato su un mood molto specifico la mostra. Per Kit è inoltre fondamentale la scrittura che utilizza per formalizzare e circoscrivere il “tema”. I brevi testi che accompagnano ogni intervento, quanto e come tutto il resto, mobilitano le risorse dell’apologo, dell’aforisma, del pensiero breve, di tutte quelle “forme semplici”, forse oggi ormai desuete, il cui compito è da sempre stato quello di far compiere un’esperienza. I brevi pensieri che seguono le tappe di questo percorso espositivo, sono come dei piccoli “idilli”, proprio nel senso etimologico di “piccola idea” o forma e, nel loro scorcio, stringono quello che in nessun caso può essere dimenticato proprio perché consiste nella “misura più breve”. Dopo la formalizzazione del “tema”, siamo giunti a collocarlo emotivamente in una sua specifica luce, in un circoscritto frammento temporale della giornata. La mostra infatti si dispiega nella luce mattutina del risveglio, quando, a volte, sappiamo, di aver veduto in sogno la verità con tanta palpabile chiarezza da esserne perfettamente appagati. In quei momenti in cui ci viene rammentato un “vedere” che dissigilla ad un tratto tutta la nostra esistenza. Altre volte, invece, una sola immagine, quanto una sola parola accompagnata da un gesto imperioso o da una cantilena puerile, ci svela in una luce di lampo un intero paesaggio di ombre, consegnando ogni dettaglio alla sua ritrovata e definitiva fattezza.
A livello di contenuti quindi, Linger on, your lit-up shade si concentra, sul momento mattutino del risveglio?
Direi che la mostra si focalizza proprio su quella sensazione di dislocazione che si prova quando ci si sveglia nella luce mattinale, con i primi raggi di sole che si intravedono al di là della tenda alla finestra e il giorno ha inizio nella festosità del suo silenzio. Il cuore del Mattino è proprio la Sospensione, uno stato in cui l’Essere è colto mentre si forma, mentre diviene. Anche il titolo conferma questo soffermarsi su un’ombra illuminata, sul momento in cui il ricordo ci restituisce la cosa dimenticata, essa stessa dimentica. È a tale dimenticanza che si riferisce la luce di questa mostra, e da qui che proviene il suo materiarsi di nostalgia e malinconia. Il pensiero che l’avvolge non è altro che un trasalire.
I dipinti proiettati coesistono con i dipinti reali e includono i dettagli architettonici di queste stanze molto antiche; vale anche l’inclusione delle ombre del pubblico?
Diciamo che le ombre di volti, gesti e corpi del pubblico sono presenze fondamentali e costituiscono parte integrante della mostra. Anzi, sono proprio i gesti delle mani, le ombre dei passi fuggitivi e perplessi che si avvicendano davanti alle lenti dei proiettori ad attivare e rendere vive le installazioni All’ombra, comunemente relegata allo stadio più periferico, non solo di semplice apparenza ma anche di censura della luce, viene dato un ruolo fondante per la lettura della mostra.
A proposito di questa mostra. Lee Kit parla di emozione senza felicità, a quale tipo di sentimento si riferisce?
Kit parla di “emozione senza felicità”, come anche di “estasi calma senza beatitudine”. Sono sensazioni che si riferiscono al percorso del desiderio, ai tasselli che compongono il lessico della dinamica amorosa e a tutto il fascino di questa materia così deteriorabile. Il desiderio infatti non è mai una strada dritta, ma un dispendio emotivo e una messa in esilio nella finzione di tale emotività. È un’attesa d’amore che tocca l’essenza stessa del discorso amoroso, la dimensione fondativa e identitaria di tale sentimento. È l’attesa senza tregua dell’altro.
Nello spazio del museo, si rincorre a volume mesto e in una catena di echi, il ritornello di It’s all in the game, una hit di Donny e Marie Osmond che spopolava nella metà degli anni 70.. –“ Many a tear has to fall/ But it’s all in the game… Once in a while he will call… and your heart will fly away… dicono le mielose parole di questa canzone, scritta da Carl Sigman già nel 1951.