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Sara Berts

Il suo processo creativo attraverso musica e yoga: con Nike e Dérive

Geschrieben von Pietro Martinetti il 5 Juli 2021
Aggiornato il 15 November 2021

Per Sara Berts, la musica non è un “play new”. L’ha ascoltata, ballata, l’ha studiata e l’ha vissuta in ogni fase e geografia della sua esistenza. Il play new è Ayni, il debutto di Sara Berts da compositrice, stampato da Gang of Ducks, a fine maggio. Ayni è la restituzione dell’artista alla foresta amazonica e alle piante, una traduzione della legge morale degli indigeni delle Ande che stipula che se sei fortunato nel ricevere, devi essere generoso restituendo. Per chi ama ascoltare profondamente, nella sua musica si sentono la luce e la clorofilla, un’armonia biofilica che deriva da una relazione approfondita con tutto ciò che non è materia.

Il processo creativo di Sara Berts è il culmine di una mappa dello spirito, disegnata con la meditazione e anche con il corpo, attraverso lo yoga. Nelle sue prime performance pubbliche Sara Berts sta mediando con lo yoga, come adesso, musicando le sessioni del maestro Marco Migliavacca. Gli esercizi del maestro si fondono insieme ai suoni di campo di Sara Berts nella seconda sezione di Play New visualizzabile sulla app del Nike Training Club, ambientata allo Scalo Lambrate e dedicata alla grande stella della luce, il Sole.

La seconda video-session è disponibile sull’app Nike Training Club cliccando qui. L’ultima ripetizione sarà disponibile il 14 luglio.

Nella cornice di Scalo Lambrate, uno spazio di rigenerazione urbana a Milano, questo secondo appuntamento è dedicato al saluto al sole, una delle sequenze più note e più energiche nello yoga. La pratica è accompagnata da una traccia di Sara Berts, compositrice e musicista di Torino, che indaga il rapporto tra elementi naturali e musica elettronica. Nella sua produzione, voci differenti si mischiano a registrazioni ambientali creando un terreno d’incontro e scambio profondo tra due realtà differenti.

 

Chi sei? Cosa fai? Perché sei qui?

Mi chiamo Sara Bertazzini, moniker Sara Berts, sono compositrice e sound artist e sono stata invitata a partecipare a questo progetto dal team di Nike e Dérive.

Ti ricordi la prima volta che la musica ti ha regalato un’emozione?

Quando ero piccola mio papà ci raccontava le storie delle opere di Mozart mentre ne ascoltavamo le musiche, io avevo 6 o 7 anni, e ricordo che mi emozionava moltissimo il flauto magico, soprattutto l’aria della regina della notte, o quella di Papageno e Papagena, e l’ouverture del Don Giovanni. In quegli anni avevo già intuito che la musica è un linguaggio potente, universale, che è in grado di
andare più in profondità della parola.

La tua relazione con la musica non è iniziata ora, ma Ayni, il tuo EP è un Play New. Com’è fino a oggi il viaggio musicale di Sara Berts? Come è stato mettersi in gioco?

Il mio rapporto con la musica è nato nei primi anni di vita attraverso i dischi e gli ascolti dei miei genitori. In casa nostra si è sempre ascoltato di tutto, dagli Who a Bach e Mozart, da Sergio Caputo a Bill Evans. Ho la fortuna di avere dei genitori che amano la musica, mi hanno fatto studiare pianoforte, e mi hanno accompagnata ai primi concerti, NOFX e Prodigy, credo nel 1998. Ok Computer dei Radiohead l’ha portato a casa mia mamma, e non abbiamo ascoltato altro per mesi. Poi è arrivata l’adolescenza, e con lei una grandissima rabbia. In quegli anni, era il 2000/2001, a Torino e in Nord Italia c’era un rave party ogni fine settimana, iniziai a frequentare quella scena, ad avvicinarmi alla musica elettronica e a mixare vinili a casa degli amici nei pomeriggi dopo la scuola. I
sound system che preferivo erano quelli inglesi, Spiral Tribe, Desert Storm, Hekate, suonavano tekno, jungle e breakbeat. Con il senno di poi posso dire che i rave party sono stati la prima tappa della mia ricerca spirituale.

A 19 anni, subito dopo la maturità, mi sono trasferita a Barcellona dove mi sono iscritta alla facoltà di filologia. L’offerta musicale della città (Sònar, Primavera Sound, Sala Apolo, Razzmatazz) e 3 coinquilini inglesi con una cultura musicale immensa, costantemente su uTorrent a scaricare nuova musica, hanno fatto il resto. Quegli anni sono stati decisivi nel farmi capire che avrei voluto lavorare con la musica, così dopo la triennale sono tornata in Italia e mi sono iscritta al SAE Institute di Milano dove mi sono diplomata in sound engineering. Negli ultimi anni, in seguito a varie esperienze in cui il suono ha avuto un ruolo decisivo nel mio percorso di guarigione, ho iniziato ad interessarmi alla
relazione tra suono e salute, e a diverse pratiche che utilizzano il suono come strumento terapeutico. Queste esperienze hanno influenzato molto la realizzazione dell’ep uscito su Gang of Ducks e questa è la direzione che spero di dare ai miei lavori.

Ayni, la parola che da titolo al tuo album di debutto, in Quechua, la lingua più diffusa tra le popolazioni indigene della foresta amazzone, è un invito etico alle persone di aiutarsi mutualmente. Lo Yoga è un aiuto reciproco tra le persone?

Lo yoga, per come è stato concepito originariamente, è quell’insieme di pratiche ascetiche e meditative, proprie della filosofia religiosa hindu, che supportano il corpo di un essere umano alla ricerca dell’unione con la Realtà ultima delle cose. È quindi nato per aiutare il corpo di coloro che ricercavano l’illuminazione. Le pratiche di yoga moderne non tengono quasi mai in considerazione quest’aspetto fondante dello yoga e propongo attività finalizzate alla ricerca del benessere psico-fisico. E non ci vedo niente di male, tutto quello che può far star meglio le persone va a mio parere incoraggiato. Ma credo anche che il nostro allontanamento categorico, di noi occidentali del primo mondo, da qualsiasi tipo di relazione con una realtà altra da quella visibile e concreta, sia in parte la
causa del malessere che lo yoga moderno cerca di alleviare.

In Ayni, nei field recording della foresta e nella tua composizione, esce un suono pieno di luce. La tua sessione si chiama Solar; vedi connessione tra le tue sonorità e questo tipo d pratica yoga?

Lo yoga di Marco è pura celebrazione dell’essere qui, in questa dimensione fisica, corporea, incarnata. Sono quasi delle danze. Trovo che le sue pratiche siano un ringraziamento al fatto di essere vivi, che è anche lo stato d’animo in cui mi trovavo quando ho composto Ayni. Dopo tanti anni stavo finalmente bene, fuori il virus stava iniziando a fare molte vittime ma io ero viva, mi svegliavo ogni mattina in forze e in salute. E il mio cuore voleva dire grazie. Sono contenta che
questa luce si percepisca nella mia musica.

La musica è terapia più per il corpo, per l’anima o per la mente?

Non credo che corpo, mente e anima siano compartimenti stagni. Se qualcosa fa bene al corpo ne giova anche la mente, se guarisci l’anima sta meglio anche il corpo. Credo comunque che la musica parli la stessa lingua dell’anima, è qualcosa di invisibile ma che ha un impatto sul mondo visibile, sullo spazio e sul corpo.

Lo yoga è basato sulle sequenze e sulle ripetizioni di movimenti nelle sessioni: c'è anche nella tua musica una forma di ripetizione o di sessione sonora?

Nella mia musica uso molto gli arpeggi costruiti sulle scale pentatoniche minori, che si ritrovano spesso in culture e tradizioni geograficamente e storicamente molto distanti. È come se le pentatoniche fossero una lingua universale parlata da sempre dall’umanità intera. E il movimento circolare degli arpeggi lo trovo molto terapeutico, come se fosse un mantra o un icaro che attraverso la ripetizione crea un campo che mi riconnette ad una vibrazione più alta.

Pensi che ci sia una funzione comune tra sport, yoga e musica?

Dipende da quale sport o quale tipo di musica o di yoga prendi in considerazione. Diciamo che sono tutte e tre discipline che hanno a che fare più con l’intuizione e con il corpo che non con la razionalità; e quando recuperiamo il rapporto con l’intuizione in genere stiamo meglio.

Che relazioni hai con lo sport? Quali sport hai praticato nella tua esistenza e fino a che punto? Cosa significa oggi lo sport nelle tua vita?

Ho giocato molto a tennis quando ero piccola, fino all’adolescenza. Ero anche piuttosto portata, ero tesserata FIT e praticavo a livello agonistico. Ma poi altri interessi hanno preso il sopravvento e ho smesso di praticare sport fino ai 23 anni, quando ho ricominciato a nuotare e a fare yoga, ma uno yoga che non definirei una pratica sportiva.

Come hai vissuto questa esperienza nuova di approcciarti, grazie al progetto Nike in collaborazione con Dérive - in occasione della campagna Play New, a una sonorizzazione di una sessione di yoga? Quali sono state le tue ispirazioni per questo lavoro?

È stato molto interessante vedere il processo di composizione come un’estensione del corpo. Di fatto il nostro corpo non finisce con la pelle, abbiamo un campo elettromagnetico che arriva a circa tre metri da noi. Quest’esperienza mi ha fatto notare che quando suono il Buchla è come se facessi delle asana con il corpo sottile, non ci avevo mai pensato in questi termini!

Ti sei mai approcciato a questa pratica sportiva?

Ho iniziato a praticare yoga a 23 anni con Carla Perotti, la nonna di una cara amica che ha portato lo yoga a Torino nel 1958. Carla è stata allieva di Jean Klein, medico francese, musicologo e maestro di Advaita-Vedanta, la filosofia induista che si trova descritta nei testi Veda e nelle Upaniṣad. Il suo
yoga aveva molto a che fare con gli insegnamenti di Klein e non era certo una pratica sportiva. Credo che l’incontro con Carla e gli anni di pratica con lei mi abbiano lasciato una certa diffidenza iniziale verso le nuove discipline dello yoga, ma a volte lo pratico e comunque ne traggo sempre un beneficio.