In principio fu Savana Dream, maggio 2012. Poi vennero gli anni alla Buka – Ex CDG (2012-2014) e la visione notturna di Savana Club. Nel frattempo S/V/N/ penetrava nel cuore della città, al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, per ragionare sul rapporto macchina-uomo con Savana Machines, entrava per la prima volta all’Auditorium San Fedele con Tim Hecker, faceva incursione agli Erreci Studios per Savana Spectral, sempre rinnovando la percezione degli spazi e dei (non) luoghi, sempre con un occhio attento alla contemporaneità, non solo dei contenuti ma soprattutto dei formati proposti. Nel 2015 arrivarono la collaborazione con San Fedele Musica per Inner_Spaces, l’intuizione assoluta di Savana Mash, con prima e dopo tante collaborazioni, da Terraforma a Club To Club. Chi ama un certo tipo di esperienza d’ascolto e un certo tipo di clubbing lo sa: Milano sarebbe molto diversa senza il lavoro fatto negli ultimi anni da S/V/N/. Conferma ne è la seconda edizione di Inner_Spaces, i cui ultimi due appuntamenti sono stati „autoprodotti“, quello dell’11 aprile in collaborazione con FAM – Festival degli Archivi Musicali e Archivio Storico Ricordi e quello del 2 maggio con Goethe-Institut Mailand. Di tutto questo abbiamo parlato con una delle menti della rassegna, Enrico Gilardi. Storia, visioni, progetti, collaborazioni, di una delle realtà che più di tutte ha cambiato – in meglio – il volto notturno di Milano: preparatevi a una manciata di bei ricordi, ma soprattutto a rivedere il concetto di “novità”.
ZERO: Cominciamo con le presentazioni: dove e quando sei nato?
ENRICO GILARDI: Il 30 giugno 1981 a Milano.
Come hai cominciato ad appassionarti di musica? Ti ricordi il primo e l’ultimo disco che hai comprato?
Ho iniziato molto tardi e in generale, a eccezione di due icone pop – Michael Jackson e Madonna, che hanno attirato la mia attenzione fin da piccolino – ho cominciato solo da adolescente a seguire altri generi, prima il rap e in seguito trip hop ed elettronica, quindi dai Massive Attack in su. Per quanto riguarda i dischi, il primo è stato Bad di Micheal Jackson, l’ultimo Gallows / Wa di iskeletor.
Quando è nata S/V/N/ e quali erano gli obiettivi iniziali che vi eravate posti?
S/V/N/ è nata a inizio 2012 e come obiettivi avevamo, da una parte, il guardare l’underground musicale “contemporaneo” milanese nei territori della “non-club scene europea”, quindi una deterritorializzazione che portasse a riappropriarsi di certi spazi e certa socialità. Dall’altra, quello di fare eventi di musica che troviamo/trovavamo interessanti e sostenibili, poiché auto-prodotti.
Perché la scelta di questo nome?
Sembrava figo e affine al feeling che avevamo all’epoca. Adesso sembra fuori contesto, forse cambieremo qualcosa in un futuro non troppo lontano.
Il team è sempre stato lo stesso? Oggi da chi è composto e come sono divisi i ruoli?
No il team è cambiato. Ora siamo in quattro: Danilo Cardillo, Michele Lori, Nicola Giuliani e me. Tra coloro che negli anni ci hanno aiutato e si sono spesi, mi piace citare Sara Scanderebech, Chiara Foletto e URSSS: la nostra „immagine“ è stata creata e catturata da loro. Gli ambiti principali su cui lavoriamo e che ci dividiamo sono progettazione, direzione artistica, produzione, comunicazione, relazioni esterne e amministrazione.
Venivate da altre esperienze prima di S/V/N/?
S/V/N/ nasce dall’incontro tra Neoma (associazione dedicata alla valorizzazione della cultura musicale ed elettronica, il cui ciclo è durato dal 2007 e dal 2015, NdR), composta da Luxa (Gianluca Mariano, NdR) e me, e due fuoriusciti di Audiovisiva (festival multimediale nato a inizio Anni Duemila e andato avanti, con vari cambi di location, fino al 2013, NdR), Gaetano Scippa e, appunto, Danilo. L’intento era fare delle cose su un piano leggermente superiore rispetto al passato, con un imprinting di ricerca diverso – Neoma era più sperimentale, mentre con S/V/N/ a noi sembrava già di avere un approccio più mainstream…
Ragionare sulla contemporaneità della musica elettronica e farlo speculandoci il meno possibile
Quali credi siano stati i passaggi fondamentali nella storia della rassegna?
L’inizio, datato gennaio 2012, in un bar della città – il Cape Town – in cui ci siamo incontrati tutti per la prima volta. Maggio 2012 e il primo S/V/N/ allo Spazio Concept, Savana Dream, in cui abbiamo portato Blondes, Stellar OM Source ma saltò Holy Other, poi recuperato in live singolo più avanti. Il periodo dal dicembre 2012 al marzo 2014 all’Ex CGD – Buka: eravamo andati lì per un Savana (quello con Andy Stott, Ninos du Brasil e Primitive Art, NdR), ci siamo trovati bene e il rapporto è diventato continuativo, ma ci siamo anche resi conto che si trattava di una dimensione più notturna, da club, per cui quello che poi si è installato all’Ex CGD è stato il formato – aspetto su cui lavoriamo molto – del Savana Club. L’esperienza di Buka è andata avanti e la nostra collaborazione anche: abbiamo lavorato insieme nella nuova sede allo Striptease, fino alla recente serata di Buka: Mondo al ristorante egiziano El Tekkia, in cui Michele e io abbiamo fatto un dj set di apertura. Altro passaggio fondamentale è stato il Savana Machines al MUST nel maggio 2013, primo evento articolato che abbiamo tirato su come Savana; infine la fase al San Fedele, e in particolare la stagione corrente, poiché è ciò su cui stiamo lavorando ora, anche con due nostre produzioni e su cui abbiamo speso tantissimo. Soprattutto in termini di sanità mentale.
Quali sono stati, invece, i “momenti di svolta”?
Ne citerei due. Uno è Savana Underground: non solo perché è stato il primo in assoluto – nel dicembre 2012 – ma anche perché ha segnato l’inizio del rapporto con Buka e CGD, tra l’altro Michele e io abbiamo fatto anche parte del collettivo di Buka – che poi è composto da due persone, Matteo e Stefano – e abbiamo gestito il posto, a cavallo tra 2013 e 2014; quando abbiamo visto quelle 500 persone per quel primo evento abbiamo capito che c’era un interesse per un certo tipo di ricerca estetica e da lì è iniziato l’utilizzo di quello spazio, che è tutt’ora considerato significativo. Il secondo momento importante è stato Savana Machines (grazie a Federica Tattoli): anche lì, con la nostra naiveté – perché davvero abbiamo cominciato pensando di fare un evento per volta e vedere come andava – abbiamo creato una situazione in cui, sì, c’erano Chris & Cosey, ma non c’era un’intenzionalità dettata dal marketing; piuttosto, c’era la volontà di coniugare una certa proposta musicale con l’arte visiva e installativa, il desiderio di creare un evento articolato, che siamo riusciti a gestire con un senso di responsabilità. Alla fine siamo usciti vivi da un evento fatto in un museo, composto di cinque concerti, cinque installazioni, senza fondi alle spalle e portandoci un numero enorme di persone, 800, che a noi sembrava apocalittico. È andato bene e il motivo per cui lo cito è anche perché è stato un evento che è arrivato anche a persone non dentro il contesto di Milano, qualcosa che sembrava interessante anche vista da fuori.
In quali aspetti specifici individueresti l’identità della rassegna?
Provare a ragionare sulla contemporaneità della musica elettronica e farlo speculandoci il meno possibile. Il sincero interesse artistico verso i musicisti con i quali lavoriamo.
«Savana è una rassegna musicale e artistica di ricerca e intrattenimento che conduce nei nuovi suoni e nelle arti multimediali reinterpretando gli spazi urbani più suggestivi di Milano e della sua provincia» è la breve descrizione che vi date sul vostro blog. Che tipo di ambito indaga la ricerca sonora della rassegna e cosa vuol dire, oggi, fare ricerca sonora in un ambito a metà tra quello musicale e notturno? Come questa ricerca può incontrare il concetto di intrattenimento?
A oggi fare ricerca a metà tra ambito musicale e notturno vuol dire poco, non rappresenta una specificità né tanto meno una novità. L’intrattenimento lo incontri quando passi dalla ricerca all’evento, a quel punto serve allestire un ambiente, pensare a servizi, strutturare una comunicazione, creare un’immagine.
Rispetto, invece, all’attenzione ai “nuovi suoni”: quanto la proposta di novità è importante rispetto al puntare sulla tendenza retromaniaca dei nostri giorni?
Credo che già rispetto a qualche anno fa, il concetto di novità – i “nuovi suoni” citati in quella descrizione – vada interamente rivisto: noi siamo partiti dal presumere di fare concerti dedicati a nuove sonorità, ma a oggi questa cosa non ha più nessun senso, sia rispetto alla nostra traiettoria progettuale come S/V/N/, sia rispetto alla realtà. Per citare Andy Stott che nominavamo prima, oggi lui non è una novità: ma non solo non lo è lui, non solo non lo è una sua musica, ma non lo è neanche il concetto di portarlo in Italia. Non è una novità portare una novità. Mentre tre/quattro anni fa c’è stato un periodo in cui una serie di suoni – Modern Love, Tri Angle, quelle cose lì – potevano essere interessanti e innovativi, perché non c’era ancora un tessuto che le raccontava, adesso queste cose non sono raccontate ma di più, sono esauste; sono esauste loro, i loro interpreti e le modalità con cui vengono portati. Oggi tutti fanno eventi in cui ci sono live e dj set, a cavallo tra “musica” e “notte”, dove i live sono dj set e viceversa. Sono tutti ibridi così. Quindi non è più una novità. Rispetto alla nostra traiettoria, il concetto di novità è rilavorare su dei formati che ci sembrano maggiormente interessanti, che non sono più quelli del concerto, quindi di presentare dei contenuti in modo asciutto – fatto salvo Inner_Spaces, ma perché esprime una sua specificità, molto particolare e precisa. Per il resto, ci interessa ragionare su formati più estesi, come la Disco Fair (presente lo scorso anno all’interno di Savana Mash, ndR), che non è un mercato ma una fiera. E la differenza che passa tra una fiera e un mercato è quello che c’è dentro, le persone che la musica la creano e non la vendono, dando vita anche a momenti di confronto. Ora ci interessa trattare la musica in obliquo, perché prenderla frontalmente, quindi facendo eventi, non solo lo trovo meno al passo coi tempi ma non ce lo possiamo neanche permettere, perché ad esempio oggi i festival si prendono le esclusive anche di cose piccolissime, quindi per noi non ha più senso fare questo mestiere, almeno in quel modo. L’idea iniziale di S/V/N/ – mettere insieme una line up di cose contemporanee e fresche in una location affascinante – oggi non basta più. Dipende quali sono le esigenze rispetto al concetto di novità, una lettura meno pigra e meno statica è qualcosa che ammazza il passato ma non vive neanche nel presente. E oggi mi sembra che siamo fatti di super-presente. Anche rispetto alle traiettorie di S/V/N/, noi stessi lo scorso anno abbiamo toccato il punto più basso per quanto riguarda l’energia propulsiva, nonostante il grande successo di Savana Mash. E credo che questa sia in parte una nostra colpa, ma anche perché la novità, la contemporaneità, è sempre più breve. Un ciclo come quello di S/V/N/ è difficile che possa durare più di tre anni. Poi la spinta muore. Se sei bravo sopravvivi e torni a fare qualcosa di sensato, sennò o bivacchi o muori. Cosa che tra l’altro è sempre dietro l’angolo. Però secondo me non c’è dramma in questo.
Rispetto alla nostra traiettoria, il concetto di novità è rilavorare su dei formati che ci sembrano maggiormente interessanti, che non sono più quelli del concerto
Quanto l’individuazione delle varie location è (stata) fortemente caratterizzante per S/V/N/? Come ponderate questa scelta?
Moltissimo e lo è tutt’ora, le scelte positive credo siano state in egual numero di quelle meno buone. La ponderiamo moltissimo come tutto il resto, poi facciamo i conti. Un campionato a parte è stata la Ex-CGD.
In un momento in cui in città non succedeva tantissimo in ambito musicale e notturno siete diventati una realtà di riferimento, sia per le modalità “contaminate” che per l’attualità della vostra proposta – il fatto di aver dato “una svegliata” fin dalla fase iniziale alla vecchia Buka viene ripetuto più volte anche nell’intervista al Tavolo Suono di Macao. In che contesto è nata S/V/N/? Com’era la Milano di qualche anno fa, c’erano delle esigenze in particolare nel creare ex novo un certo tipo di approccio all’elettronica, d’ascolto ma anche da ballare, che non trovavate altrove?
Anche a Macao, uomini e donne del Tavolo Suono – la realtà che conosco un po‘ meglio – si stanno facendo un bel mazzo con buonissimi risultati. Probabilmente a Milano in quel dato momento c’era, o veniva percepita, meno “scena” di quanto ce ne sia oggi in questo ambito. Si veniva da anni in cui i posti avevano chiuso o avevano cambiato la proposta musicale e alcune ondate di genere avevano esaurito la loro spinta – idm, d’n’b, minimal techno, house. Quando hanno chiuso Pergola e Bulk, per esempio, è stata dura. Quello che forse ci sembrava mancare era uno sguardo consapevole all’elettronica europea, qualcosa che fosse il luogo di incontro tra la ricerca da centro sociale e l’estetica da club. Milano è così “Se ne frega se ci sei o meno… Va avanti”: a me questa cosa cattura, quello che la rende meno interessante è la sua retorica isterica degli eventi.
Trovi che in questi anni Milano sia cambiata per quanto riguarda la proposta e la fruizione sia di concerti che di serate legate al clubbing? Mi pare abbastanza evidente la tendenza a uscire dal format stretto del concerto e del dj set, anche accogliendo in spazi fisici che lasciano intendere come dietro ci sia un concept dai contorni non per forza „rigidi“.
Mi sembra sia tornato in modo stabile un po‘ di clubbing, per lo più continuamente “temporaneo”, però. Tutte escono dal format stretto, perché prima di tutto è la produzione musicale-artistica che lo fa. Quello che si desume è che l’esperienza live sia fatta di certe cose e quella del clubbing di altre, in realtà essendoci un’ibridazione dei contenuti c’è anche un’ibridazione della fruizione, della sociologia e dei consumi. Che poi, più che un’ibridazione, uno stravolgimento, le cose traslano leggermente, non è che vengano stravolte. Credo che, a livello macroscopico, tendiamo all’autoconservazione. Poi ci sono realtà o progetti che invece cercano di tracciare una linea e starci sopra in equilibrio e questo le rende naturalmente “temporanee”.
Come è nata la collaborazione con i ragazzi di Buka e su quali punti di contatto poggia le basi?
È nata dalla ricerca reciproca di occasioni. Ora si basa su rispetto, comprensione, scambio e affetto. Però ci siamo arrivati passando attraverso il conflitto di visioni, il non riconoscimento reciproco, la fatica. Condividiamo l’idea di ambiente/contesto per il clubbing, un certo tipo di sguardo sulla ricerca sonora… Insomma, un sacco di cazzate! Ci vogliamo bene, anche perché con Buka si tratta in primo luogo di affinità dal punto di vista umano. E in questo senso c’è anche una convergenza sulla ricerca musicale ed estetica, come quando entriamo in un posto, che in genere è quello che loro hanno trovato, e ci viene subito da dire «Sì, è quello giusto». Senza esagerare credo che si tratti di una specie di affinità elettiva, anche se poi non si tratta di un rapporto facile, siamo persone grandi che hanno dei progetti piccoli, persone mature che poi rispetto ai propri progetti hanno anche delle tensioni infantili. Guardiamo alle stesse cose nello stesso modo – nello specifico il clubbing, e più di recente abbiamo trovato un ambito di ricerca comune relativa ai suoni post-global, seppure con punti di vista differenti… Noi facciamo sempre la parte degli intelligenti e loro dei belli (risate, NdR). Ma solo perché noi la parte intellettuale la facciamo pesare di più. La cosa interessante è che c’è la giusta dose di rispetto reciproco per cui possiamo dire di collaborare davvero. E non quelle cazzate di marketing per cui si finisce solo con lo spargere loghi per il mondo.
Con Buka si tratta in primo luogo di affinità dal punto di vista umano. E in questo senso c’è anche una convergenza sulla ricerca musicale ed estetica
Quanto è importante la contaminazione – dei generi, dei pubblici, degli approcci, penso anche degli ambiti artistici per ricollegarsi alle “arti multimediali” sopracitate?
È nelle cose, è inevitabile, poiché lo sono gli artisti stessi. Poi in realtà si cerca un’esperienza semplice di cose naturalmente complesse. Per quanto riguarda la contaminazione degli approcci, trovo interessante il metodo che c’è dietro la ricerca sull’arte visiva, l’ossessione del “perché” concettuale, del “perché” progettuale, del “perché” contestuale, del “perché” materiale.
Ci sono delle realtà, in città o all’estero, che vi hanno formato nell’approccio dell’organizzazione di eventi?
O‘, Hundebiss, Bää Fest, A+M bookstore, i gemellini Linke, il Link – ah!, quella Rephelx Night del 2000! -, Dissonanze, i primi C2C, Maffia Club, la sala Morphine del Cocoricò; Bologna, Torino, Reggio Emilia, Genova, Roma, Berlino, Londra.
Qual è la visione notturna di S/V/N/? Ci sono dei posti a Milano che segui e/o frequenti?
Fumo, strobo, basse frequenze, dai 100 ai 170 bpm. Ascolto e/o ballo. Seduti e/o in piedi. Alcool e/o droga. Tra i posti Macao e Biko – che seguo ma non frequento.
Quali sono state le maggiori difficoltà all’inizio, sia dal punto di vista operativo che di comunicazione dell’identità della rassegna? Sono diverse da quelle che avete ora?
Non avere soldi, non avere professionalità specifiche (alcuni di noi), non avere luoghi a cui rivolgersi, non avere un bacino di utenza che vada oltre le 300 persone (massimo). Rispetto a oggi sono più o meno le stesse, volendo però fare fronte a una programmazione strutturata rappresentano un ostacolo ancora più grande.
Negli anni hai riscontrato un cambio di atteggiamento, magari più consapevole, da parte del pubblico di Milano?
No. Se gli piace una cosa si affeziona, se si affeziona si abitua, se si abitua ha preso atto di una realtà. Poi la mette in discussione, si stufa, la critica, si allontana. E poi si ricomincia.
Tra i vostri partner ci sono il Comune di Milano e La Regione Lombardia. Quanto, davvero, le istituzioni riescono ad avvicinarsi a realtà come S/V/N/ e quanto vi è costato, in termini di impegno, essere percepiti come un plus valore per il territorio?
Non ci è costato niente, non lavoriamo per loro, se non la presentazione di documenti (pre e post evento) e qualche euro per le marche da bollo. Mi sembra giusto citare l’assessore Del Corno e i suoi collaboratori (Minetto e Tarassi) perché hanno fatto un passo concreto verso di noi; è un mezzo miracolo e pensare che questa esperienza si interromperà fra qualche mese mette ansia. Mi rammarico del fatto che non porteranno a compimento il dialogo intra-istituzionale utile per rendere più facile la realizzazione di accadimenti culturali pubblici, è veramente un delirio che non prende una sua forma definitiva e credibile. Il resto lo possiamo considerare alla stregua di un relitto dal quale colano dei benfit, a volte sotto forma di fondi, a volte sotto forma di location. Siamo noi (in generale) che aiutiamo loro ad avere una parvenza di legittimità su questo piano, la Regione Lombardia è la penultima regione in Italia (in proporzione alla sua popolazione) in termini di investimenti in cultura – per lamentele e precisazioni, rivolgersi ai funzionari della Regione che ci hanno comunicato questo dato. C’è da non crederci, ma esiste una linea di finanziamenti per i progetti “di particolare interesse del Presidente della regione” (credo sia la legge 50)… Ma vaffanculo, va! Strutturate iniziative normali, realmente accessibili e soprattutto implementate un sistema informatico che funzioni.
Passando alla collaborazione con San Fedele Musica – altra realtà illuminata di Milano, con cui condividete la seconda stagione di Inner_Spaces – come è nata e quali sono i punti di contatto con loro?
Nel 2013 cercavamo un luogo per il concerto di Tim Hecker, la programmazione di San Fedele Musica la conoscevamo già, e l’Auditorium sembrava perfetto. Abbiamo provato a chiedere e Padre Pileggi ha accolto con entusiasmo la proposta. Il nostro punto di incontro è la ricerca nell’ambito della musica elettronica che preveda un ascolto attento in un luogo appropriato – oltretutto nel centro di Milano – e la voglia di fare rete in città. Il luogo, inteso come area geografica in questo caso, è fondamentale: è raro che eventi ricorsivi legati all’elettronica contemporanea di ricerca – slegati da Salone del Mobile, Settimana della moda, MiArt, etc. – e fuori dal circuito della classica contemporanea accadano in pieno centro – eccezione è l’eccellente lavoro che Maddalena Novati porta avanti al Museo del Novecento con l’associazione NoMus. Il Centro di Milano è quasi totalmente svuotato di contenuto.
Come è nata Inner_Spaces? Come per San Fedele Musica, si tratta di uno snodo fondamentale nella programmazione annuale di S/V/N/ e anche una summa dei tratti fondamentali della rassegna. Un po’ una quadratura del cerchio di alcuni aspetti in cui avete lavorato in questi anni?
Ci è sembrato possibile lavorare insieme, provare a ragionare su una curatela e progettazione condivisa. Siamo partiti da una visione di padre Pileggi, S/V/N/ ci ha messo il suo punto di vista, l’esasperazione del concetto e l’entusiasmo per alcuni progetti musicali che troviamo coerenti. Questa edizione differisce da quella 2015 nel tentativo di applicargli uno sguardo ortodosso rispetto allo strumento utilizzato, cioè l’Acusmonium. Inoltre è arrivata ad avere una forma coesa: cadenza mensile, lo stesso giorno della settimana, una politica di prezzo dei biglietti attenta e uniforme.
Ci parli degli ultimi due appuntamenti della rassegna, che avete prodotto quasi in autonomia?
Si tratta di produzioni di S/V/N/ con la collaborazione e il supporto di diverse realtà e persone. Senza perdere di vista il tema della rassegna, che riguarda gli spazi interiori sia sul piano espressivo – l’interiorità come fenomeno spirituale – sia come metafora culturale, per il secondo anno della rassegna ci interessava indagare con maggior consapevolezza gli ambiti espressi dal formato e dal luogo della manifestazione, che hanno almeno due aspetti salienti: da un lato, quello più accademico legato alla tradizione e alla storia della musica acusmatica ed elettroacustica; dall’altro, le possibilità attuali della ricerca, cioè come questi ambiti si legano e si relazionano con le possibili direzioni future della musica elettronica sperimentale oggi. Abbiamo cercato di tracciare un arco fra questi due poli, una sorta di genealogia proiettata nel futuro. Per farlo abbiamo lavorato con un curatore, Manuela Benetton, che vive a Berlino dove opera nella musica elettronica di ricerca attuale, ma ha grande esperienza e preparazione della sua tradizione più colta e alta. Per l’11 aprile volevamo dare la possibilità di ascoltare alcune di quelle gemme nascoste nella ricerca delle origini con un’esperienza d’ascolto immersiva come quella offerta dall‘Acusmonium SATOR, con 50 speaker e 32 canali. Abbiamo lavorato con Manuela e con il Festival Archivi Musicali e l‘Archivio Storico Ricordi per portare i repertori di due istituzioni che ci sono sembrate le più significative per far comprendere l’attualità della tradizione: il GRM di Parigi – e il lavoro di ristampa dei suoi archivi da parte della celebre etichetta di ricerca Editions Mego lo dimostra – e l‘EMS di Stoccolma, sia archivio tecnologico sia centro di tanta produzione sperimentale oggigiorno. Avremo entrambi i direttori a eseguirle nella stessa sera. Assieme a queste, l’esempio di un giovane musicista italiano che si lega fortemente alla ricerca delle origini con grande potenza espressiva attuale come Valerio Tricoli, anche qui con un lavoro, presentato per la prima volta in Italia, che ha a che fare con le prime tecniche di manipolazione, gli archivi e le direzioni future: la rielaborazione digitale della partitura per nastri del Williams Mix di John Cage.
Per il 2 maggio abbiamo cercato di proiettarci nel futuro senza dimenticare quello che abbiamo imparato, con un rara esibizione in duo di Peter Rehberg, fondatore e direttore di Editions Mego, e Marcus Schmickler, col loro violento progetto collaborativo R/S. A cui si aggiunge una prima assoluta, la prima collaborazione dal vivo del pioniere tedesco della techno concettuale Thomas Brinkmann assieme all’australiano Oren Ambarchi, originale innovatore a 360 gradi delle tecniche convenzionali di composizione. Evviva gli Archivi e i centri di ricerca!
A questo punto mi sembra doveroso dedicare qualche parola in più anche al FAM – Festival Archivi Musicali. Come è nata la collaborazione e come diventa un tassello perfettamente attinente rispetto al vostro lavoro e quello di San Fedele Musica?
Con il FAM la collaborazione è nata perché si è creato un buon rapporto con l’Archivio Storico Ricordi, che è tra i promotori del festival e ha sede a Milano – avevo lavorato con loro già lo scorso anno, ma non come S/V/N/, per il concerto di Philip Jeck. Ci eravamo trovati bene a lavorare insieme, anche a livello personale, e abbiamo pensato di rinnovare la collaborazione, anche perché sia il FAM era interessato a lavorare al San Fedele sia quest’ultimo con il FAM, quindi i tre pezzi erano idealmente già collegati tra loro. Ci abbiamo provato e alla fine, dopo un po’ di fatica, ce l’abbiamo fatta. È ovvio che volendo lavorare in modo più ortodosso sull’Acusmonium SATOR la collaborazione per la data dell’11 aprile è venuta quasi da sé, perché il GRM è fatto per questo tipo di cose, è uno dei pochi archivi ancora esistenti e che producono contenuti – tra cui un festival; stessa cosa per EMS, che però è più legato alla tecnologia ma è comunque molto attivo. Ci sembravano dei contenuti – peraltro inseriti nel convegno del FAM di lunedì 11 aprile – molto legati tra di loro. Credo che gli Archivi in generale si stiano aprendo, anche perché non hanno fondi e hanno bisogno di generare economia. Sono a decine, l’ultima notizia è dell’apertura del MoMa, ma anche quelli militari… Si sta riconsiderando il concetto di archiviazione, che ha molto a che fare con la musica. Aldilà del fatto che è bello avere un logo istituzionale di questo tipo, la collaborazione con gli archivi per Inner_Spaces nasce semplicemente perché gli archivi hanno molta attinenza con la musica.
Qual è stato l’evento più difficile da organizzare e perché?
Inner_Spaces 2016, perché siamo grandi e abbiamo più responsabilità verso noi stessi innanzi tutto.
Come è nata l’idea di Savana Mash e credi che riproporrete anche quest’anno un evento focalizzato sui “suoni post globali”?
È nata dall’apertura verso certe sonorità, partendo da una ricerca trasversale – indipendentemente dalla loro “provenienza” – siamo arrivati a cercare di tematizzare un nuovo interesse che stava dimostrando l’Occidente verso un certo tipo di influenze ed effervescenze. Bene o male sullo sfondo questioni legate ad appropriazione, ricerca, identità, esotismo, ritmo, etnomusicologia. Ci proveremo a farlo nella seconda parte del 2016 con maggiore consapevolezza e maturità. Un tema centrale credo dovrebbe essere “cultura identitaria, retorica dell’identità”
Cosa c’è nel futuro di S/V/N/?
Inner Spaces_2016 #4 e #5. E poi vediamo quando sarà possibile mettere in piedi una bella Disco Fair.
FOTO DI SARA SCANDEREBECH
VIDEO DI URSSS