Stefano Carlucci è il publican preferito del vostro publican preferito. Il suo Le Bon Bock è un istituzione per chiunque a Roma apprezzi whisky o birra e, grazie a un’onorata carriera di ben 25 anni, il suo bancone ha avuto una funzione ricreativa e formativa senza pari. In questa intervista abbiamo ripercorso le tappe principali di queste nozze d’argento, parlando anche dello shop firmato Le Bon Bock, dove trovare bottiglie di whisky e affini. E pensare che Stefano una volta consegnava dolci per una pasticceria…
ZERO: Parlando negli anni con molti addetti ai lavori di Roma, il tuo nome è sempre uscito fuori quando si è parlato dei “maestri”, di coloro che sono stati importanti nel formare il gusto. A questo punto devo chiederti chi è stato a plasmare il tuo.
Stefano Carlucci: Innanzitutto, c’è da dire che anni fa la denominazione „artigianale“ non esisteva, a parte qualche piccolissima etichetta: le birrerie erano per la maggior parte indipendenti e producevano all’interno dei loro birrifici e, per quanto possa sembrare strano, lo standard era alto, la maggior parte dei prodotti era di buona qualità. Più tardi, con l’avvento delle multinazionali e dela globalizzazione, ovviamente il livello è sceso. La mia formazione passa attraverso piccoli locali fino ad arrivare, qualche tempo dopo, all‘Orso Elettrico, una delle prime birrerie a conduzione privata di Roma. A Paolo Conti devo tanto, da lui ho imparato la gestione dei clienti e i diversi stili birrai. Per il whisky i miei maestri sono Nadi Fiori – importatore e distributore – e Angelo Matteucci, presidente dell’ex S.M.C. (Single Malt Club). persone che mi hanno trasmesso passione e conoscenza del distillato.
La passione per questi due prodotti è arrivata prima o dopo l’apertura de Le Bon Bock?
La birra è stata la molla che mi ha portato ad aprire un locale, il whisky l’evoluzione del mio lavoro.
Le Bon Bock è stato il tuo primo locale o ne hai gestiti altri prima?
Il primo in assoluto.
Da ragazzo ti è mai capitato di lavorare in un pub, magari immaginando di aprirne uno tuo in futuro?
A 24 anni decisi che volevo fare questo lavoro, la mattina portavo dolci per conto di una pasticceria nei ristoranti più importanti di Roma, la sera facevo il cameriere per imparare il più possibile.
Che attività c’era nei locali de Le Bon Bock prima che li rilevassi?
Una enoteca specializzata in pesce crudo e ostriche, erano troppo avanti per quei tempi, non funzionò!
Puoi raccontarci il primo giorno di apertura?
Ricordo la frenesia e l’emozione per un sogno che diventava realtà. Mi portavo dietro l’esperienza dell’Orso Elettrico con il mio ex socio Lamberto e una buona impostazione di lavoro. Ho iniziato con tre birre alla spina, tante referenze in bottiglia e qualche whisky. Ma solo nel ’94, con le prime degustazioni, iniziò un percorso lungo e affascinante legato alla Scozia! Nel 1996 comprai il primo impianto e cominciai a lavorare direttamente con gli importatori scavalcando i distributori. Con Kiem scegliemmo Andechs, Hannen Alt, Pilsner Urquell e altre birre a rotazione. Poi eliminai le bottiglie e le spine passarono da tre a sei. Dal 2000 importo direttamente da Scozia e Inghilterra.
Quella di Monteverde è stata una scelta voluta?
No, Monteverde fu un caso. Io abitavo vicino, ma a quei tempi le licenze non venivano rilasciate, bisognava comprarne una già esistente. Su un giornale di annunci lessi un’inserzione, dopo non so quanti mesi di ricerca, ed eccomi ancora qui. Ora ci vivo anche.
Chi sono stati i clienti dei primi anni e chi sono i clienti del 2017?
I primi clienti sono stati quelli che ci hanno seguito dall’Orso, poi, con gli anni, abbiamo fatto un nostro zoccolo duro importante, qualcuno viene da quando abbiamo aperto, di altri clienti ora vengono i figli. L’età si è alzata generalmente. La differenza sostanziale è che prima si beveva birra in modo decisamente più informale: si parlava sì di birra, ma con più semplicità. Ora ne parlano tutti, sembrano tutti intenditori, ma nella realtà si beve molto meno!
Quali sono le birre che hai adesso al bancone? In generale, quali ti piace servire e, personalmente, quali ti piace bere?
Importo sempre Belhaven dalla Scozia: un piccolo birrificio da poco proprietà di una multinazionale, ma che riesce a produrre birra con la qualità del secolo scorso. Visitando lo stabilimento mi sono reso conto delle loro capacità!
Ora poi sono tornato al mio vecchio amore, la Pilsner Urquell: grazie al suo progetto „Tank“ abbiamo un’ottima birra non pastorizzata.
Ti faccio la stessa domanda, ma in relazione al whisky.
Io amo la distilleria di Port Ellen, ormai chiusa da anni e difficilmente reperibile, se amo il whisky è anche „colpa“ loro! Per il servizio cerco di capire cosa desidera il cliente, questo è il lavoro di un bravo publican.
Negli anni hai ampliato anche la dimensione legata al cibo. Ti occupi sempre tu di questo aspetto? Chi è il tuo chef?
Sì, mi occupo io della spesa e del menù – con la collaborazione dello chef, ovviamente. Cerco di legare il food alla birra e al whisky con prodotti del territorio importati direttamente. Il nostro chef è Marco Vingelli, subentrato da poco nel nostro staff, con lui stiamo aggiornando la nostra cucina, senza stravolgerla e usando le materie prime migliori.
Proviamo a fare una sorta di gioco: cosa serviresti a una persona che viene per la prima volta da te per conquistarla?
Credo che la cosa migliora sia metterla a proprio agio, il primo impatto è molto importante, da entrambe le parti.
Ora rivolgo a te il gioco, immagina la tua cena perfetta da Le Bon Bock.
Ostriche con whisky delle isole, salmone selvaggio con Pilsner Urquell, Birramisù alla Scotch Ale. Per chiudere, un buon whisky affinato in botti di sherry!
Oltre che in cucina, ti sei dato molto da fare anche all’esterno del locale, in primis con Le Bon Bock Shop? Ci puoi raccontare come e perché è nata questa esperienza?
Lo shop nasce per passione, il primo whisky shop d’Italia. Con il mio socio Francesco Ciampa volevamo fare un negozio specializzato. Al locale avevamo anche la vendita delle bottiglie, ma le dimensioni erano limitate, ora abbiamo centinaia di referenze che altrimenti non avrebbero trovato spazio .
Immagino che negli anni avrai fatto molti giri nelle distillerie scozzesi, ti ricordi la prima e quali furono le tue impressioni a riguardo? L’ultima, invece, qual è stata?
Ricordo la prima degustazione alla Lagavulin alle nove di mattina: altro che cappuccino e cornetto! L’ultima distilleria invece è stata Springbank, visitata più volte!
La cosa più strana e divertente che ti è capitata durante questi viaggi?
Dimenticare tre borse piene di whisky alla stazione di Glasgow e averle ritrovate: da noi non sarebbe mai successo!
Non ti chiedo la distilleria né il whisky migliore, perché ci sono tantissime variabili che possono influire sia sulla produzione che sul palato al momento dell’assaggio? C’è, però, una distilleria e una bottiglia a cui sei particolarmente legato?
Port Ellen, Signatory Vintage 1976. Uno dei migliori!
Ti è capitato – e magari ti capita ancora – di girare tra i vari birrifici per scegliere i prodotti da servire? Quali sono i tuoi preferiti, sia tra gli italiani che tra gli esteri?
Ultimamente, tra negozio, pub e famiglia, il tempo per viaggiare si è ridotto. Arrivano comunque tanti prodotti da testare e credo che il panorama italiano sia molto migliorato. Tuttavia, in confronto ad altri paesi siamo ancora un po‘ indietro, sia per consumi che per produzione, se non si alzano i consumi non si cresce in generale.
Torniamo al locale, avresti mai immaginato che Le Bon Bock avrebbe toccato i 25 anni di vita?
Non da subito. Io ho un’idea romantica di questo lavoro: quando all’estero vedi pub che hanno secoli ti viene da pensare a un lavoro fatto da generazioni e sei consapevole di una realtà diversa dalla nostra. Inizialmente pensavo a un lavoro „giovanile“, poi ho preso coscienza che questo è un lavoro come tanti altri, ha pregi e difetti come tutti i lavori, ma se lo fai con passione lo fai meglio.
Hai mai pensato di cambiare sede o magari di aprirne una seconda?
Svariate volte, ma poi diventa casa e l’atmosfera che hai creato non puoi portarla altrove.
Quando hai aperto, il mercato della birra artigianale e quello del whisky praticamente non esistevano, ora ci sono festival per ognuno di essi. Se dovessi fare un bilancio sul bere a Roma e in Italia, quale sarebbe?
Credo che i festival siano diventati solo un modo per fare cassa: i costi di gestione sono troppo alti per chi vuole partecipare e allo stesso tempo i clienti vengono spostati dal tuo locale alla manifestazione e tu, gestore, devi comprare forza-lavoro. La maggior parte, inoltre, porta birre che si trovano regolarmente nei locali, poche novità e tanta rimanenza di magazzino. Sono poche le vere manifestazioni che fanno cultura e presentano prodotti nuovi e non reperibili facilmente! A Roma si beve bene, ma si beve poco in confronto al resto d’Italia, sopratutto al Nord e alle Isole. A Roma c’è tanta birra e tanta gente, forse ci sono anche troppe chiacchiere: bisognerebbe remare tutti dalla stessa parte, poi la selezione naturale farà il resto.
Per il futuro vedi altri cambiamenti all’orizzonte?
Non so cosa possa succedere, vedo ormai robot che spinano birre, bicchieri che si riempiono da soli, potrebbero cambiare in peggio tante cose, sia nel gusto che nei rapporti con il cliente… Nella produzione ci restano i birrifici indipendenti per salvaguardare la birra… Speriamo bene!