Studioamatoriale è una realtà giovanissima. L’idea apparentemente bizzarra che lega i termini “studio” e “amatoriale” ha un pensiero preciso, e lo si deve tutto ad Angelo, che da studio di architettura ha aperto lo spazio all’ignoto. Diciamo all’ignoto perché alla base dell’Amatoriale c’è la disposizione a lasciarsi trascinare dal collettivo, dagli incontri, insomma: lasciarsi felicemente attrarre dalle eventualità. Tra architettura, design, editoria e arte contemporanea, in uno spazio che sembra un giardino di piastrelle, ci sentiamo di citare il Colli, quando scriveva che “ci vuole una comunità di amici per pensare”.
«Quando tutto è altamente specializzato e professionalizzato, si voleva portare una componente più ludica – più libera – del fare e del pensare.»
Partiamo come sempre dalle basi: perché “Amatoriale”?
È la questione per eccellenza, è importante e quindi l’affrontiamo seguendo tre piani di pensiero. Il primo è legato al sentimento, all’amore, che oltre a muovere tutte le cose in fondo muove anche le relazioni all’interno di questo studio. Secondo, perché „amatoriale“ è l’opposto di „professionale“: quando tutto è altamente specializzato e professionalizzato, si voleva portare una componente più ludica – più libera – del fare e del pensare. È un’idea d’apertura che comincia ripensando il valore dell’essere „dilettanti“. Infine c’è una componente diciamo pornografica, del sesso, dove l’amatoriale è decisamente la categoria più frequentata sui siti porno.
Come nasce invece l’idea di essere Amatoriali e avere uno Studio?
Studioamatoriale nasce da me, almeno inizialmente, come studio di architettura. Ma, da subito, c’era l’idea di aprire lo studio non soltanto alle professionalità contigue, ma anche e soprattutto ad altri pensieri. Da qui viene l’associazione tra „studio“ e „amatoriale“. Poi – molto banalmente – non avevo soldi all’inizio per prendermi uno spazio fisico, e lo studio in questione poteva essere la piazza sotto casa, la camera… con la pandemia è arrivata anche l’esigenza di avere uno spazio fisico oltre l’ambiente domestico, che in questi ultimi anni è diventato uno spazio più che determinante nella costruzione delle nostre giornate e del nostro pensiero, arrivando a volte a essere anche deleterio. Lo spazio in cui siamo serve principalmente come innesco per altre situazioni, per discorsi che nascono e si sviluppano meglio in luoghi come questo che in casa. Per innescare degli incontri. In questo senso anche l’organizzazione dello spazio – può sembrare una libreria, uno studio d’architettura, uno spazio per mostre, un appartamento – ha delle scelte precise, come il pavimento verde. Un colore che mi porto appresso da tempo, dalla relazione prima di tutto umana e poi lavorativa con Bert Theis – che ha determinato anche un immaginario. Questo verde è una piccola provocazione per costruire un piccolo giardino dentro a uno studio, trasformando il pavimento in un luogo che può letteralmente essere vissuto come un parco, per un pic-nic.
C’è un’impronta comunitaria nell’idea che muove lo spazio, che forse era più comune anni fa – al di là della pandemia.
Infatti bisogna sottolineare che la mia formazione è sempre stata di tipo comunitario. Qui a Milano ho sempre partecipato o azionato delle situazioni collettive, contesti in cui sono immerso da quando sono qui, sia in veste di partecipante che come attivista. Prima con il lavoro in Isola del gruppo Isola Art Center, poi con i lavoratori dell’arte e successivamente con Macao, a partire dall’occupazione di Torre Galfa – e la storia che tutti conosciamo e che è inutile raccontare per l’ennesima volta. Naturalmente questo percorso ha inciso profondamente nel mio modo di pensare e stare nel mondo lavorativo: cerco sempre di portare avanti i progetti con altre persone. Fatto sta che il desiderio che muove questo studio non-professionale, è quello di avere uno spazio in cui accadono eventi la cui miccia è la qualità delle relazioni che si stringono qui. Per farti un esempio, non è questione di invitare un artista per fare una mostra, ma di vivere rapporti di qualità e pensarne poi la restituzione pubblica. Naturalmente il progetto è stato rallentato dalla pandemia e dal lockdown. Lo spazio esiste da quasi un anno, ma si è aperto soltanto un paio di volte. Ma il desiderio rimane quello di aprirsi sempre di più al quartiere e mettersi in dialogo con altre realtà attorno a noi, sviluppando dei progetti.
Allora la domanda viene spontanea: cosa ce ne facciamo di uno spazio fisico, chiuso, in questa situazione?
Esattamente: che serve se poi le persone non ci possono entrare? Questo spazio esiste contestualmente alla pandemia, e adesso c’è un momento di adagio in cui poter pensare in piccola scala dei nuovi modi per stare assieme. La sfida è cercare di capire che precipitato può avere oggi quest’ordine di idee con cui è partito il progetto. Ci stiamo accorgendo che questo modo di stare insieme, queste limitazioni, faranno parte del nostro quotidiano per molto tempo. E un’idea come quella di Studioamatoriale si deve relazionare necessariamente alla realtà dei fatti. Non può stare ferma ad aspettare il presunto ritorno di qualche tipo di normalità.
Studioamatoriale ha anche un sito, su cui compaiono un mucchio di progetti estremamente eterogenei nella restituzione: architettura, allestimento, grafi-ca... penso che se fossero presentati separatamente potresti sembrare alme-no 3 o 4 persone. Da dove arriva?
Posso dirti sicuramente che anche questa eterogeneità di formalizzazioni e di approcci si riconduce – di nuovo – ai miei modi di stare in città. Io non ho un gruppo di riferimento, e in questi anni a Milano, attraversandone diversi e imparando quindi vari modi di stare assieme, diversi modi di fare pensiero e forme, ho naturalmente incontrato e prodotto diverse cose. Per esempio la direzione artistica della fiera Bellissima o la fiera dell’editoria indipendente a Macao, ma anche la casa editrice Edizioni Temporale, insomma tante esperienze e restituzioni che non sono vicinissime tra loro e possono apparire anche molto lontane. Basta pensare alla fiera dell’editoria nel Palazzo del Ghiaccio e alla fiera dell’editoria indipendente dentro allo spazio occupato di Macao. Penso che il fatto, il valore, sia proprio riuscire a farle entrambe, mettendone anche in luce le contraddizioni. È certamente più interessante che lavorare singolarmente su percorsi che altrimenti sarebbero troppo dritti.
Insomma, mi viene in mente il Colli quando diceva che “ci vuole una comuni-tà di amici per poter pensare”.
Qui parliamo proprio di rapporti di amicizia, e quindi anche rapporti difettosi o poco lineari. Questo gruppo di amici che sta alla base può essere visto come una debolezza, ma in verità è l’idea forte dello spazio. Che non è nuova a dirla tutta, ma qui è frequentata da chiunque, senza barriere generazionali, e proprio perché parliamo di gruppi di amici. Il tutto con l’idea che si possa estendere sempre di più, dal quartiere alla città. Senza andare verso una situazione di puro scompiglio, ma tenendo dentro a una complessità di piani una lettura, un punto di vista, collettaneo e costruito assieme, seppur disparato.