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Antenati e pedali: una nuova wave del tarawangsa

Ci siamo fatti raccontare da Teguh Permana dei Tarawangasawelas come portare anni di tradizione all'interno di un progetto contemporaneo mantenendo il rispetto della comunità

Geschrieben von Filip J Cauz il 17 Juni 2024
Aggiornato il 19 Juni 2024

L’unica volta in cui ho visto i Tarawangsawelas dal vivo è stato nel settembre del 2018, in un caldissimo tardo pomeriggio a Standards. Sei anni dopo, il progetto si è evoluto e affinato, fino a coincidere con un singolo componente. Alla vigilia di una nuova partenza per l’Europa, ho raggiunto Teguh Permana via telefono, con un collegamento tra Milano e Kuningan, Giava Occidentale, per farmi raccontare qualcosa di più di quello che andremo ad ascoltare il prossimo 25 giugno e della lunga storia che c’è dietro a questo progetto.

«Voglio che il pubblico possa cogliere un’esperienza, affidandosi maggiormente alle sensazioni che alla logica.»

Cauz: Ciao Teguh, mi piacerebbe iniziare questa nostra chiacchierata davvero dalle origini. Ovvero dal momento in cui hai conosciuto la tarawangsa e hai dato vita a questo progetto.

Teguh Permana: Inizialmente è stato il gamelan a farmi interessare alla musica tradizionale indonesiana. Ma nel villaggio dove sono cresciuto, a circa sei ore di distanza da Bandung, c’erano solo altre due persone interessate a entrare in un gamelan club, e non puoi fare gamelan in tre, così quel sogno si è interrotto presto. Mi è rimasta la passione per la musica, però. Così all’università ho deciso di andare a studiare il Karawitan, il dipartimento dedicato alle tradizioni musicali sundanesi, e lì è ricominciato tutto. Anche se non sono mai riuscito ad andar bene nello studio del gamelan: era troppo complicato, o forse ero io che non ero portato, in fondo non amo suonare in gruppi troppo numerosi. Così ho provato altri strumenti, finché un giorno non ho scoperto la tarawangsa.

C: Quindi era uno strumento a te completamente sconosciuto fino ad allora?

TP: Esatto. Ma appena lo sentii mi incuriosì subito, e giorno dopo giorno cominciai a studiarlo. Il problema è che non c’era nessuno all’università che potesse insegnarmi. Così mi cercai un maestro, un guru, e lo trovai nel villaggio di Rancakalong. Era intorno al 2011, e dura ancora oggi. Continuo ad andare a Rancakalong a studiare. Sono stato il primo studente diplomato in tarawangsa, tanto che il mio maestro è dovuto diventare anche il mio relatore di tesi. Anche oggi siamo davvero pochi a suonarla, circa 200, ma la maggior parte non esce dall’ambito rituale, mentre io ho cercato da subito di andare verso la musica contemporanea. Sono stato fortunato, perché così ho incontrato Rabih Beaini, che era in cerca di un suonatore di tarawangsa per fare musica sperimentale, e da lì mi si è aperto un mondo di contatti e nuove amicizie in Europa.

C: Ma allora Tarawangsawelas è un progetto di musica tradizionale o di musica sperimentale?

È complicato [ride]. Quando abbiamo dato vita ai Tarawangsawelas lo abbiamo fatto per sperimentare, seppur partendo da basi tradizionali. Voglio continuare la storia di questa musica e il suo ruolo rituale, ma con l’approccio del ventunesimo secolo. Potrei riassumerla così: una new wave tarawangsa! [ride]. Non riesco però a definirla del tutto “sperimentazione”, perché non diamo vita a suoni davvero nuovi. Abbiamo preso dei pezzetti di qualcosa che già esisteva, cercando di condensare un ampio rituale, che dura oltre sei ore, in modo che il pubblico possa provare sensazioni simili a quelle che si provano dopo ascolti molto prolungati. Per dire, ho aggiunto dei pedali al mio strumento, per arrivare a suoni ripetuti che sono tipici dei lunghi rituali. Voglio che il pubblico possa cogliere un’esperienza, che ai miei concerti chi ascolta possa prendersi del tempo per affidarsi maggiormente alle sensazioni che alla logica.

C: Questo mi porta anche al rapporto con la musica rituale. Al di là dei Tarawangsawelas tu continui a suonare anche in ambito cerimoniale?

TP: Sì, ma sempre con un ruolo secondario. Non sono mai colui che guida la musica nei rituali. È una decisione che ho preso personalmente, perché credo che, dal momento che la mia vita è quella del musicista, del performer, non posso essere anche colui che guida un rito. Ritengo che queste due scelte che non possano coesistere. A oggi mi capita di suonare un paio d’ore a certe cerimonie.

C: La comunità della tarawangsa accetta la tua scelta di portare una musica rituale in un mondo profano?

TP: Ovviamente no [ride]. Ai tempi del nostro primo tour, nel 2017, c’era chi sosteneva che facessimo una cosa scorretta, a partire dalla modifica dello strumento. Ma ne abbiamo discusso, cercato di capire dove fossero i problemi, perché in fondo io suono le mie composizioni, non ripeto delle pratiche rituali. E devo dire che col tempo questo è stato accettato. Oggi sono tornato a suonare all’interno della comunità, mi piace come difendono una cultura che sta scomparendo.

C: Hai dovuto adattare la tua musica a un diverso contesto?

TP: Non ci sono regole scritte, però alcune convenzioni sì. Su questo mi sono confrontato con il mio maestro, Abah Cece, che è scomparso qualche mese fa, e ho fatto mie le sue indicazioni. Una è che non si può suonare la tarawangsa come musicista di strada. La seconda è che non si deve suonare da ubriachi. Il resto è una questione di rispetto. Ad esempio, non suono mai per terra ma uso un tappeto. E non danneggio lo strumento, non faccio “cose alla Kurt Cobain”. Sto attento a non calpestarlo, nemmeno a scavalcarlo. Inoltre, anche con le mie composizioni non faccio musica da festa, non voglio riprodurre positive vibes. Questo perché la caratteristica di questa musica è di essere in minore, di avere un suono scuro, talvolta anche doloroso. Non voglio forzarla in dimensioni che non siano la sua. Sarebbe una violenza.

C: Immagino che anche la tua esperienza sia molto differente. Da una parte c’è una partecipazione religiosa e dall’altra un pubblico che magari è lì a far foto col cellulare da mettere sulle sue pagine social.

TP: È proprio il ruolo del musicista che è differente. Durante un concerto, il palco è nostro. Durante una cerimonia rappresentiamo solo una parte, così come chi danza, chi guida il rituale e gli stessi partecipanti che pregano. Ma soprattutto è diverso a chi ci rivolgiamo, perché un concerto dei Tarawangsawelas si rivolge alle persone presenti, mentre una cerimonia va a contattare anche dimensioni ultraterrene: già le prime orazioni invitano a partecipare gli spiriti dei nostri antenati. La musica è uno strumento che aiuta la connessione, che è lo scopo della cerimonia. Questo fa sì che anch’io mi senta del tutto differente. Sono molto più nervoso se devo suonare durante un rito, perché in un concerto posso impostare io la direzione, posso sbagliare, posso anche suonare male, al massimo deludo il pubblico, ma non vorrei mai deludere gli spiriti ancestrali.

C: Fino a una ventina di anni fa, era molto raro che le musiche provenienti da culture lontane arrivassero al grande pubblico occidentale. Oggi ne abbiamo accesso tutti, ma fatico sempre un po’ a collocare il confine tra l’ampliamento culturale e l’appropriazione. Alcune volte ho l’impressione che il pubblico vada a questi concerti con lo stesso spirito con cui nel secolo scorso si andava allo zoo. La tua esperienza, che è quella di un artista che vive nella contaminazione e nella collaborazione, qual è?

TP: Questo è un tema complesso ma molto interessante, capisco i tuoi dubbi. Non saprei nemmeno io dove collocare quel limite. Alcuni forse pensano solo alla “stranezza”, in altri casi pensano che sia semplicemente una cosa “antica”, qualcosa che esisteva prima dell’era moderna. Io non sopporto queste visioni. È molto complicato definire quali siano le condizioni ideali per noi, che veniamo da una lunga storia di colonizzazione. L’imperialismo ha sempre trattato le culture delle colonie come inferiori, presentandosi come una superiore società civilizzatrice. Questo fa sì che tutt’ora ci sia chi si sente superiore e chi si sente inferiore, magari solo perché più “vecchio” dal punto di vista tecnologico. Ma io non credo molto nella tecnologia, negli strumenti, nella digitalizzazione. Piuttosto credo nei modi in cui vengono utilizzate le tecnologie, nell’approccio mentale con cui si usano. Questo vale nella società tanto nella musica.

C: Per concludere, dimmi qualcosa di più su cosa aspettarsi da questo live allargato con Heith e Babau che proporrai a Milano.

TP: La musica dei Babau mi dà delle vibrazioni molto positive, ma in maniera strana. È una sorta di paradosso. È molto strana, anche rispetto alla scena indonesiana. Il modo in cui maturano certe idee compositive e le portano avanti è interessante perché ti porta a chiederti cosa ci sia di strano. A volte ti porta in atmosfere oscure, altre va in direzione opposta, è sempre sorprendente. Il lavoro di Daniele (Heith, nda) invece è più minimalista, più dark, ma con una gamma di emozioni molto ricca. E credo che proverò sensazioni nuove suonando con lui. In definitiva non so davvero cosa faremo. È tanti anni che non suono con Daniele, e non ho mai suonato con entrambi i Babau. Sarà interessante, e sono convinto che anche il pubblico sarà molto attento. E soprattutto suoneremo con un gran bell’impianto! Questa è una cosa che non esiste negli eventi DIY in Indonesia: gli impianti qui fanno sempre schifo. Ed è un peccato, perché è una parte integrante della strumentazione. Anche per questo sono felice quando vado a suonare all’estero.