Le città e i loro quartieri non sono universi definiti. Spesso mantengono una spina dorsale malleabile: porti aperti dall’identità sì forte, ma mai cristallizzata, soprattutto nei Paesi che hanno una storia coloniale importante. Ed è la forza di questo attrito che produce scintille creative e umane fondamentali al tessuto culturale di intere città. Raccontare i quartieri significa anche questo. Capire come si muovono, quali sono i flussi che li attraversano e che, di volta in volta, sostituiscono o integrano i vecchi, diventando i nuovi capisaldi di un piccolo nucleo che spesso finisce per diventare influente anche a livello macroscopico: cittadino prima, nazionale poi e molte volte perfino internazionale.
La musica è forse il testimone principe di questo tipo di movimento da macro a micro. La musica e la storia di Pongo (all’anagrafe Engracia Domingos da Silva) sono il caso di studio perfetto. La cantante, ballerina e performer Angolana, di base a Lisbona, ha già vissuto almeno due o tre vite nonostante abbia appena trent’anni. Il trasferimento traumatico dall’Angola al Portogallo; i traumi familiari e fisici; il successo ad appena quindici anni con la hit “Kalemba (Wegue Wegue)”, pubblicata dai Buraka Som Sistema e per la quale ha dovuto lottare dieci anni per vedersi riconosciuti i crediti di scrittura. Oggi quella che è la regina del nuovo Kuduro si gode la carriera solista, i tour mondiali e il riconoscimento del pubblico a ogni elettrizzante live.
L’abbiamo incontrata durante il Beaches Brew Festival, dove ha ammaliato tutti, sul palco e fuori. Un carisma elettrico sullo stage, con una performance che ha sollevato gli animi fin quando non ce la siamo ritrovata direttamente in mezzo al pubblico a ballare; uno sguardo allo stesso tempo tagliente e timido fuori, che lasciava tutti incantati a debita distanza.
Questa chiacchierata parte dal concetto che le città possono essere un elemento estremamente influente per lo sviluppo di un’artista. Qual è la tua visione?
L’ispirazione per la mia musica viene dall’Angola, nonostante oggi io viva a Lisbona. Ho lasciato l’Angola che avevo otto anni e, in un certo senso, ho lasciato la mia innocenza e felicità lì. Conservo gelosamente tutte le memorie della mia infanzia, anche perché, in un certo senso, mi fanno ricordare dove voglio arrivare, dove voglio andare e cosa sto facendo. Poi lì sono cresciuta in mezzo alla musica…
Nello specifico di che città parliamo?
Luanda! Il mio quartiere invece si chiama Hoji-ya-Henda. Mi sono trasferita a Lisbona a diciott’anni, ma già dai quindici mi ero avvicinata all’industria musicale. Nonostante il trasferimento, abbiamo sempre mantenuta viva la cultura e le tradizioni dell’Angola. Anche perché a Lisbona c’è una fortissima comunità angolana e nella mia famiglia la musica è sempre stata importante, faceva da collante. Sono cresciuta sognando di entrare a far parte di quel mondo, da bambina ero pronta a ballare in ogni festa e a mostrare a tutti cosa sapessi fare. Poi, da adolescente, a un certo punto mi sono rotta la gamba: ero depressa, il ballo era ciò che mi faceva sentire viva…
Immagino tu ti sia sentita completamente persa.
Sì, esatto. Pensavo di non poter mai più ballare. Poi, andando a fare fisioterapia, ho iniziato a incontrare sul treno questa crew di ballerini angolani che erano sempre alla stazione a ballare kuduro. Era intorno al 2007. Camminavo con le stampelle e cercavo di prendere il treno sempre alla stessa ora per non perdere nessuno nessuno dei loro show [ndr. ride]. Dopo un po’ di tempo mi hanno chiesto se volessi fare parte della crew e lì è stato un po’ il momento da film in cui ho mollato le stampelle e sono tornata a ballare.
Beh, una storia effettivamente bellissima!
Giuro, tutto vero! Poi, un giorno, mentre eravamo in un piccolo studio in un ghetto di Lisbona, mi hanno chiesto a che di cantar su un ritornello perchè la vocalist principale aveva dato buca. Ero timidissima, ma per divertimento ci ho provato e piano piano mi sono sentita sempre più a mio agio, anche perché la musica kuduro la conoscevo già benissimo.
Volevo chiederti proprio questo. Il kuduro è una musica tipicamente angolana e posso immaginare che a Hoji-ya-Henda, il quartiere in cui sei cresciuta, ne hai ascoltato tantissimo.
Sì assolutamente. A Luanda diciamo che il kuduro è “a musica do povo”, la musica del popolo. È uscito negli anni Novanta e anche quando ci siamo trasferiti abbiamo mantenuto la stessa identica cultura.
Com’era la vita a Hoji-ya-Henda dove e come si sentiva la musica?
In situazioni molto spontanee, dove ci si ritrova per stare insieme. Mio padre era molto vicino alla musica, era anche un ballerino. È stata una grande influenza per me ovviamente, mi ricordo che con mia sorella lo vedevamo ballare tutto il tempo e lui ci istigava a seguirlo, era sempre al centro dell’attenzione e io ho ripreso molto quell’attitudine. Lo imitavo, lo seguivo per feste. Mi ha anche insegnato a ballare il semba che è la musica più tradizionale dell’Angola: ogni angolano lo sa ballare. Quindi, insomma, anche crescendo era come dire tutto già…
…già parte di te
Sì esatto. Quindi incontrare quella crew in quel momento difficile della mia vita è stato fondamentale: persone della mia età con la stessa passione.
Immagino che la sensazione di sollievo ci sia stata anche perché il passaggio da Luanda a Lisbona probabilmente non è semplice?
Sì esatto, quello è il motivo per cui conservo gelosamente i ricordi dell’Angola. Trasferirsi è stato duro: l’adattamento, l’integrazione a scuola, la discriminazione razziale. Abbiamo subito tanti episodi di razzismo nel tempo.
Pensi che sia migliorata negli anni questa situazione?
È qualcosa con cui fare i conti tutti i giorni anche oggi. Non riesco a dire che sia meglio perché parliamo di cose che non dovrebbero succedere e basta. Non voglio pensare “il prossimo anno sarà meglio”: le cose devono cambiare, non devono più succedere. Anche nell’industria musicale.
Chiaro, capisco.
In ogni caso, tornando alla crew che ho incontrato alla stazione, loro conoscevano i Buraka Som Sistema e un bel giorno gli mandano una traccia che avevo registrato senza dirmi nulla, girandogli anche il mio numero. Mi arriva una chiamata da loro e mi chiedono di essere la loro nuova vocalist! Ovviamente questo mi ha dato un impulso nuovo e diverso: ho iniziato a scrivere tanto e così è uscito anche “Wegue Wegue”. Un tipo di approccio che viene dalla mia infanzia a Luanda: da bambini uscivamo per strada e facevamo musica con qualunque cosa trovassimo. “Wegue wegue” si può tradurre un po’ come “siamo i migliori” è un’incitazione che si usava nelle sfida di ballo tra quartieri a Luanda e poi anche a Lisbona.
Che bello! Quindi vere e proprie piccole sfide tra bambini di quartieri diversi…
Sì! E mi ricordo bene che avevamo creato la nostra piccola crew: ci incontravamo tutte le mattine a casa per fare le prove in maniera super seria. Ascoltavamo e imparavamo tantissima musica brasiliana, soprattutto samba, poi il soukous congolese, ma anche il semba o tanta musica americana. In quel periodo l’artista più famoso in Angola era Bonga e forse è stato il primo che mi ha fatto pensare di voler intraprendere quel tipo di carriera. Ricordo che avevo cinque anni ed ero a un festival dove suonava, tornata a casa ho replicato tutte le coreografie [ndr. ride]. Oggi posso dire di averlo conosciuto e di aver condiviso con lui il palco. Addirittura l’anno scorso, per il capodanno a Lisbona, mi ha fatto l’onore di suonare mentre ballavo con lui: un sogno!
Torniamo all’incontro con i Buraka Som Sistema che mi pare sia un momento cruciale della tua vita…
Sì anche perché avevo solo quindici anni. Ero ancora sotto l’influenza e il controllo di mio padre…
Lui era contento di quello che ti stava succedendo?
Sai, lui aveva avuto lo stesso sogno – diventare un artista famoso – e quindi, in un certo senso, lo stava vivendo attraverso me, però giudicandomi molto. Era anche molto possessivo e violento, si comportava come se ogni mio successo fosse in qualche modo anche suo, dovuto a lui. È stato il mio manager, ma voleva essere lui la star e ha fatto un sacco di errori. È stato lui che mi ha convinto a cantare “Wegue Wegue” per i Buraka Som Sistema, anche se l’avevo scritta prima. Poi il pezzo è uscito nel 2008 ed è stato un successo internazionale, loro mi hanno scaricato e poco dopo ho scoperto che non avevo nessun diritto e da lì è iniziata una battaglia che è durata dieci anni…
Però ora tu e la tua musica state viaggiando alla grande.
Sì, assolutamente. All’epoca era piccolissima, dovevo imparare tante cose, ho litigato con la mia famiglia per emanciparmi e per ottenere la mia indipendenza. Mio padre in quel periodo era anche un alcolista. Tutte cose che ti fanno maturare la voglia di scappare. E infatti io e le mie sorelle lo abbiamo fatto. Quando la musica è entrata nella mia vita l’ho vista subito come una via di uscita. E, guarda un po‘, oggi sono qui a suonare su una spiaggia con il mio progetto [ndr. ridacchia soddisfatta]