Nel 2006 usciva l’album Tradimento di Fabri Fibra, con un singolo, Applausi per Fibra, che divenne un tormentone e che riaprì la porta del rap al grande pubblico, dopo la prima grande ondata degli anni 90. Nuovi suoni, nuovi artisti, nuove parole. Applausi per Fibra fece breccia anche grazie al suo videoclip: regista Cosimo Alemà. Dieci anni – e centinaia di video – dopo, arriva Zeta, Alemà torna sulla „scena del delitto“, per raccontare la generazione nata e cresciuta in Italia con questo background musicale: «La musica rap è quasi l’unica musica, anzi, l’unica cultura musicale effettivamente condivisa e apprezzata, ho pensato di fare un film che potesse essere un po‘ un manifesto di questa generazione». Protagonista è Izi – rapper anche nella vita reale – che, partendo dalla periferia, cerca di sfondare nella musica, con tutti gli stravolgimenti umani che un processo del genere comporta. Ne abbiamo parlato direttamente con Cosimo Alemà che, grazie ai tantisismi videoclip girati, è riuscito ad affiancare ai tre protagonisti un cast che sembra il cartellone di un festival: Baby K, Briga, Clementino, Ensi, Fat Mc, Fedez, J-Ax, LowLow, Metal Carter (Marco De Pascale), Noyz Narcos, Rancore, Salmo, Shablo, Shade, Tormento.
Come e quando nasce Zeta?
Zeta nasce nell’estate del 2014, meno di due anni fa. Da una parte c’è stata la mia volontà di fare un film, dall’altra l’idea che mi portavo appresso con i miei soci da un po‘ di tempo, vale a dire che prima o poi avremmo dovuto coniugare gli anni di lavoro fatti nella musica con i video e il cinema. A un certo punto ho pensato che questo potesse avvenire parlando di rap, un fenomeno così diffuso, di cui, oltretutto, mi sono occupato in prima persona negli ultimi 10-15 anni collaborando ai video di artisti molto importanti.
Hai voluto raccontare il fenomeno rap in Italia attraverso una storia, oppure la storia di un ragazzo con la passione per la musica, che al giorno d’oggi all’80 90 percento si tratta di musica rap?
In realtà entrambe le cose. Essendomi reso conto che oggi per i teenager – ma anche per i ventenni – quella rap è quasi l’unica musica, anzi, l’unica cultura musicale effettivamente condivisa e apprezzata, ho pensato di fare un film che potesse essere un po‘ un manifesto di questa generazione. Parlare dei suoi sogni che, come per ogni generazione che si rispetti, hanno anche a che vedere con la musica e con lo sfondare nella musica. Abbiamo tentato di raccontare una storia piccola, di un personaggio che viene dalla periferia, che non ha nessuna carta facile in mano e che prova a farcela partendo dal basso.
Come descriveresti un ragazzo italiano che ascolta rap, come te lo immagini?
Ci rivedo un po‘ le caratteristiche – e questo mi sembra l’aspetto in assoluto più positivo – di tutti i ragazzi che da decenni vivono la musica come una passione. Mi ci metto anch’io in questa categoria, pur avendo ormai 45 anni. Negli adolescenti che mi capita di frequentare, rivedo tantissimo di me, quando negli anni 80 seguivo la musica con la stessa curiosità e la voglia di scoprire mondi, suoni, dischi, gruppi. Io ero interessato alla new wave, al punk, ho quel background lì. Le cose però non mi sembrano così diverse; ci rivedo, per l’appunto, tanto di quell’essere “nerd”: avere una passione che determina l’attitudine a fare le cose, il modo di vivere nel posto in cui si vive. Ci vedo anche il voler far capire di essere diversi: è la stessa urgenza che avevamo noi 30 anni fa. Diversi e inadeguati rispetto alla società, quella “imposta”.
L’anagrafe mi permette di chiederti se e come hai vissuto la prima ondata rap in Italia, quella degli anni 90.
Sì, l’ho vissuta e l’ho seguita: essendo cresciuto a Roma in quegli anni era impossibile non accorgersi stesse succedendo qualcosa. Però i miei gusti puntavano altrove: il cinema mi appassionava già molto più della musica. In generale, il rap italiano anni 90 mi è sembrato un fenomeno embrionale: la vedo più come una sperimentazione che gli artisti di un Paese come il nostro facevano per appropriarsi di un linguaggio e di un mondo esterno.
Le prime cose rap che mi hanno colpito in realtà sono più recenti, appartengono agli ultimi dieci o dodici anni. Zeta è un film che racconta questo rap, un rap del presente, anzi, considerando il protagonista, Izi, che è giovanissimo, possiamo anche parlare di un rap del futuro. Ho cominciato ad apprezzare gli artisti rap con la seconda ondata, quella che individuo dall’uscita “mainstream” di Fibra. Ho iniziato a lavorare con lui proprio in quel momento: mi ricordo che quando abbiamo fatto Applausi per Fibra ho avuto la sensazione che quel singolo sancisse un po‘ l’inizio di una Seconda Repubblica del rap, che è quella cui mi sento più vicino. Del rap old school ci sono cose che fanno parte del mio background, soprattutto le cose romane, ad esempio Cor Veleno o Ice One, realtà che ho seguito e apprezzato, ma mi sento molto più in linea con quella che è stata l’evoluzione, con quello che il rap è oggi, insomma. Mi sembra un rap più competitivo, al passo con quello che succede all’estero.
Hai visto qualche film che parlasse di rap per trovare ispirazione?
Ne ho visti parecchi in generale, sono sempre stati nei film che ho seguito volentieri, semplicemente essendo onnivoro sia al livello cinematografico che musicale. Qualsiasi film che è legato a una cultura giovanile musicale, per me è interessante a priori. Sin dagli anni 80 ho seguito l’evoluzione dei film che, o in maniera indiretta o diretta, parlassero di hip hop. Possono avere influenzato Zeta? Sì, ma in maniera molto generica. Vedi, quando uno ha l’idea per un film, tutto vuole fare tranne che vederne di simili per trarne ispirazione, anzi è l’unico momento in cui tenti di non vedere niente. Ad esempio, mentre stavamo facendo le riprese, è uscito Straight Outta Compton e nessuno di noi è andato a vederlo, lo abbiamo recuperato solo a riprese finite.
E ti è piaciuto?
Parecchio. È un film americano “mainstream”, un po‘ classico e accademico, soprattutto nella scrittura, per cui ti chiedi se effettivamente le situazioni siano avvenute così come sono mostrate. In generale è un lavoro molto godibile, che si rivolge a un pubblico vastissimo. Con Zeta ho tentato di aggiungere un elemento realistico, forse tipicamente europeo, che potesse rendere credibile il film anche nella semplicità della storia.
I tanti videoclip che hai diretto ti hanno aiutato nel girare Zeta?
Faccio video da 20 anni, quindi il mio linguaggio cinematografico si è inevitabilmente formato sulla musica, anche se poi video e film hanno caratteristiche molto diverse, seppure si compenetrano. Ho sempre un’attenzione ai ritmi, all’aspetto “visual” delle immagini, alle atmosfere. In questo film, dalla musica molto presente, c’è l’idea “cosmica” di dar vita a un connubio stretto tra quello che stai guardando e quello che stai ascoltando, cercando di creare una cosa sola. Zeta è interessante da questo punto di vista: molti dei brani della colonna sonora sono stati scritti sulla sceneggiatura, è come se i testi rap del film portassero avanti la narrazione.
Chi ha scritto le musiche?
Gli artisti coinvolti nel film. Alcuni sono brani di repertorio, scelti perché in linea con i contenuti del film, altri sono stati scritti ad hoc da Izi, il protagonista, assieme a Shablo ed Ensi. Infine ci sono tutti gli altri artisti che hanno fatto un lavoro di studio su scene e sceneggiature, mettendo in rima contenuti specifici che hanno una vita propria, specialmente quando vengono utilizzati come colonna sonora di determinate sequenze e si trasformano in racconto.
Nel film ci sono tantissimi rapper italiani, con ruoli più o meno grandi: li conoscevi tutti e li hai contattati personalmente per chieder loro di prendere parte alle riprese? Ce n’è qualcuno che ti ha sorpreso come attore?
Sì, li conoscevo tutti di persona, tranne Rocco Hunt e Shade. Con la maggior parte di loro avevo già lavorato, quindi sapevo cosa aspettarmi, i punti deboli e i punti di forza e che ruolo avrei potuto dare loro nel film. Sono stati tutti abbastanza sorprendenti per l’approccio e per come si sono amalgamati: assolutamente naturali quando interpretano se stessi, credibili quando interpretano altri ruoli. È stata una bellissima sorpresa.
Al protagonista, Izi; come ci sei arrivato? Perché hai scelto lui?
Ci sono arrivato perché a un certo punto abbiamo capito che avremmo dovuto prendere un rapper e farlo recitare e non il contrario. Prendere un attore e farlo cantare sarebbe stato impossibile. Ho cominciato a guardarmi intorno, a fare una serie di incontri: avevo una rosa di artisti che mi interessava, ma non vi convinceva in pieno. Si è trattato di una ricerca difficile: da una parte volevo un artista giovane, ma con un piglio subito riconoscibile, perché ero e sono convito che questo dovesse essere uno dei punti di forza; dall’altra mi serviva un ragazzo che potesse sostenere un film tutto su di lui, sia fisicamente che come doti di recitazione perché, ti garantisco, che ci sono scene impegnative per qualsiasi attore, quindi figuriamoci per un non attore. Avevo bisogno anche di un ragazzo che in qualche modo potesse considerare il vissuto del personaggio come suo, riconoscerlo e dargli credibilità.
A un certo punto mi è arrivata la chiamata di una mia amica, Paola Zukar – la manager di Fabri, Marracash, Clementino, etc. -, che mi ha segnalato questo ragazzino genovese appena conosciuto tramite Moreno. Ho guardato un video, una fotografia e il giorno dopo gli abbiamo pagato un treno per incontrarlo a Roma e ho capito subito fosse la persona che cercavamo. Da una parte mi piaceva molto la sua musica, dall’altra, un po‘ incredibilmente, la storia del film era davvero la sua. Quando ha letto la sceneggiatura era incredulo e anche commosso, perché quanto avevamo scritto tempo prima, senza conoscerlo, era in tutto e per tutto la sua storia. Quando abbiamo deciso che Izi sarebbe stato il protagonista del film, abbiamo cominciato a ragionare in una maniera quasi inversa: avremmo riscritto il personaggio tenendo conto della sua storia e non tentando di fare aderire lui al personaggio. A partire, per esempio, dal fatto che il personaggio ha il diabete, cosa che Izi ha sul serio.
Il film è girato a Roma, giusto?
Sì, il film è completamente girato a Roma, ma Roma non è mai nominata. È stato girato in posti di periferia o nei club, non c’è un’immagine che possa essere riconosciuta se non da chi conosce bene le periferie. Volevo che qualunque spettatore di qualunque città potesse riconoscere una sorta di periferia del Mondo. Nel film il protagonista viene da una famiglia di genovesi, che si è trasferita a Roma da qualche anno, quasi una migrazione al contrario. Poi se consideriamo anche tutti gli artisti coinvolti, ne esce fuori un crogiolo.
Il momento più divertente e quello più difficile delle riprese?
Di momenti divertenti ce ne sono stati parecchi; è stato un film eccitante per tutti quelli che ci hanno lavorato, siamo stati per giorni sempre in mezzo a situazioni musicali. Mi ricordo il giorno in cui abbiamo fatto questo finto after party dove erano presenti alcuni artisti – Shablo, Clementino – e poi c’era Salvatore Esposito. Era la prima scena che giravamo con lui, che è uno dei personaggi principali ed è l’unico “falso” rapper del film. Il suo personaggio è uno alla Marra, ha una sua etichetta, tipo Roccia Music, e scopre talenti. Nel film canta alcuni brani e quella lì era la prima volta in cui si comportava come un rapper, mentre era circondato da veri rapper, una dinamica abbastanza assurda. Il momento più tosto è stato forse l’ultima delle sette settimane di ripresa, in cui abbiamo girato tutti i live e soprattutto la battle di free style. Ci siamo chiusi in un club (il Rashomon, nda) per sei/sette giorni, con tutti gli artisti del cast da gestire: Ensi, Shade, Clementino, Noyz Narcos, Salmo…. È stato molto faticoso, chi c’era se lo ricorderà.
Preferisci girare videoclip o lungometraggi?
Lungometraggi. I film sono un’esperienza extraterrena, il respiro che ha un film è qualcosa di unico, è un lavoro che assorbe uno o due anni della tua vita, in maniera continuativa. È un qualcosa che riguarda anche i film non buoni. Sono opere che rimangono nel tempo, che fotografano qualcosa. I video sono un prodotto perfetto da consumare e godibile anche da girare – ne ho fatti più di 500, se non piacciono a me -, ma sono progetti che in un paio di settimane si concludono e si bruciano con altrettanta rapidità. Quando riguardo dei video anche solo di dieci anni prima, mi rendo conto che il gusto, certi stilemi, sono completamente cambiati. Quasi tutti i video risultano datati anche solo dopo pochi anni. Con i film hai la sensazione di fare qualcosa di più importante, anche perché il ruolo stesso dei film è importante nella crescita e nella cultura delle persone; sono opere che formano. Formano il gusto, i mondi che ci rappresentano.
Un’ultima domanda, ti è capitato di vedere Numero Zero di Enrico Bisi? Diciamo che è l’altro recente „caso“ cinematografico sul rap italiano di cui si è parlato molto.
Guarda c’è stata tanta confusione a riguardo: Zeta e Numero Zero sono due cose diverse, un film e un documentario, che è come paragonare un disco e un libro. Ho guardato i trailer, ma non ho ancora avuto occasione di vederlo, anche perché non ne ho particolare urgenza. Alla fine Zeta è un film sul rap, ma fino a un certo punto; è la storia di uno che vuole fare il rapper, ma il fulcro, le emozioni del film sono altrove. È la storia di tre ragazzi, due dei quali si innamorano. Sarebbe come dire che Rocky è un film sul pugilato. Rocky è un film su un uomo che tenta di farcela in un mondo molto ostile, il fatto che faccia pugilato è „accessorio“. Ecco, proprio per questo motivo spero che Zeta piaccia a tutti, come Rocky non è piaciuto solo ai fanatici della boxe. È un film con tanta musica, che racconta di un ragazzo che vuole fare quello, ma alla fine è un film che parla di rapporti umani, situazioni, di scelte. Di scelte sbagliate.