Per diaspora si intende il fenomeno di dispersione geografica di un gruppo di persone rispetto al loro posto originale. In principio, il termine fu utilizzato per descrivere lo stato degli ebrei viventi fuori dalla Palestina. Negli ultimi anni, però, sebbene nato all’inizio degli anni novanta, quello della diaspora africana (o meglio delle diaspore) è diventato un tema prepotentemente parte dei discorsi riguardanti il “continente”, definendone quasi i contorni e costituendo una sorta di cornice teorica, come se l’itineranza e la migrazione possano rappresentarne l’essenza. Basti pensare al più recente, e anche più raro, utilizzo del termine in ambito accademico per riferirsi all’attuale fenomeno migratorio africano.
Sebbene un giudizio del genere non potrebbe che risultare approssimativo e inesatto, è innegabile che, ad oggi, le comunità di discendenti africani formatesi principalmente nelle Americhe devono mettere in conto – almeno per quanto riguarda una parte della loro identità postcoloniale – la deportazione degli schiavi della tratta atlantica dall’ovest e centro dell’Africa, la quale tesse tramite un filo la loro appartenenza al continente. Da questo punto di vista, il fenomeno migratorio è una lente fondamentale attraverso la quale leggere il problema di tali identità contemporanee e sfidare al contempo i concetti importantissimi e dalla provenienza eminentemente euro-atlantica, di società, persona e persino di cambiamento.
Il crescente interesse riguardante le diaspore e la commistione tra gruppi sociali e individui in quelle che sono zone di contatto/zone di confine tra culture ha portato a concepire un nuovo linguaggio descrittivo che si concentri più sugli “ethnoscapes”: paesaggi di persone che compongono (dal turista all’immigrato, dall’autoctono in movimento al rifugiato e all’illegale) il nostro mondo mutante. Sono proprio tali ethnoscapes a generare l’ambiente ibrido in cui varie culture possono fondersi, nella negoziazione e costruzione delle identità degli individui itineranti. Tutto ciò, in fondo, non è che parte dello sguardo che tenta di cogliere e rendere manifesto il sincretismo emergente e totalizzante della nostra epoca.
Su questo spirito, Atlantico Festival lancia il suo invito, potendo contare su un’esplosione multisensoriale di voci, immagini e suoni che vanno dagli approcci più contemporanei e plurali della gnawa dei bolognesi Fawda trio insieme al producer e musicista Brothermartino al jazz infettato di hip-hop e afro-beat che passa per la Londra dell’Ezra Collective, dal balafon del maliano Kalifa Kone e il suo ensemble fino al jazz polveroso e imbastardito di Don Karate e alle selezioni di Dig This Way Records, Biga il Climatico e Andrea Mi.
Un percorso che comincia inoltre incontrando le pellicole di Newton I. Aduaka, Alain Gomis e Theresa Traoré Dahlberg, nell’esplorazione di temi quali l’identità, l’ineguaglianza e i rapporti di genere dalle tenute comunali del sud di Londra, passando per Kinshasa e un centro di formazione per ragazze in Burkina Faso, e finisce (in bellezza) con la presenza di Dudu’ Kouate degli Art Ensemble of Chicago, in occasione della presentazione dell’edizione italiana del libro di Paul Steinbeck, dedicato alla storia del gruppo.
Atlantico festival si trova così nel solco dei più moderni approcci che vedono al centro un sostanziale cambio di focus e un allargamento inclusivo di voci e protagonisti che possano contribuire ad arricchire o, dove necessario, cambiare la rappresentazione dell’Africa e di coloro che la abitano, riconoscendo che un discorso che renda giustizia al continente non si basa solo sulla ricerca di una battaglia politica ma, finalmente, su quella ancora più importante dell’immaginario, lasciando spazio non solo al testo scritto ma anche alla musica, alle immagini, alla fiction e all’autobiografia e permettendo così a tutte quelle storie che compongono la Storia, di emergere.
Queste riflessioni, oggi come oggi, checché se ne pensi, in uno spazio mediatico (e non solo a torto) occupato da discorsi e notizie sulla migrazione e l’etnicità, sono di vitale importanza e riguardano più che mai persone e comunità come noi, che più o meno attivamente fanno quotidiana esperienza di esodi e diaspore, di ibridazioni e melting pot e la cui identità deve fare i conti con un altro che, ultimamente, viene sempre più identificato col pirata e l’invasore.
Se Atlantico vuole, stando a ciò che l’organizzazione scrive, riconoscere la diversità e le differenze, ricordando – come affermava il poeta martinicano Edouard Glissant – che “ogni identità esiste nel rapporto con l’Altro”, questa è l’occasione perfetta, fuori da ogni retorica o esotismo, per fare un passo responsabile verso un altro che sempre più viene negato e occultato e per riscoprire che i confini tra noi e quest’ultimo sono tutt’altro che netti.
Written by Luigi Monteanni